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O R A Z I O  L I R I C O

 

 

ESPERIMENTO DI TRADUZIONE DALLE  Odi

 

alcaiche: I 9, A TALIARCO; II 3, A DELLIO; II 14, A POSTUMO

archilochee: I 4, A SESTIO; IV 7, A TORQUATO;

asclepiadeo maggiore: I 11, CARPE DIEM

saffiche: I 22, COSCIENZA PURA; II 8, A BARINE; III 22, A DIANA



Nota alla traduzione delle Odi di Orazio

 

  

I 9, A TALIARCO  Monte Soratte

 

Guarda il Soratte come spicca candido

di neve alta e al peso più non reggono

le selve affaticate e per la morsa

gelida i fiumi si sono fermati.

 

Dissolvi il freddo, sopra il focolare

mettendo legna su legna e da un’anfora

sabina vino puro di quattr’anni

spilla, o Taliarco, generosamente.

 

Agli dèi lascia il resto: appena i turbini

che sul bollente mare si scatenano

hanno prostrato, più nemmeno antichi

frassini vedi e cipressi agitarsi.

 

Cosa domani ti accadrà non chiedere:

qualunque giorno ti sia dato, ségnalo

a profitto e le danze e i dolci amori,

giovane come sei, non disprezzare,

 

finché è lontana l’uggiosa canizie

dalla tua verde età. Ora ti aspettano

il campo marzio, le piazze, i bisbigli

cheti ai convegni, sul far della notte,

 

ora le risa gradite che sfuggono

alla fanciulla nascosta in un angolo

e il pegno tolto a forza dalle braccia                         

o dalle dita per finta ribelli.

 

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II 3, A DELLIO

 

Sia nell’avversa che nella prospera

fortuna serba sereno l’animo:

non atterrato, né alle stelle,                                                                        

Dellio: alla morte non hai riparo

 

o che tu viva sempre affliggendoti

o che, in tranquillo prato adagiandoti,                                                                            

in ogni dì festivo goda                                                                       

vino Falerno del più invecchiato.

 

Perché il gran  pino col pioppo argenteo

ombra ospitale danno abbracciandosi?

Perché si affanna a saltellare

l’onda fuggente per via tortuosa?

 

Qui vino e unguenti fa’ che ti portino

e belle rose dal fiore effimero,             

finché hai sostanze, età e le nere

Parche il tuo filo non hanno rotto.

 

Dovrai lasciare montani pascoli,                                                          

palazzo e villa sul biondo Tevere:                                            

dovrai lasciarli: e di ogni bene

accumulato godrà un erede.

 

Che tu sia ricco, dal ceppo d’ Ìnaco

disceso, o viva nella più squallida

miseria, non importa: all’Orco

inesorabile andrai comunque.

 

Tutti in un luogo siamo sospinti,

di tutti l’urna le sorti agita,

che prima o poi di là usciranno

per imbarcarci ad esilio eterno.

 

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II 14, A POSTUMO

 

Ahi come rapidi, Postumo, Postumo,

scorrono gli anni! Né la devozione     

ritarderà d’un attimo le rughe,

la vecchiaia incalzante, l’indomabile

morte, nemmeno se per ogni giorno

che fugge, amico, plachi con trecento

tori l’inesorabile Plutone,

che il mostruoso Gerìone e Tizio

rinserra in quella squallida palude,

le cui acque dovremo tutti noi

che consumiamo i frutti della terra

attraversare, umili o potenti.

Invano ci asterremo dal cruento

Marte e dai flutti del mugghiante Adriatico,

invano temeremo l’autunnale

scirocco deleterio alla salute.

Dovremo del Cocìto tenebroso

vedere l’onda torpida e la schiatta

di Dànao malfamata e il figlio d’Eolo,

Sìsifo, condannato a eterna pena:

dovremo terra e casa e la diletta

sposa lasciare, né alcuno di questi

alberi che coltivi, eccetto il tetro

cipresso, seguirà il padrone effimero.

Più degno erede si berrà il tuo Cècubo

da cento chiavi protetto ed il suolo   

bagnerà di quel vino, più superbo

di quello delle cene dei Pontefici.

 

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I 4, A SESTIO

 

Si scioglie l’aspro inverno al dolce soffio

di Zefiro a primavera,

le chiglie ferme all’asciutto ripigliano il mare,

più non gode il bestiame della stalla,

né il contadino del fuoco,

più i prati non biancheggiano

di candide brine.

 

Già Venere Citerea guida le danze

al chiarore lunare

e le Grazie leggiadre per mano alle Ninfe

con piede alterno battono la terra,

mentre Vulcano visita

tra bagliori di fiamme

le cupe fucine dei Ciclopi.

 

Ora è tempo di cingersi il capo lucente

con verde mirto

o coi fiori che dalle zolle dischiuse rinascono,

ora nei boschetti sacri folti d’ombra

è tempo d’immolare a Fauno,

sia che chieda un’agnella

o prediliga un capretto.

 

Con piede uguale la pallida Morte

batte alla porta dei tuguri

e dei palazzi regali.

O fortunato Sestio,

il breve corso della vita ci vieta

di accarezzare una lunga speranza.

Presto ti premerà la notte,

e i Mani favolosi,

 

e l’esangue dimora di Plutone,

dove una volta entrato

non potrai sorteggiare coi dadi il re del convito,

né ammirare il tenero Lìcida,

per il quale ora ardono tutti i giovani

e presto si scalderanno le fanciulle.


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IV 7,  A TORQUATO

 

Sono scomparse le nevi, tornano l’erbe ai campi,

agli alberi le foglie:

rinnova le sue forme la terra e i fiumi, quieti,

rispettano le sponde.

 

La Grazia con le ninfe e le sorelle audace

guida nuda le danze.

A non crederti eterno t’insegna l’anno e l’ora, che la vita 

col giorno ci rapisce.

 

Mitiga il freddo Zefiro, la primavera è vinta dall’estate, anch’essa

destinata a perire,

appena il fruttifero autunno avrà profuso le sue messi; e subito

torna l’inerte inverno.

 

Presto le lune tuttavia riparano le loro perdite; noi,

una volta caduti

dove il pio Enea, dove il ricco Tullo ed Anco,

polvere ed ombra siamo.

 

Chissà se alla somma di oggi un altro domani vorranno

aggiungerti i Celesti? 

Tutto quello che avrai concesso al tuo cuore sfuggirà alle mani

avide dell’erede.

 

Quando sarai disceso nell’Ade e avrà dato di te il suo giudizio

Minosse, anche se splendido, 

non te il sangue, Torquato, non te l’eloquenza, non la devozione

riporteranno in vita:

 

nemmeno Diana dalle tenebre infernali

libera il casto Ippolito,

né Teseo riesce a spezzare le catene del Lete

all’amato Pirìtoo.


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COSCIENZA PURA E AMOREOrazio, edizione di Venezia del 1567
PROTEGGONO IL POETA
I 22


Chi è onesto e senza colpe non di mauri
giavellotti, né d’archi e di faretre
colme di frecce intinte nel veleno,
Fusco, ha bisogno,

sia che percorra le infuocate Sirti
o nel Caucaso inospite si addentri
o visiti quei luoghi che il fiabesco
Idaspe bagna.

Mentre infatti cantavo nella selva
Sabina la mia Làlage e, tranquillo,
vagavo oltre il confine, da me inerme
fuggì via un lupo,

un mostro che non nutre né la Dàunia
bellicosa nei suoi vasti querceti,
né la terra di Giuba, di leoni
arida madre.

Mettimi in una landa, priva d’ alberi
mossi dall’aura estiva, in quella zona
del mondo che da nebbie e da intemperie
maligne è oppressa;

mettimi in una terra arsa e dal Sole
troppo vicino resa inabitabile:
io Làlage amerò, che dolce ride
e dolce parla.

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A BARINE
II 8

Se per i tuoi spergiuri tu soffrissi
qualche pena, Barine, se scalfisse
la tua bellezza un dente o solo un’unghia
un po’ annerita,

ti crederei. Ma tu, come hai giurato
sulla tua testa perfida, risplendi
sempre più bella e ai giovani, al tuo incedere,
tormenti il cuore.

A te le chiuse ceneri materne
giova ingannare e le tacenti stelle
con tutto il cielo e i numi che non soffrono
gelo di morte.

Venere stessa ride, certo, ridono
le ingenue Ninfe ed il crudele Amore
che affila sulla cote insanguinata
le frecce ardenti.

Tutti quanti per te crescono i giovani,
tuoi nuovi schiavi, né quelli più vecchi
lasciano la sacrilega padrona,
pur minacciando.

Te temono le madri per i loro
giovincelli, te i vecchi avari, te
le sposine che al tuo effluvio cedano
vinti i mariti.

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A DIANA
III 22

Di monti e boschi, Vergine, custode,
che, tre volte invocata, assisti e salvi
dalla morte le spose partorienti,
dea di tre forme,

il pino che sovrasta la mia villa
a te consacro: ogni anno gli offrirò
lieto il sangue d’un verro che prepara
un colpo obliquo.

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Ode I 11, da un'edizione di Orazio "ab omnibus obscoenitatibus expurgatus" pubblicata a München nel 1632


I 11, CARPE DIEM

Tu non chiedere – è illecito saperlo –
                                                 quale a me, quale a te
sia la fine assegnata dagli dèi,
                                                  Leucònoe, né scrutare
gli oroscopi caldei. Quanto più giova
                                                  prendere quel che viene!
Che sian molti gl’inverni a noi concessi
                                                  da Giove o che sia l’ultimo
questo che contro le opposte scogliere
                                                  infrange il mar Tirreno,
sii saggia, filtra il vino ed una lunga
                                                  speranza in breve spazio
restringi. Mentre noi parliamo, il tempo
                                                  avverso è già fuggito.
Cogli il presente e non riporre alcuna
                                                   fiducia nel domani.

 


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