La
lettera che leggi te la manda
Briseide a te strappata: a malapena
la mia mano di barbara ha saputo
comporre i segni greci. Dove vedi
cancellature, le hanno cagionate
le mie lacrime: ma le stesse
lacrime
hanno una voce. Se un poco di te,
o mio signore e sposo, m’è permesso
dolermi, un poco mi dorrò del mio
signore e sposo. Se al comando
regio
io sono stata subito concessa,
non tua è la colpa, ma tu pure hai
colpa.
Infatti come Eurìbate e Taltibio
mi richiesero, subito ad Eurìbate
e a Taltibio fui data per seguirli.
Guardandosi a vicenda, si
chiedevano,
muti, dove mai fosse il nostro
amore.
Si poteva d’un poco differire:
un indugio era caro alla mia pena.
Ahimè! Nemmeno un bacio nel partire
ti detti: versai tutte le mie
lacrime
e mi strappai i capelli. Me
infelice:
mi sembrò di cadere prigioniera
una seconda volta. Spesso, elusa
la sorveglianza, volevo tornare,
ma c’erano i nemici pronti a
prendere
me tremante. Temevo che,
inoltrandomi,
venissi catturata ed a qualcuna
delle nuore di Priamo destinata.
Ma si doveva darmi e sono
stata
data. Da molte notti sono assente,
ma tu non mi reclami: la tua ira
è lenta. Pure il figlio di Menezio,
mentre mi consegnavano, mi disse
nell’orecchio: “Perché piangi?
Starai
là non per molto”. E’ poco non
avermi
reclamata: perché non ti sia resa,
Achille, tu combatti! Va ora dunque
e abbi nome di amante appassionato.
Di Telamone e di Amìntore i figli
da te sono venuti, uno di sangue
a te congiunto, l’altro tuo
compagno,
e il figlio di Laerte, perché
fossero
di scorta al mio ritorno. Alle
suadenti
preghiere grandi doni si
aggiungevano:
venti fulvi lebeti di sbalzato
bronzo con sette tripodi di uguale
arte e peso: dieci talenti d’oro
e dodici cavalli sempre avvezzi
alla vittoria e, ciò che era
superfluo,
fanciulle di incantevole bellezza
di Lesbo, tratte schiave dalle loro
case distrutte; e insieme a tutto
questo
(ma tu non hai bisogno di una
sposa)
una delle tre figlie di Agamennone.
Quel che avresti dovuto dare tu
all’Atride per riscattarmi, ora
lo rifiuti? Per quale colpa,
Achille,
ho meritato che tu mi ritenga
di poco prezzo? Dove se n’è andato
così presto da noi il fugace amore?
Per me non spira un vento più propizio?
Ho veduto le mura di Lirnesso
distrutte dalla tua furia
guerresca,
ed ero della mia patria gran parte.
Ho veduto cadere, da comune
nascita e morte uniti, tre
guerrieri;
dei tre la madre era pure la mia.
Ho visto al suolo arrossato di
sangue,
disteso per quant’ era lungo, il
mio
sposo col petto ansante e
sanguinante.
Tu solo hai compensato tante
perdite:
tu signore, tu sposo, tu fratello.
Tu stesso mi dicevi, per la tua
divina madre marina giurandolo,
che ero stata per te un prezioso
acquisto:
certo perché, malgrado ti sia resa
con ricchi doni, sia da te respinta
e con me i doni che ti sono
offerti!
Si dice addirittura che domani,
come l’aurora brillerà nel cielo,
darai le vele di lino ai piovosi
venti di mezzogiorno. Quando a me
sbigottita pervenne questa voce
funesta, me infelice, né più
sangue,
né alito di vita mi rimase.
Andrai; e a chi me misera, o
crudele,
tu lascerai? Chi potrà dare qualche
sollievo al mio abbandono? Che la
terra
all’improvviso si apra sotto
ai miei
piedi e m’inghiotta o la folgore
ardente
m’incenerisca, prima che
biancheggino
senza di me le acque marine al
battere
dei remi verso Ftia e che, sul lido
abbandonata, veda le tue navi
prendere il largo. Se vuoi ormai
tornare
ai tuoi Penati, non sarò un pesante
fardello per la tua flotta. Da
schiava
seguirò il vincitore, non da sposa
il marito. So tessere la lana.
Tra le matrone greche di gran lunga
la più avvenente accederà da sposa
al tuo talamo, nuora meritevole
di un discendente di Giove e di
Egìna
e di cui il vecchio Nèreo accetti
di essere
il prosuocero. Umile tua serva,
io filerò la lana a me assegnata,
traendo dalla rocca colma il filo
lavorato. Di questo ti scongiuro:
non mi tormenti la tua sposa: il
cuore
mi dice che con me non sarà giusta.
Non lasciare nemmeno che mi strappi
i capelli davanti a te e tu dica
con leggerezza: “Pure lei fu mia”.
O anche questo permettilo, purché
non sia messa da parte ed ignorata:
questo timore le più interne fibre,
me sciagurata, mi sconvolge. Cosa
aspetti tuttavia? L’ira Agamennone
ha deposto, la Grecia afflitta
giace
tutta ai tuoi piedi. Vinci
la tua collera,
vinci il tuo cuore, tu che vinci
tutto.
Perché fa a pezzi i Greci
l’instancabile
Ettore? Prendi l’armi, sangue
d’Èaco
(prima però me accogli) e, col
favore
di Marte, incalza i nemici
atterriti.
Per me è nata, per me finisca
l’ira:
io causa e fine sia del tuo
soffrire.
Non ritenere per te vergognoso
cedere alle mie suppliche: anche
il figlio
d’ Èneo dalle preghiere della
sposa
fu spinto a prender l’armi: a me
agli orecchi
è giunta questa storia, a te è ben
nota:
dei suoi fratelli privata, la madre
votò alla morte la giovane vita
del figlio. Si era in guerra:
furibondo,
quello depose l’armi, rifiutando
con animo ostinato di soccorrere
la patria. Solamente la sua sposa
riuscì a piegarlo. Fortunata lei!
Le mie parole invece a nulla
valgono.
Non mi sdegno per questo: io non
da sposa
ho voluto passare, troppe volte
chiamata come schiava dal padrone
nel suo letto. Ricordo che a una
serva
che mi chiamava padrona, risposi:
“Alla mia schiavitù tu l’irrisione
del nome aggiungi”. E tuttavia per
le ossa
del mio sposso, deposto nella terra
senza l’onore d’un sepolcro, ossa
sempre per il mio cuore venerabili,
per le gagliarde anime dei miei
tre fratelli, miei numi protettori,
che, alla patria votati, con lei
giacciono,
per la tua testa e per la mia che
unimmo,
per la tua spada, di cui tutti i
miei
la potenza conobbero, ti giuro
di non avere mai col Miceneo
diviso il letto. Qualora ti menta,
cacciami via. Ma, se ora ti
dicessi,
fortissimo guerriero: “Pure tu
giura di non avere alcun piacere
goduto senza me”,
rifiuteresti.
T’immaginano
i Greci nel dolore,
tu ti diletti a suonare la cetra.
Tu nel tiepido seno di una tenera
amante poggi il capo. Se qualcuno
chiedesse la ragione della tua
inerzia in guerra, il fatto è che
combattere
è nocivo, suonar la cetra, il
canto
e darsi in braccio a Venere è
piacevole.
E’ più sicuro starsene adagiato
sopra un letto, abbracciare una
fanciulla,
passar le dita sulla lira tracia,
che con le mani reggere lo scudo
e l’asta acuminata e d’un pesante
elmo cingersi il capo. Ma una volta
di illustri imprese eri avido,
sprezzando
qualunque rischio. Era dolce al
tuo cuore
conquistare la gloria combattendo.
Forse solo per catturare me
amavi la feroce guerra e giace
con la mia patria vinta la tua
gloria?
Meglio dispongano gli dèi! Io prego
che, dal tuo braccio energico
vibrata,
l’asta del Pelio passi il corpo di
Ettore.
Mandate, o Danai, me: il mio
signore
io pregherò portandogli frammisti
alla vostra ambasciata molti baci.
Più di Fenice, più dell’eloquente
Ulisse, più del fratello di Teucro
saprò, dovete credermi, ottenere.
Conta pure qualcosa con le avvezze
braccia cingergli il collo, con i
miei
occhi parlare ai suoi. Sii pure tu
quanto più vuoi feroce e più
selvaggio
delle ondate marine, le mie
lacrime,
anche tacendo, ti convinceranno.
Anche ora – e che tuo padre Pèleo
giunga
alla più tarda età e tuo figlio
Pirro
con gli auspici paterni vada in
guerra –
volgi il tuo sguardo, valoroso
Achille,
all’ansiosa Briseide: non sfinire
senza pietà con una lunga attesa
un’infelice. Oppure se il tuo amore
per me s’è tramutato in avversione,
quella che senza te costringi a
vivere,
costringila a morire. In questo
modo
lo farai: da me s’è dileguata
la bellezza e il colore: solamente
la speranza di te mi tiene in vita.
Se mi abbandona, seguirò i fratelli
e il marito: non è per te un onore
che una donna per tuo comando
muoia.
Perché dovresti comandarlo? Stringi
il ferro e colpiscimi: dal petto
trafitto ho ancora sangue da
versare.
Pianta in me quella spada che, se
avesse
la dea permesso, avrebbe trapassato
il corpo di Agamennone. O piuttosto
serba la vita a chi l’hai già
donata:
quella vita che avevi ad un nemico
da vincitore concesso, la chiedo
ora da amica. La Nettunia Pergamo
ti offre migliori vittime: rivolgi
a quella il cuore cupido di strage.
Ma a me, sia che ti appresti a
navigare,
sia che tu resti, per il tuo
diritto
di signore, comanda di
raggiungerti.
Pietro
Rapezzi
Altre traduzioni poetiche di P.
Rapezzi da Ovidio: clicca qui
Nelle immagini: 1. Edizione di Ovidio, Heroides, Venezia 1552; 2. Briseide
consegnata ai messi di Agamennone (Pompei, Casa del poeta tragico).
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