"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

  HomeChi siamoLa rivistaTestiDidatticaAttivitàGuestbookVariaCerca

 

Luigi Alamanni


EGLOGA IV

Melibeo, Titiro

Melibeo
Perché non trai la tua zampogna fuore,
Titiro caro, e lungo le fredde onde
Del Rodano ambedue posiamci alquanto?
Tu col suon vago, ed io cantando insieme
Pur lieti passerem queste lung'ore;
Ché null'altro, pens'io, può far men grave
Quel duol che dentro abbiam de' nostri danni.

Titiro
Deh come sei con tal credenza folle!
Erba di più valor, più saldo incanto
Trovar conviensi a sì profonda piaga.

Melibeo
Questo è ben vêr; ma dove il ben s'asconde,
Si dee tôrre il men reo; noi che qui siamo
In barbaro paese, in forze altrui,
Che altro ne resta che ingannar noi stessi?

Titiro
Son due veri conforti all'infelice:
L'un'rimembrarsi il tempo in cui già visse
Con maggior doglia; e l'altro, è in mente avere
Se alcun vive di lui più tristo al mondo.

Melibeo
Or questo solo è quel che più mi reca
Grave a me stesso, ch'ore più dogliose
Di queste, lassi! non sentimmo unquanco.
Né perch'io pensi ognor, mi torna a mente
Chi passi i giorni suoi con maggior doglia.

Titiro
Se tu rivolgerai la mente indietro
Nel tempo andato, ancor non volge l'anno,
Ch'eri vivendo in più doglioso stato,
E se ben guardi a lor che son rimasi
Nel bel paese ch'Arno infiora e bagna,
Vedrai men di noi lieti e mille e mille.

Melibeo
Come fu l'esser mio tranquillo e lieto,
Mentre potei le mie già ricche greggi
Con Dafni insieme e con Menalca e Mopso
Muover sicuro all'apparir del giorno
Pei prati toschi, ov'esse erbette e frondi
Givan pascendo, io sopra il terren verde
Giaceva, e con la chiara mia zampogna
Dolce facea sonar le valli intorno!
Poscia cantando, la mia bella Flora
Sempre chiamava; ed ella assai sovente
Venìa pietosa al suon delle mie voci,
Al nuovo tempo lungo i freschi rivi,
La state all'ombra, a mezzo giorno il verno.
Ella con dotta man vaghe ghirlande
Mi tessea lieta, ed io narrava a lei
Le sue bellezze e le mie fiamme antiche.
E quante volte fui cantando a pruova
Coi pastor, sempre ad onorar mi venne.
E s'avvenia che amica stella o merto
Mi desse il pregio, deh con che mie lodi,
Con che scherno d'altrui, di fior m'ornava.
Ma s'altri avea l'onor, quanto pietosa
Scusava il fallo mio! deh che conforti!
Deh che dolci parole! O venti, e come
Dolce vi fu talor portarle al cielo!
Poi che il Sol dipartìa, la bella mano
Porgendo, mi dicea più volte addio.
Io, col piè pronto fin ch'ella il vietasse,
L'ero compagno, e colla vista poi
Fin dietro al monte, e col pensier poi sempre.
Le greggi indi volgea vêr le chiar'onde
Del mio bello Arno, e poi drizzava il passo
Al caro albergo, dove Alcippe e Filli
Di lor poscia prendean la notte cura.
Ivi con pomi con castagne e latte
(Che mai non mi mancò la state o il verno)
Vincea la fame, e sopra fronde e giunchi
Dormìa dal mondo e da me stesso sciolto,
Finché tornava a richiamarne il giorno;
Né pensier se non dolce in me poteo.
Ma lasso! or che gustiam se non amaro?
Cosmo tolto ne fu da morte acerba
Non son molti anni, e poi Menalca e Mopso
Dal tiranno crudel; noi l'empie mani
Pur fuggendo viviam, che il credo appena.
Ma lasciati il bel nido e i colli t¢schi,
Per le fredde Alpi e le deserte valli
Gir ci convien che il Rodan parte e scende.
Le liete greggi, i nostri campi colti
Son d'altrui fatti; e noi poveri andiamo
Cercando quel cui pensar c'era a vile.
Deh fia giammai che al bel fiorito nido
Dopo un lungo voltar torniamo ancora?
Come esser può che a gente iniqua e ria
Sia sì chiaro terren sì lunga preda,
Sì lungo strazio? Ahi folle Melibeo,
Pianta or nel colle il sempre verde ulivo,
Vestil di viti, le campagne adombra
Di salci e d'olmi, perché venga poi
Chi te ne spogli: ahi popol pigro e lento,
Che dormi tal ché i tuoi più fidi amici
Lasci perir, ché non ti desti omai?
E tu, Titiro stolto, or noi beati
Pensi in tal grado, e lor, che han quella pace
Che perduta piango io, miseri estimi?
Ben sei non men di lui nel sonno involto.

Titiro
Chi dunque piangerà se giorni e notti
Non piangiam noi? che di sì chiare piagge,
Di sì rari pastor, sì fidi amici
Ci sentiam privi, e di sì liete greggi,
E di sì dolci amor (ché acceso vivo
Non men per Silvia anch'io che tu per Flora).
Ma chi noia sentì più grave al mondo
Del viver nostro, allor che forse alcuno
Del tutto cieco, noi beati disse?
Or l'undecima volta il dolce latte
Versan le greggi, poi che a forza venne
Chi ne involò la santa, lieta e vera
Colma di libertà tranquilla pace.
Da indi in qua si volse in tristo amaro
Ogni dolcezza nostra, e il riso in pianto,
Com'or più che ancor mai si sente e vede.
Chi le pie mandre nostre in guardia prende?
Non il can fido, anzi il rapace lupo
Che divora i pastor, non pur le greggi.
Qual fu nel mondo di pietà sì nudo
Che non sol dico esilio e povertade,
Ma morte stessa non volesse insieme,
Anzi che ognor veder selvagge fere
Goder de' nostri le fatiche e il frutto?
Ahi che stral di dolor compunge il core
De' pastor toschi, allor che veggon tale
Che fu lor servo in questa valle e in quella,
Reggere a suo voler gli armenti e i greggi!
E malgrado di lor dal proprio albergo
Prender la vacca e l'umil pecorella,
E d'esse il latte trar due volte il giorno.
Poi l'agnello e il vitel (qualor più agogna
La madre) discacciar per boschi e monti
Senza d'essi curar lamenti o preghi.
Né i miseri giovenchi han visto appena
Vestir due volte il mondo a bianco e verde,
Che acerbi pur son tratti al duro giogo!
I campi che solean dal buon cultore
Prender riposo, senza pace o tregua
Portan d'aspra sementa il peso ogn'anno;
Onde gli armenti i quai fur freschi e lieti
Più che altri mai, son or debili e infermi,
Magre le greggi e i figli, il latte appena
L'usato suo candor fra quei ritiene.
Or son pei campi da infelice arena
E steril loglio vinti e l'orzo e il grano.
Cerchi dunque chi vuol veder dappresso
Quello a cui sol pensar n'ancide e strugge.
Ché più vorrei sotto a quel torbo fiume
Chiuder gli spirti o dentro l'alta neve,
Ch'or del t¢sco Arno in sulle verdi rive
Menar mia vita, poi che vita è detta,
Soffrir vergogna, ch'è ben vita a molti,
Ma di spirto gentil tormento e morte.
Vedi adunque quanto è men dura sorte
La nostra che non fu, quanto è men dolce
Di chi lava or le greggi all'onde d'Arno.
Qui nulla cosa con sì grave salma
Premer ci deve il cor, quantunque in mente
Ci torni spesso ancor Menalca e Mopso.
Che s'egli è vêr, siccome uom dice e crede,
Che più infelice sia chi più dappresso
Sente i suoi danni o d'altrui ch'ami e cola,
Piangiam chi vive or là, non quei che morte
Tolti ha di tanta guerra, e in pace ha posti;
E i giorni lor per sì lodato occaso
Son giunti a notte, che i lor nomi ancora
Canterà il Nilo, il Reno, Ibero e Gange.
Tal che a molti vedrem più volte il giorno
Di vergogna e dolor dipinto il volto,
Siccome i nostri ognor giocondi e lieti.
Finiam qui il piahto; e se ben Silvia e Flora
Fin qua talvolta a sospirar ci muove,
Speriam, come giurato han già più volte,
Ch'eterni sian gli amor, che il ciel ne impresse;
E che ancor tosto al dolce nido antico
Le riveggiam più che mai vaghe e belle,
E noi più che ancor mai felici e lieti.

Melibeo
Io non saprei giammai, tal forza ha il vero,
Dir contro a' detti tuoi, né posso ancora
Far che talvolta io non mi doglia alquanto.
Pur così mi starò, fin che il ciel vuole,
Qual chi sol brama ed altro mal non sente.
immagine: La dichiarazione d'amore di J.H. Fragonard, 1771, Olio su tela, cm. 318 x 215, 

Nell'immagine: Jurriaan Andriessen, Paesaggio arcadico, olio su tela, cm. 196 x 113, collezione privata

(Torna al documento principale)

Print Friendly and PDFCliccando sul bottone hai questa pagina in formato stampabile o in pdf



Per tornare alla home
Per contattare la Redazione


Questo sito fa uso di cookies. Privacy policy del sito e autorizzazione all'uso dei cookie: clicca qui