La traduzione italiana di En. II,1 e III,718;
 

 

 

 

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Sulla traduzione di Aen. II, 1 e III, 718

di Giulia Regoliosi

 

Conticuere omnes intentique ora tenebant

Conticuit tandem factoque hic fine quievit

Sono i versi che iniziano il II e concludono il III libro dell’Eneide, cioè i versi che racchiudono il racconto di Enea. Notiamo anzitutto che i verbi di modo finito sono quattro, di cui due si richiamano, anche metricamente: l’elisione di -r(e) nel primo verso, che accorcia la parola unendo l’ultima sillaba alla parola successiva, accentua il richiamo a distanza, già presente nell’uguaglianza del verbo. Questa corrispondenza mi fa mettere in dubbio che il cum- preverbo del primo verso rafforzi omnes (tacquero insieme tutti), perché Enea tace da solo; quindi accedo di più all’idea (si veda M.Morani, Introduzione alla linguistica latina, Lincom, München, 2000, pag. 269 e 272) che il preverbo rilevi il valore puntuale/ingressivo (si zittirono o si misero a tacere: Leopardi traduceva ammutirono): la sala del banchetto si zittisce di colpo; d’altra parte il racconto di Enea termina bruscamente con la morte di Anchise, lasciando in sospeso tutta la vicenda siciliana, già accennata nel primo libro e ripresa nel quinto, perché il dolore della perdita inattesa prevale sugli aspetti più aneddotici dell’accoglienza. Il terzo verbo di modo finito, quievit, in allitterazione con conticuit come -qu’ora è in allitterazione con conticuere (inoltre l’allitterazione conticuit-quievit forma chiasmo con l’allitterazione interna factoqu’hic fine) dice più che il silenzio: è il pacificarsi del cuore dopo che il dolore è stato raccontato, la fatica del ricordo compiuta, il significato recuperato. Servio interpreta quievit come andò a dormire: lo trovo molto improbabile. Penso che si quietò possa renderlo, o anche qualcosa di più forte, come si pose in pace. L’importante è rendersi conto che il IV libro inizia con at regina: sia la pace di Enea, sia eventualmente il sonno, sono in opposizione con l’inquietudine della regina, già segno della tragedia imminente.

L’altro verbo di modo finito, tenebant,  è in opposizione aspettuale rispetto ai  tre predetti: indica l’azione durativa dell’ascolto che si prolunga per tutto il racconto, quindi virtualmente per due libri: notiamo all’inverso i due imperfetti del penultimo verso del III libro, riferiti ad Enea che unus…/ renarrabat… docebat. Ma sia tenebant sia ora sono polisemici: il verbo significa sia dirigere sia trattenere, il sostantivo  sia volti sia bocche: quindi il sintagma può significare volgevano i volti, oppure frenavano le bocche: il primo significato sarebbe rafforzato da intenti (tesi, attenti) il secondo riprenderebbe  conticuere, indicando il perdurare dell’azione momentanea: si misero a tacere…restavano in silenzio. Ma è conservabile nella traduzione la polisemia? Per lo più la scelta è di esprimere il primo significato; dei testi riportati più avanti solo Bacchielli mi sembra esprima il secondo con qualche tentativo di conservare il primo : muti tenendo nell’attesa il labbro.

Alcuni traduttori rendono poi intenti in riferimento ad ora, invece che al soggetto:  tenevano intenti  gli sguardi (Vergara). Anche Leopardi traduceva fissi in lui / teneano i volti. A parte la libertà sintattica, dimenticano intentis omnibus del terzultimo verso del III libro.

 

Riporto ora alcune traduzioni: oltre alle osservazioni fatte qua e là, mi soffermerò su quievit (purtoppo Leopardi traduce solo il II libro)

Annibal Caro: Stavan taciti, attenti e disiosi / d’udir già tutti, quando…

                   ….fece qui fine e tacque

Il  secondo verso è ridotto ed elimina  quievit.

Calzecchi: Tacquero tutti e intenti il viso tendevano

                E tacque, infine, e qui pose termine al racconto e finì.

Quievit è tradotto finì, con un’ulteriore ripresa dell’idea già espressa ampiamente. Penso che l’intenzione della traduttrice sia di conservare la parola breve con forte accento, più che il concetto banalizzato.

Vivaldi:      Tacquero tutti: gli occhi intenti al viso di Enea / pendevano dalle sue labbra

                 Poi finalmente tacque / pose fine al suo dire, stanco si riposò

L’idea del porsi in pace, del riposo, è interessante, ma mi sembra troppo accentuata dall’aggettivo, come se fosse solo la stanchezza del lungo parlare.

Albini:        Tacquero tutti, con gli sguardi a lui

                   E qui si tacque / giunto a la fine, e fu sua voce cheta

Quievit è reso con la ripetizione dell’idea del silenzio. Interessante però la scelta etimologica dell’aggettivo 

Bacchielli  Tutti tacquero allora, attenti e fissi / muti tenendo nell’attesa il labbro

                    …alfin si tacque, e ancor taceano gli altri

Traduzione ridottissima, che costringe il traduttore ad un’aggiunta bizzarra: perché poi gli altri non potevano finalmente parlare, magari commentando?

Vergara      S’azzittirono tutti, tenevano intenti gli sguardi

                   Tacque alla fine e avendo concluso stette raccolto

Quievit  sarebbe azione puntuale, quindi l’idea della durata (stette) è scorretta. Però l’immagine mi piace.

Baldassarre  Si fece silenzio. I volti stavano intenti /al padre Enea…

                       Qui mise fine al racconto e tacque, posò.  

Posò per quievit mi sembra accettabile: anche questa parola ha la brevità e il forte accento, senza la banalità del finì della Calzecchi.

 

 

 

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