LA TENEBRA E LA LUCE- III
 

 

 

 

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"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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LA TENEBRA E LA LUCE

 NELLE METAMORFOSI DI APULEIO

 

di Tiziano Lorenzo Vezzoli

 

 

III. QUANDO LA LUCE SI UNISCE ALLA TENEBRA:

L’ACCECAMENTO.

Analisi del motivo nell’ambito delle Metamorfosi.

 

III.1 La tenebra e la luce: l’accecamento

L’accecamento rappresenta la dimensione e il momento in cui si congiungono magicamente due elementi cardini su cui si concentra la nostra analisi: la luce e la tenebra.

In che senso coesistono? Occorre fare alcune distinzioni. Innanzitutto abbiamo una cecità che trae la sua origine dalla oscurità semplicemente intesa. È la mancanza di luce che la determina. Si avanza a stento commettendo errori e la stessa fisionomia degli elementi che ci circondano risulta sfumata e incerta (1).

In queste condizioni è facile ingannarsi e scambiare un oggetto per un altro. Può anche capitare che una luce opaca e incerta – ciò che vedremo per il caso di Fotide – venga vista come il Sole che illumina ogni cosa. In uno stato in cui dominano la mutevolezza e l’incertezza può anche accadere, – anzi è necessario e naturale, staremmo per dire – che una cosa si trasformi in un’altra: con queste premesse non deve stupirci la metamorfosi a cui va incontro Lucio (2).

Ma come uscirne? Si possono vincere la tenebra fisica e quella spirituale soltanto aprendo gli occhi alla luce vera. Nella notte della fuga da Corinto, dopo essersi addormentato per lo sfinimento, Lucio alza lo sguardo e avverte nella luna maestosa e silenziosa di quella notte, con un senso di fascinazione e tremore, la presenza della divinità (XI, 1).

 Questo per quanto riguarda il primo tipo di tenebra, ma ve ne è un secondo da sottoporre alla nostra analisi: l’accecamento luminoso. Se osserviamo bene, infatti, chi si trovi nell’oscurità ed esca improvvisamente al chiarore del giorno, come lo schiavo nel mito della caverna di Platone (3), si trova nelle medesime condizioni di colui che vi era rimasto prigioniero, perché i suoi occhi non possono contenere la luce del sole e si abbacinano per l’eccessivo bagliore. Noi incontreremo lo stesso orizzonte, nelle Metamorfosi (4), quando alcuni personaggi ci si presenteranno per così dire “in condizione di tenebra” perché i loro occhi non potrebbero sostenere quella luce soprannaturale che li accecherebbe e li ucciderebbe. Penso particolarmente al racconto di Eros e Psiche e al momento in cui Psiche, scoperto che il suo sposo non era un serpente ma “il dio di ogni fuoco”, cerca di uccidersi con il pugnale che ha nelle mani. Similmente anche Lucio, quando si trova dinanzi all’immagine di Diana e Atteone (5), non riesce a vedere nulla del messaggio nascosto che a lui diretto (6) : anche questo è un tipo di accecamento. Si rivela dunque interessante, per noi, constatare come la stessa realtà possa prodursi in base a condizioni così diverse da risultare opposte.

I passi apuleiani che esamineremo ci condurranno a constatare che le cose, in verità, non sono così chiare e evidenti. Anzi, come abbiamo avuto modo di osservare nel capitolo precedente, Apuleio ha modellato la sua opera in modo che nulla sembrasse essere ciò che in realtà è. Avventuriamoci quindi in questa ricerca.

 

III.2 La luce ingannevole della magia e dell’erotismo: Fotide

Ci sembra utile ricordare che l’erotismo, questa luce ingannevole di cui si trovano riflessi un po’ in tutti i libri e specialmente nei primi, ha un ruolo fondamentale nella determinazione degli avvenimenti che porteranno Lucio alla trasformazione. Se l’attenzione verso l’eros solo una conseguenza della sua curiositas che S. Lancel definisce “ubristique” (7), per innegabile che senza Fotide Lucio non avrebbe mai potuto soddisfare così da vicino la sua curiosità per ci che raro e meraviglioso (8). Non dimentichiamo poi che sia Meroe che Panfile impiegano tutti i loro poteri per sedurre i loro innamorati, come Socrate, che ha appunto avuto la sventura di provarlo, dice ad Aristomene (I, 8): Vis – inquit – unum vel alterum, immo plurima eius audire facta? Nam ut se ament efflictim non modo incolae, verum etiam Indi vel Aethiopes utrique vel ipsi Antichtones, folia sunt artis et nugae merae (9). Le parole di Fotide a Lucio a proposito di Panfile non sono meno interessanti (III, 16): Nunc etiam adulescentem quendam Boeotium summe decorum efflictim deperit, totasque artis manus, machinas omnes ardenter exercet. Audivi vesperi, meis his, inquam, auribus audivi, quod non celerius Sol caeso ruisset noctique ad exercendas illecebras magiae maturius cessisset, ipsi Soli nubilam caliginem et perpetuas tenebras comminantem. Dun­que possiamo riconoscere nel tema del desiderio un motivo conduttore delle varie vicende che troviamo nelle Metamorfosi: questo desiderio ci appare nei primi libri indirizzato verso i misteri oscuri della magia, poi costituirà il cuore della favola allegorica di Eros e Psiche, infine si vol­gerà verso un oggetto meritevole, quale la stessa dea Iside (XI, 24) (10): inexplicabili voluptate simulacri divini perfruebar... Sed tandem deae monitu... tardam satis domuitionem comparo, vix equidem abruptis ardentissimi desiderii retinaculis.

Infine la vicenda di Fotide si mostra strettamente legata a quella di Iside, e all’iniziazione, perché sarà il sommo sacerdote della dea egiziana a dare a Lucio la corona di rose promessagli dalla servetta di Milone (11).

 

III.3 Il nome

Perché mai Apuleio avrebbe dovuto cambiato il nome di Palaistra, che troviamo nel romanzo greco, in quello di Fotide (12)? Certo il nostro autore poteva decidere di non conservare il nome già usato nel romanzo dello Pseudo-Luciano, ma se constatiamo che si tratta di un nome voluto e ricercato, che non ricorre mai nelle iscrizioni latine (13), possiamo pensare vi sia una particolare ragione.

 Che Fotide possa rappresentare la luce di Iside tout court non appare verosimile (14). Probabilmente la questione non è da porsi in questi termini. Ci rifacciamo in questo a Scobie che riprende in parte quanto detto S. Lancel ammonendoci a non accettare completamente le sue conclusioni: “According to this explanation, Fotis seems to stand in relation to Isis as Lucifer to God (15). Vediamo infatti che già i commentatori umanisti avevano evidenziato il rapporto tra il nome Fotide e il fuoco (16). L’erotismo apparirebbe come una fiamma (17) che emana luce, che brucia, e questo ci è confermato dalla definizione che di Eros si dà in V, 23, dove chiamato lui stesso Deus totius ignis. Ma vediamo di esaminare direttamente i passi in questione. In uno di questi Lucio sta tornando frettolosamente a casa di Milone, desideroso di incontrare la sua Fotide, e questa gli appare mentre sta cucinando un tuccetum perquam sapidissimum. Eccola (II, 7): Ipsa, linea tunica mundule amicta et russea fasceola praenitente altiuscule sub ipsas papillas succintula, illud cibarium vasculum floridis vasculis rotabat in circulum... La fascia che cinge Fotide di un rosso luminosissimo, color fiamma, e non a caso. Alle scherzose parole di Lucio la ragazza risponde lepida et dicacula: “Discede ... miselle, quam procul a meo foculo, discede. Nam si te vel modice meus igniculus afflaverit, ureris intime, nec ullus extinguet ardorem tuum nisi ego”. Subito dopo, attratto dalla figura di Fotide che gli sta dinanzi, Lucio ci d una delicatissima descrizione delle chiome femminili, dove la luce a dominare (II, 9): Quid cum capillis color gratus et nitor splendidus illucet, et contra solis aciem vegetus fulgurat vel placidus retinet, aut in contrariam gratiam variat aspectum, et nunc aurum coruscans in lenem mellis deprimitur umbram, nunc corvina nigredine caerulos columbarum collis flosculos aemulatur, vel cum, guttis arabicis obunctus et pectinis arguti dente tenui discriminatus et pone versum coactus, amatoris oculis occurrens ad instar speculi reddit imaginationem gratiorem? Le immagini di una Fotide luminosa e splendente non sono ancora finite; in quest’altra descrizione Lucio, ormai vinto, si dichiara schiavo della sua luce (III, 19): Sum namque coram magiae noscendae ardentissimus cupitor, quamquam mihi nec ipsa tu videare rerum rudis vel expers. Scio istud et plane sentio, cum, semper alioquin spretorem matronalium amplexuum, sic tuis istis micantibus oculis et rubentibus bucculis et renidentibus crinibus et hiantibus osculis et flagrantibus papillis in servilem modum addictum atque mancipatum teneas volentem. Iam denique nec larem requiro nec domuitionem paro, et nocte ista nihil antepono. Questo ci permette di constatare concretamente che la luce associata a Fotide di fatto, non soltanto per il significato esteriore del nome (18). Proseguiamo. Dopo aver assistito alla trasformazione di Panfile, Lucio resta stupefatto e sconcertato, quasi folle (III, 22): At ego, nullo decantatus carmine, praesentis tantum facti stupore defixus, quidvis aliud magis videbam esse quam Lucius: sic exterminatus animi, attonitus in amentiam vigilans somniabar, defrictis adeo diu pupulis, an vigilarem scire quaerebam. Poco più oltre assistiamo a un gesto simbolico di grande importanza, da cui traspare senza veli l’immagine della cecità che Fotide “trasmetterà” a Lucio : Tandem denique reversus ad ad sensum praesentium, adrepta manu Photidis et admota meis luminibus “ Patere, oro te – inquam – dum dictat occasio, magno et singulari me adfectionis tuae fructu perfrui, et impertire nobis unctulum indidem per istas tuas papillas, mea mellitula; tuumque mancipium irremunerabili beneficio sic tibi perpetuo pignera; ac iam perfice ut meae Veneris Cupido pinnatus adsistam tibi”. Lucio con questo gesto chiede di essere trasformato come Panfile in un uccello, e dice che la sua Fotide lo legherà a sè con un dono che mai potrà essere ricambiato. Il nostro protagonista non può saperlo, ma con quella domanda egli anticipa il proprio destino (19) di schiavitù (20).

Ci è sembrato opportuno lasciare per ultimo questo passo perché attraverso di esso possiamo collegarci a un episodio avvenuto nel libro precedente. In quest’altro caso ci appare in maniera molto evidente che Lucio dipende totalmente da Fotide quasi questa fosse una divinità (II, 18): Forte quadam die de me magno opere Birrena contendit, apud eam cenulae interessem, et cum impendio excusarem, negavit veniam. Ergo igitur Photis erat adeunda deque nutu eius consilium velut auspicium petendum. I termini che Lucio usa sono molto specifici, in particolare poi il nutus (21) palesemente il gesto mimico del capo, di assenso o di diniego, tipico degli dei e di Iside in particolare. Infatti se passiamo al libro undicesimo, capitolo primo, vediamo Lucio nell’atto di pregare, commosso e riverente, l’immagine della dea, dal cui nutus dipende la vita: ... summatem deam praecipua maiestae pollere resque prorsus humanas ipsius regi providentia, nec tantum pecuina et ferina, verum inanima etiam divino eius luminis numinisque nutu vegetari..., che possiamo accordare con VII, 7: Denique noluit esse Caesar Haemi latronis collegium, et confestim interivit: tantum potest nutus etiam magni principis. Così anche in XI, 11, dove Lucio apprende che l’iniziazione deve avvenire su diretta indicazione della dea: Nam et diem, quo quisque posset initiari, deae nutu demonstrari et sacerdotem, qui sacra debeat ministrare, eiusdem providentia deligi... Abbiamo visto Fotide come colei che inizierebbe (22) Lucio a una falsa religione e ai falsi misteri. Dalla lettura delle Metamorfosi appare chiaro che Lucio scambia Fotide per Venere (23) totalmente accecato dalla falsa luce che da lei promana, come appare chiaramente dal passo già  visto di III, 22: Nam perfice ut meae Veneri Cupido pinnatus adsistam tibi. Lo stesso errore lo dovrà scontare Psiche, la cui bellezza la rende nuova Venere sulla terra, come detto in IV, 28: ... eam ut ipsam prorsus Deam Venerem religiosi venerabantur adorationibus... come se ...rursum novo caelestium stellarum germine non maria, sed terras Venerem aliam virginale flore praeditam pullulasse (24). Ma forse occorre vedere più in profondità . Infatti il rapporto di Lucio con questa “falsa dea”, da cui tutto sembra dipendere e che fa del male alle persone che le stanno accanto, se unito all’elemento della cecità, che abbiamo già visto, ci conduce all’immagine della Fortuna caeca, che ricompensa con dolori e sciagure chi le sta vicino (25).

 Il cielo però non ha stabilito per il nostro Lucio un destino di cecità e di sciagura (26), e sarà Iside-Tyche, la Fortuna videns dell’undicesimo libro, colei che sanerà quei mali che la cattiva luce di Fotide aveva prodotto.

 

III.4 L’accecamento luminoso

Se l’erotismo finisce con il rivelarsi la luce opaca e ingannevole di una dimensione proditoria e falsa, la vera luce è quella che porta Lucio verso l’alto – questa la dimensione della spiritualità –, così come si verifica nella notte della conversione, quando i raggi della luna, svegliato il nostro asino fuggitivo, ne catturano lo sguardo.

 Nelle Metamorfosi avviene che anche l’erotismo si trasformi da eros pandemos e volgare a eros celeste (27), dove realmente le espressioni di luce raggiungono vette altissime. Stiamo parlando della favola di Eros e Psiche, che ci guida verso un tipo di luce completamente diverso da quello visto fino a questo momento nell’opera di Apuleio. Infatti nella privazione di ogni luce spirituale dei primi dieci libri, dove di Iside non si parlava per nulla, la opaca e malata luminosità della goetìa finiva con l’accecare il povero Lucio, abituato a vivere nella tenebra. Occorrono occhi forti ed esperti per distinguere la luminosità riflessa da quella originale, che scaturisce da fonte intatta. E la bella fabella ha questo scopo: rendere i nostri occhi capaci di cogliere e di capire. È uno stupendo quadro in cui la luce affascinante del soprannaturale e del divino ci offerta in tutto il suo mistero.

 

III.5 La luce divina. L’identità dello sposo di Psiche: tenebra o luce?

In una della prime immagini che abbiamo di lui (a descrivercelo è Venere in persona) Eros compare come un fanciullo temerario, armato di fiamme e dardi – abbiamo già scoperto il rapporto passionalità = fuoco – che si diverte a compiere malefatte, agendo nell’oscurità della notte. Così infatti in IV, 30: Nocte discurrens per alienas domos ... impune committit tanta flagitia. Il fuoco e la notte, dunque. Ci è anche detto che le sue ferite sono prodotte dal bruciore della fiamma – flammae istius mellitas uredines – e che esse provocano, a loro volta, amor flagrantissimus (28). Le stesse caratteristiche compaiono, anche se in chiave enigmatica, nel vaticinio dell’oracolo di Apollo al padre di Psiche (IV, 33):

Montis in excelsis scopulo, rex, siste puellam

ornatam mundo funerei thalami.

Nec speres generum mortali stirpe creatum,

sed saevum atque ferum vipereumque malum,

quod pinnis volitans super aethera cuncta fatigat

flammaque et ferro singula debilitat,

quod tremit ipse Iovis, quo Numina terrificantur

fluminaque horrescunt et Stygiae tenebrae.

 

In verità qui lo sposo di Psiche non indicato come un dio, bensì come un mostro selvaggio e feroce (29), della stirpe dei draghi (30), che tormenta con il ferro e con il fuoco. Questi ultimi due elementi sono presenti anche nel discorso di Venere, ma della notte pare non si dica nulla. Osserviamo meglio. Non si fa cenno alla notte semplicemente intesa, ma l’oracolo parla delle Stygiae tenebrae, che tremano, terrorizzate, di fronte a questo saevum atque ferum vipereumque malum. Su tale espressione occorre fare alcune note. Eros ci appare come il signore del fuoco e della fiamma, ci che sarà affermato chiaramente nel già  citato (V, 23) Deus totius ignis, ma fin da questo punto sembra che abbia anche il dominio sulle tenebre, addirittura su quelle del regno dell’Ade. Operando un confronto con quanto si dice nel libro undicesimo, osserviamo che il potere mirabile della dea Iside proprio quello di poter proiettare la sua luce, cioè la luce della vita, anche oltre i confini della morte. Durante la sua manifestazione, la dea promette a Lucio, che servendo nella santa milizia dei consacrati, egli potrà prolungare la sua vita oltre i confini stabiliti dal destino. Ecco le parole della dea (XI, 6): Quodsi sedulis obsequiis et religiosis ministeriis et tenacibus castimoniis numen nostrum promerueris, scies ultra statuta fato tuo spatia vitam quoque tibi prorogare mihi tantum licere; poco prima la dea aveva garantito a Lucio: Vives autem beatus, vives in mea tutela gloriosus, et cum spatium saeculi tui permensus ad inferos demearis, ibi quoque in ipso subterraneo semirutundo me, quam vides, Acherontis tenebris interlucentem Stygiisque penetralibus regnantem, campos Elysios incolens ipse, tibi propitiam frequens adorabis. Per approfondire questo accostamento di concetti inerenti all’oscurità dobbiamo proseguire l’analisi delle caratteristiche di Eros. Vedremo come questi, che pure il dio della luce, si presenta molto spesso nella tenebra, anzi possiamo dire che la esperienza di Psiche con lo sposo si lega sempre e solo alla tenebra. Così nella prima notte (V, 4): Iamque aderat ignobilis (31) maritus et torum inscenderat et uxorem sibi Psichen fecerat; et ante lucis exortum propere discesserat e la stessa cosa torna a ripetersi, con identico cerimoniale, le notti successive : (V, 5) Annuit, et ex arbitrio mariti se facturam spopondit; sed, eo simul cum nocte dilapso, ... e V, 6 atque etiam luce proximante de manibus uxoris evanuit, ci che trova conferma in V, 13 ... praevertit statim lumen nascentis diei.

 

 III.6 Il volto oscuro dello sposo

Oltre all’oscurità delle tenebre fisiche, Psiche si trova di fronte a un’altra oscurità, forse ancora più misteriosa: l’ordine di Eros che le impone di non cercare di scoprire il suo volto. Le parole del dio non lasciano adito a dubbi: (V, 6): Eros monuit ac saepe terruit ne, quando sororum pernacioso consilio suasa, de forma mariti quaerat, neve de sacrilega curiositate de tanto Fortunarum suggestu pessum deiciat nec suum postea contingat amplexuum; nei nocturnis sermonibus (V, 11) di nuovo l’amato torna ad avvertire Psiche: Perfidae lupulae magnis conatibus nefarias insidias tibi comparant, quarum summa est ut te suadeant meos explorare vultus, quos, ut tibi saepe predixi, non videbis si videris. Psiche promette che non cederà alla curiosità sacrilega delle sorelle e con sussurri e dolci abbracci estorce a Eros il permesso di vederle.

 

 III.7  Il vero volto dello sposo di Psiche: la divinità

Cerchiamo di capire quanto Psiche ancora non sa dai discorsi malvagi delle perfide sorelle: queste infatti hanno già intuito (32) il destino della sposa di Eros, e le loro parole risultano chiare alla comprensione del lettore: (V, 9) Haec autem novissima, quam fetu satiante postremus partus effudit, tantis opibus et Deo marito potita sit, quae nec uti recte tanta bonorum copia novit? Vidisti, soror, quanta in domo iacent et qualia monilia, quae praenitent vestes, quae splendicant gemmae, quantum praeterea passim calcatur aurum ... L’oro come simbolo divino e isiaco è evidentemente un richiamo a quanto avverrà per Lucio-Psiche nell’undicesimo libro del romanzo (33). Proseguiamo scoprendo che anche i ldestino di immortalità di Psiche è già intuito dalle sorelle gelose: Fortassis tamen procedente consuetudine et affectione roborata Deam quoque illam Deus maritus efficiet! ... Iam iam sursum respicit, et Deam spirat mulier, quae voces ancillas habet et ventis ipsis imperat. Se pure questo non bastasse, a proposito del figlio di Psiche esse avevano detto (è il capitolo 14): O nos beatas, quas infantis aurei nutrimenta laetabunt. Qui si parentum, ut oportet, pulchritudini responderit, prorsum Cupido nascetur (34). Le loro parole ci aprono alla comprensione della promessa che Psiche fa a Eros e alla affermazione della fiducia che ella nutre in lui (V, 13): Iam dudum, quod sciam, fidei atque parciloquio meo perpendisti documenta, nec eo setius adprobabitur tibi nunc etiam firmitas animi mei... Per istos cin­nameos et undique pendulos crines tuos, per teneras et teretis et mei similes genas, per pectus ne­scio quo calore fervidum, sic in hoc parvulo cognoscam faciem tuam... Nec quicquam amplius in tuo volto requiro, iam nihil officiunt mihi nec ipsae nocturnae tenebrae; teneo te, meum lumen.

La tenebra, dunque. Dobbiamo pensare alla tenebra come alla sola condizione in cui possa manifestarsi la divinità della allegoria della fiaba. Solo così tutto trova un senso: la scomparsa di Eros prima della luce del giorno, l’invidia delle sorelle che presagiscono il mistero, il divieto di Eros e infine la affermazione di Psiche. Rileviamo che il paradosso e il contrasto stridente fra la tenebra oscura e la luce trovano una spiegazione nella natura particolare del dio che si manifesta a Psiche. La luce e l’ombra si confondono, il sole si oscura non per magia o per un incantesimo demoniaco, ma perché gli occhi di Psiche non sono in grado di tollerare una luce che non può essere contenuta. Infatti, con l’aiuto di una lucerna Psiche scopre (V, 23) ipsum illum Cupidinem formosum Deum formose cubantem... e vede capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis Dei pinnae roscidae micanti flore candicant, et, quamvis alis quiescentibus, extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquietae lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. È con questo gesto che si compiono le parole di Eros meos vultus, ... si videbis non videris: nel momento in cui Psiche contempla il volto di Eros, che è un dio, non può restare in vita perché questo privilegio è concesso solo a chi è morto (35) oppure a chi ha subito una iniziazione, definita appunto mors voluntaria (36) in XI, 21. In effetti la condizione in cui Psiche può amare il suo sposo è soltanto la tenebra e solo quando ella avrà superato le prove dei sacri misteri (37) le sarà concesso di avere consuetudine diretta con la divinità, così come accade a Lucio che entra nella sancta militia di Iside. A questo punti del racconto, tuttavia, la fanciulla non ha ancora superato le prove che le saranno imposte da Venere. Vi è solo un momento in cui Psiche afferma nihil officiunt mihi ipsae tenebrae: teneo te, meum lumen: siamo nel V, 13 e in questo particolare stato di grazia la nostra Psiche riesce veramente a vedere la sua luce spirituale, cioè il dio Eros. Per contemplare la divinità Psiche deve entrare nella numinosa caligine che la nasconde. In questo contesto l’oscurità è segno della presenza della divinità che non può essere vista (38) ma di cui si riesce a cogliere la presenza. È una tenebra causata dalla eccessiva luce, potremmo dire. L’abbacinamento di Psiche è il corrispondente opposto di quella cecità che colpisce Lucio, i cui occhi sono offuscati dalla tenebra del mondo. In un certo senso, possiamo dire che Psiche vede pur non vedendo, mentre al contrario Lucio crede di vedere -, ma in realtà non vede proprio nulla: sappiamo infatti che Fotide e la magia si rivelano luce ingannevole.

 Quando Psiche vede il volto dell’amato, cedendo all’inganno delle sorelle, corre il rischio di morire: sotto l’impulso della follia cerca di uccidersi con il pugnale del’amato. Così in V, 22 ... Tanto aspecta deterrita et impos animi, marcido pallore defecta tremensque, desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere in suo pectore (39). La punizione per chi infrange la sacralità del divieto, infatti, è la morte. Questo ci è confermato di nuovo dal sommo sacerdote (40), il quale spiega a Lucio che l’iniziazione può avvenire solo su indicazione diretta della dea (XI, 21): Nec tamen esse quemquam de suo numero tam perditae mentis vel immo destinatae mortis, qui, non sibi quoque seorsum iubente domina, temerarium atque sacrilegum audeat ministerium subire noxamque letalem contrahere; nam et inferum claustra et salutis tutelam in deae manu posita... Come Lucio sarà scelto dalla dea per entrare fra i suoi eletti, così anche Psiche sarà ammessa al fianco di Eros, il cui volto infine potrà contemplare direttamente. Se vogliamo osservare bene, la curiositas di Lucio e quella di Psiche si rivelano in entrambi i casi provvidenziali (41). Le parole del sacerdote ci chiariscono bene questo concetto poiché affermano (XI, 15) sed utcumque Fortunae caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam beatitudinem inprovida produxit malitia.

Psiche che conquista l’immortalità è figura (42) di Lucio beatus et gloriosus. In contrasto con coloro che non rilevavano la forte unità strutturale delle Metamorfosi, il libro undicesimo ci appare come il necessario compimento di quanto ci ha saputo rivelare, in altra forma, la favola di Eros e Psiche. La luce ambigua e pericolosa dell’erotismo e della magia si spegne di fronte all’accecante epifania del dio, come il lume della lucerna (43) di Psiche durante l’iniziazione, invidiosa della luce del dio.

 

Nelle immagini: 1. Adriaen de Vries, Psiche col vaso di Pandora, Bronzo, 187 cm., 1593, Museo Nazionale di Stoccolma. - 2. A. Canova, Psiche rianimata dal bacio di Amore, 1800-1803, Museo dell'Hermitage, San Pietroburgo. - 3. Munch, Amore e Psiche, olio su tela, 119.5 x 99 cm, 1903, Oslo, Munch Museum. - 4. A. Canova, Amore e Psiche, 1796-1800. Parigi, Louvre.
 

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