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J. Sannazzaro, Ecloga I

 

SELVAGGIO, ERGASTO

 

SELV. Ergasto mio, perché solingo e tacito

pensar ti veggio? Oimè, che mal si lassano

le pecorelle andare a lor ben placito!

Vedi quelle che 'l rio varcando passano;

vedi quei duo monton che 'nsieme correno

come in un tempo per urtar s'abassano.

Vedi c'al vincitor tutte soccorreno

e vannogli da tergo, e 'l vitto scacciano

e con sembianti schivi ognor l'aborreno.

E sai ben tu che i lupi, ancor che tacciano,

fan le gran prede; e i can dormendo stannosi,

però che i lor pastor non vi s'impacciano.

Già per li boschi i vaghi ucelli fannosi

i dolci nidi, e d'alti monti cascano

le nevi, che pel sol tutte disfannosi.

E par che i fiori per le valli nascano,

et ogni ramo abbia le foglia tenere,

e i puri agnelli per l'erbette pascano.

L'arco ripiglia il fanciullin di Venere,

che di ferir non è mai stanco, o sazio

di far de le medolle arida cenere.

Progne ritorna a noi per tanto spazio

con la sorella sua dolce cecropia

a lamentarsi de l'antico strazio.

A dire il vero, oggi è tanta l'inopia

di pastor che cantando all'ombra seggiano,

che par che stiamo in Scitia o in Etiopia.

Or poi che o nulli o pochi ti pareggiano

a cantar versi sì leggiadri e frottole,

deh canta omai, che par che i tempi il cheggiano.

ERG. Selvaggio mio, per queste oscure grottole

Filomena né Progne vi si vedono,

ma meste strigi et importune nottole.

Primavera e suoi dì per me non riedono,

né truovo erbe o fioretti che mi gioveno,

ma solo pruni e stecchi che 'l cor ledono.

Nubbi mai da quest'aria non si moveno,

e veggio, quando i dì son chiari e tepidi,

notti di verno, che tonando pioveno.

Perisca il mondo, e non pensar ch'io trepidi;

ma attendo sua ruina, e già considero

che 'l cor s'adempia di pensier più lepidi.

Caggian baleni e tuon quanti ne videro

i fier giganti in Flegra, e poi sommergasi

la terra e 'l ciel, ch'io già per me il desidero.

Come vuoi che 'l prostrato mio cor ergasi

a poner cura in gregge umile e povero,

ch'io spero che fra' lupi anzi dispergasi?

Non truovo tra gli affanni altro ricovero

che di sedermi solo appiè d'un acero,

d'un faggio, d'un abete o ver d'un sovero;

ché pensando a colei che 'l cor m'ha lacero

divento un ghiaccio, e di null'altra curomi,

né sento il duol ond'io mi struggo e macero.

SELV. Per maraviglia più che un sasso induromi,

udendoti parlar sì malinconico,

e 'n dimandarti alquanto rassicuromi.

Qual è colei c'ha 'l petto tanto erronico,

che t'ha fatto cangiar volto e costume?

Dimel, che con altrui mai nol commonico.

ERG. Menando un giorno gli agni presso un fiume,

vidi un bel lume in mezzo di quell'onde,

che con due bionde trecce allor mi strinse,

e mi dipinse un volto in mezzo al core

che di colore avanza latte e rose;

poi si nascose in modo dentro all'alma,

che d'altra salma non mi aggrava il peso.

Così fui preso; onde ho tal giogo al collo,

ch'il pruovo e sollo più c'uom mai di carne,

tal che a pensarne è vinta ogni alta stima.

Io vidi prima l'uno e poi l'altro occhio;

fin al ginocchio alzata al parer mio

in mezzo al rio si stava al caldo cielo;

lavava un velo, in voce alta cantando.

Oimè, che quando ella mi vide, in fretta

la canzonetta sua spezzando tacque,

e mi dispiacque che per più mie' affanni

si scinse i panni e tutta si coverse;

poi si sommerse ivi entro insino al cinto,

tal che per vinto io caddi in terra smorto.

E per conforto darmi, ella già corse,

e mi soccorse, sì piangendo a gridi,

c'a li suo' stridi corsero i pastori

che eran di fuori intorno a le contrade,

e per pietade ritentàr mill'arti.

Ma i spirti sparti al fin mi ritornaro

e fen riparo a la dubbiosa vita.

Ella pentita, poi ch'io mi riscossi,

allor tornossi indietro, e 'l cor più m'arse,

sol per mostrarse in un pietosa e fella.

La pastorella mia spietata e rigida,

che notte e giorno al mio soccorso chiamola,

e sta soperba e più che ghiaccio frigida,

ben sanno questi boschi quanto io amola;

sannolo fiumi, monti, fiere et omini,

c'ognor piangendo e sospirando bramola.

Sallo, quante fiate il dì la nomini,

il gregge mio, che già a tutt'ore ascoltami,

o ch'egli in selva pasca o in mandra romini.

Eco rimbomba, e spesso indietro voltami

le voci che sì dolci in aria sonano,

e nell'orecchie il bel nome risoltami.

Quest'alberi di lei sempre ragionano

e ne le scorze scritta la dimostrano,

c'a pianger spesso et a cantar mi spronano.

Per lei li tori e gli arieti giostrano.

 

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