TIBULLO
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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TIBULLO,  MORTE E AMORE, I 3

 

 

Andrete senza me per l’onde egee,

Messalla: oh siate memori di me!

Me trattiene ammalato in suolo ignoto

la terra dei Feaci. Tu lontane

tieni, Morte, da me le avide mani,

lontane, ti scongiuro, nera Morte.

Qui mia madre non è, che al doloroso

grembo le mie arse ceneri raccolga,

non la sorella che profumi assiri

vi sparga e con le chiome scarmigliate

si sciolga in pianto sopra il mio sepolcro.

E neanche Delia c’è, che, al mio partire

da Roma, consultò prima, si dice,

tutti gli dèi. Tre volte da un ragazzo

trasse le sacre sorti e n’ebbe sempre

chiari responsi: tutti assicuravano

il mio ritorno. Ma lei non si astenne

mai dal piangere e dallo stare in ansia

per il viaggio. E anch’io, che mi sforzavo

di consolarla, pur avendo tutto

predisposto, cercavo sempre nuovi

indugi alla partenza, ora adducendo

a pretesto gli auspici sfavorevoli,                                                                                                             

ora i sinistri presagi, ora il giorno

nefasto di Saturno. Oh quante volte,

messomi in via, dissi che il piede, urtando

sulla soglia, mi dava tristi segni!

Nessuno mai si attenti di partire

se Amore non lo vuole o sappia almeno

di avere trasgredito al suo volere.

Che mi giova, ora, Delia, la tua Iside?

Che mi giovano i sistri tante volte

scossi dalla tua mano? E, pia osservando

i sacri riti, quel bagnarti in acque

purificanti e quel giacere sola

castamente, ricordo, nel tuo letto?

Ora, ora, ti prego, dea, soccorrimi

(che puoi guarirmi lo attestano i molti

quadretti appesi nei tuoi templi): in cambio

la mia Delia, sciogliendo i voti, sieda

davanti alla tua sacra porta, cinta

di lino e, coi capelli sparsi, intoni

ogni giorno due volte le tue lodi,

spiccando in mezzo alla turba di Faro.

A me sia dato invece celebrare

i paterni Penati ed ogni mese

offrire incenso al nostro antico Lare.

Come vivevano felici al tempo

del re Saturno, prima che la terra

si aprisse a interminabili viaggi!

Ancora non aveva le onde cerule

sfidato il pino e dispiegato ai venti

le vele, né, sospinto dalla fame

di guadagni, il mercante in terre ignote

aveva caricato di straniera

merce la nave. Non aveva il toro

vigoroso piegato il collo al giogo,

né il cavallo mordeva con la bocca

domata il freno; non c’erano porte

nelle case, non lapidi nei campi

che ne delimitassero i confini.

Da sole davano le querce il miele,

spontaneamente offrivano le agnelle

le poppe colme di latte a quegli uomini

beati. Non eserciti, non odio,

non guerre; non aveva lo spietato

fabbro forgiato con arte crudele

la spada. Ora che regna Giove, sempre

eccidi e ferimenti, ora l’infido

mare e dovunque la morte in agguato.

Salvami, padre Giove! Non spergiuri,

né bestemmie scagliate ai sacri numi

me, timorato qual sono, atterriscono.

Se però sono giunto al corso estremo

della vita assegnatami dal fato,

concedi che una lapide sia posta

sul mio sepolcro con queste parole:

Qui giace, consumato da crudele

morbo, Tibullo, mentre accompagnava

il suo Messalla per terra e per mare.

Me, poiché sono stato sempre al tenero

Amore incline, me la stessa Venere

condurrà ai campi Elisi. Qui trionfano

danze e canti; e, volando qua e là,

intonano gli uccelli con la gola

sottile deliziose melodie,

non coltivata spunta la cannella

e all’intorno, per tutta la campagna,

è un profluvio di rose profumate;

una schiera di giovani e fanciulle

scherza gioiosa e Amore accende sempre

nuove battaglie. Laggiù sono tutti

gli amanti su cui scese la rapace

Morte: i tersi capelli avvolge il mirto.

La sede dei malvagi invece è immersa

nelle tenebre e tutto intorno mugghiano

fiumi dai neri gorghi. Con grovigli

di feroci serpenti per capelli

Tisifone imperversa e l’empia turba

da una parte e dall’altra si disperde.

Cerbero spaventoso sull’entrata

dalle bocche di serpe manda sibili

e fa la guardia alle porte di bronzo.

Laggiù sulla veloce ruota girano

le ree membra d’Issìone che osò

insidiare Giunone; e Tizio, steso

per nove iugeri di terra, pasce

col nero fegato i voraci uccelli.

Laggiù è Tantalo e intorno ha dei laghetti:

ma, quando sta lì lì per bere, l’onda

rapida elude la sua sete ardente;

e la prole di Danao che infranse

i sacri nodi di Venere, versa

l’acqua del Lete in anfore sfondate.

Vada laggiù chi ha violato il mio amore

e m’ha augurato una lunga milizia.

Ma tu fedele restami, ti prego,

mio buona Delia; e sempre accanto, vigile

custode al tuo pudore, abbi la madre.

Ella ti narri favole ed accosto

alla lucerna lunghi stami tragga

dalla ricolma rocca, mentre ai gravi

pennecchi intenta lì presso l’ancella,

vinta dal sonno e stanca, a poco a poco

lasci di mano cadere il lavoro.

Oh possa io allora giungere improvviso

e non m’annunzi alcuno, ma davanti,

come sceso dal cielo, ti compaia!

Allora, come tu sarai, coi lunghi

capelli sciolti e i piedi nudi, vola

ad abbracciarmi, Delia. Un così splendido

giorno a noi porti la candida Aurora

coi suoi cavalli dal color di rosa.

 

 

                                                                        Pietro Rapezzi

 

Nell'immagine: Tibullo in casa di Delia, di Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), Museum of Fine Arts, Boston (1866).

 

 

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