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E. Montale, Egloga

Perdersi nel bigio ondoso
dei miei ulivi era buono
nel tempo andato – loquaci
di riottanti uccelli
e di cantanti rivi.
Come affondavi il tallone
nel suolo screpolato,
tra le lamelle d’argento
dell’esili foglie. Sconnessi
nascevano in mente i pensieri
nell’aria di troppa quiete.
Ora è finito il cerulo marezzo.
si getta il pino domestico
a romper la grigiura;
brucia una toppa di cielo
in alto, un ragnatelo
si squarcia al passo: si svincola
d’attorno un’ora fallita.
E’ uscito un rombo di treno,
non lunge, ingrossa. Uno sparo
si schiaccia nell’etra vetrino.
Strepita un volo come un acquazzone,
venta e vanisce bruciata
una bracciata di amara
tua scorza. istante: discosta
esplode furibonda una canea.
Tosto potrà rinascere l’idillio.
S’è ricomposta la fase che pende
dal cielo, riescono bende
leggere fuori...;
il fitto dei fagiuoli
n’è scancellato e involto.
Non serve più rapid’ale,
né giova proposito baldo;
non durano che le solenni cicale
in questi saturnali del caldo.
Va e viene un istante in un folto
una parvenza di donna.
E’ disparsa, non era una Baccante.
Sul tardi corneggia la luna.
Ritornavamo dai nostri
vagabondaggi infruttuosi.
Non si leggeva più in faccia
al mondo la traccia
della frenesia durata
il pomeriggio. Turbati
discendevamo tra i vepri.
Nei miei paesi a quell’ora
cominciano a fischiare le lepri.

(da Ossi di seppia, in Tutte le poesie, ed. Mondadori)

 

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