"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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Uomini e dei in Atene. Introduzione

 

 

 

Nel suo discorso sull’Areopago, S. Paolo definisce gli Ateniesi «il popolo più religioso fra tutti» (1). La parola che egli adopera (δεισιδαιμονία) esprime molto bene uno degli aspetti più rilevanti del senso religioso greco, cioè la profonda percezione della presenza del divino nella vita dell’uomo e nello stesso tempo il desiderio ansioso di conoscere in modo più preciso il suo agire e il suo manifestarsi (2).

Una delle caratteristiche più singolari dell’uomo greco è la coscienza del proprio limite. Questa coscienza si scontra duramente col desiderio continuo di affermare la propria personalità e di far valere la propria capacità di autodeterminazione (3). Quanto più desidera essere lui stesso a tracciare la sua strada e a prendere le decisioni dalle quali dipende la sua vita, tanto più si rende conto dell’intromettersi nelle vicende dell’esistenza di forze che esorbitano dalla sfera del suo operare e che egli non può controllare. La realtà del male e del dolore e quella che è l’esperienza più acuta e sconvolgente della sconfitta della volontà umana, cioè la morte, gli sono quotidianamente di fronte: dall’accorgersi di tutto ciò nasce quell’ansia di capire e di rendersi conto, quella ζήτησις (4) che è forse la caratteristica dominante di molti scrittori greci. Da una parte c’è l’idea che l’uomo è al centro di un contesto che lo trascende, dall’altra c’è la speranza o il desiderio di conoscere quali sono le modalità con cui gli dèi o il fato o l’ἀνάγκη determinano la sua vita. In luogo di portare l’uomo a un’introspezione di sé stesso e alla contemplazione della propria interiorità, la ζήτησις greca è piuttosto una proiezione dell’io verso l’esterno e un tentativo di analizzare la realtà che sta intorno, nel desiderio di capirla (5). E dall’osservazione della realtà nasce un senso molto vivo del trascendente; lo stesso politeismo, che traduce in divinità gli aspetti della natura o i vari modi (buoni o cattivi che siano) dell’agire umano, è in fondo espressione di una naturale capacità di cogliere il numinoso. In ogni momento della vita il greco fa riferimento agli dèi: dalla nascita fino agli ultimi istanti, il ritmo della sua vita è scandito dalle continue cerimonie che sottolineano il carattere sacro di ogni suo gesto. Dall’ingresso nella famiglia all’iscrizione alla fratria, all’efebia, fino alla morte, attraverso le numerose feste delle divinità che ricorrono ogni anno e che vengono ritenute degne della massima attenzione, è tutta una sequela di momenti religiosi, il cui contenuto non va limitato all’ambito apparentemente freddo ed esteriore del ritualismo formalistico: il culto è il mezzo che permette a una religione di diffondersi fino a tradursi in pietas collettiva (6), patrimonio di una comunità in grado spesso di preparare il terreno perché il singolo possa approfondire la sua coscienza religiosa. Un senso religioso che non si traduce in riti rischia di diventare solo l’espressione di un sentimento intimistico pronto a esaltarsi o a deprimersi a seconda delle diverse e spesso contrastanti vicende alle quali la psicologia dell’uomo è assoggettata. Il giudizio che si dà del culto è negativo quando esso è vuoto e fine a sé stesso; ma in Grecia il culto sembra piuttosto l’aspetto esterno di una sensibilità religiosa che trova la sua espressione più alta in singole personalità, il cui legame con la fede popolare è però sempre chiaro e trasparente.

Anche gli dèi omerici, tanto spesso criticati già dai razionalisti antichi, esprimono al di là di sé questa percezione del divino: essi agiscono in maniera strana o addirittura incomprensibile, spesso si comportano in modo degno più di bambini o di malfattori; eppure anche il sottrarsi del loro comportamento alla comprensione umana ha al suo fondo una dimensione religiosa. Non ci si deve dimenticare che proprio nei confronti delle divinità tradizionali, che sono poi le stesse di Omero, Pindaro giungerà a un sentimento di reverenziale stupore. Quando deve esporre il mito di Pelope e il pasto di carne umana che gli dèi fanno, egli si limita a concludere: “ È difficile per me chiamare vorace un dio. Mi rifiuto. Danno è toccato spesso ai maligni” (7); e poco prima aveva affermato: “È meglio per l’uomo dire cose buone intorno agli dèi: minore è la colpa” (8). L’uomo sa che tutta la sua vita dipende dagli dèi: tutto il bene e il male che egli ha trae origine da loro: la forza come l’astuzia, la bellezza come l’intelligenza, con tutto quanto di bene o di male deriva da questi doni. Sono gli dèi che determinano il successo o l’insuccesso dell’agire umano, ed essi sono liberi nella loro iniziativa (9): tra l’uomo e il dio c’è uno scarto immenso, che l’uomo non può sperare neppure lontanamente di colmare; e tentare di valicarlo sarebbe una ὕβρις. “Non pretendere di diventare Zeus... Ai mortali convengono cose mortali”, canta Pindaro (10). La mitologia racconta le punizioni a cui furono sottoposti quanti, come Niobe o Aracne o molti altri, osarono paragonarsi alla divinità.

In ogni decisione che assume, l’uomo sa di dover fare i conti con gli dèi. Questo senso di dipendenza è ben espresso dalla cultura greca: quasi ad ogni momento l’eroe omerico chiede l’intervento del dio, che lo assista nel dubbio e nelle decisioni da prendere. Talora è il dio che di sua iniziativa interviene per correggere, in meglio o in peggio, l’agire dell’uomo: ad Achille adirato è Atena che si presenta a dissuaderlo dall’uccidere Agamennone (11); ad Odisseο angosciato e privo di speranze nella sua casa è ancora Atena che si presenta a infondergli sicurezza e coraggio (12). L’uomo deve seguire ciò che il dio gli chiede: egli sa di dover cercare l’amicizia e la benevolenza degli dèi, e che gravi mali seguirebbero la sua disobbedienza. L’agire umano è libero e non ha costrizioni da parte del dio: eppure ogni atto dell’uomo dipende in ultima analisi dalla volontà del dio, se non altro in quanto è inserito nel piano (νοῦς) che il dio o qualcosa che è ancora al dì là degli dèi ha tracciato sulle vicende del cosmo.

Tutto ciò tuttavia non costituisce in alcun modo un alibi per diminuire o addirittura annientare la libertà dell’uomo, fino a farlo sfuggire alla sua responsabilità. Pur sapendo che ogni suo gesto è determinato da un disegno divino, l’uomo sa che ogni suo errore e ogni sua colpa meritano tutte le conseguenze che hanno provocato nel loro porsi in atto (13).

Questo concetto determina il problema più grave per il greco. L’agire del dio nei confronti dell’uomo non è sempre e soltanto positivo. Spesso anzi il dio offusca la capacità dell’uomo di decidere per il bene e lo porta alla perdizione. È questo, in definitiva, che il greco non riesce a comprendere: sembra che la divinità possa esercitare nei confronti degli esseri umani una specie di rabbia capricciosa, e l’uomo si trova esposto senza alcuna possibilità di difesa a una volontà che lo trascende e può desiderare il suo male. Persino di fronte ad Atena che sempre lo ha aiutato nei momenti difficili, Odissee può manifestare tutto il suo scetticismo, quando si risveglia in Itaca e si ritrova incapace di distinguere i contorni di ambienti e paesaggi che pure gli dovevano essere familiari: sa di avere di fronte la dea, eppure non è certo che ella non si stia prendendo gioco di lui per un suo gusto maligno (14).

Tutto questo spinge l’uomo greco ad un pessimismo profondo. “Sempre è superiore il pensiero di Zeus a quello degli uomini” (15), afferma Omero a proposito di Patroclo. E Odisseo, di fronte a Nausicaa, non può celare la propria tristezza nel ripensare alle traversie a cui gli dèi lo hanno costretto e nel domandarsi quali nuove prove ancora lo attendono (16). Questo sentimento di impotenza diventa anche un principio di solidarietà fra gli uomini. Achille spiega a Priamo come nella casa di Zeus vi siano due otri, l’uno ripieno di beni e l’altro di mali: Zeus manda agli uomini o il contenuto di entrambi, dopo averli mescolati, oppure solo il contenuto del secondo (17). All’uomo dunque può toccare un continuo altalenare di bene o di male, oppure, nell’ipotesi meno buona, soltanto il male; la terza ipotesi, che cioè un uomo possa essere fortunato e assistito dagli dèi per tutto il corso della vita, non è neppure accennata. È un’idea di cui si riappropriano gli autori successivi: Archiloco, che richiama l’attenzione su questo ‘ritmo’ esistente nelle cose umane (18), Pindaro, quando afferma “Per un bene gli dèi danno ai mortali due sciagure. Solo gli stolti non sanno sopportare convenientemente questo... Un mortale, se conosce la strada della verità, deve accontentarsi di ciò che gli mandano gli dèi. Sempre diversi sono i soffi dei venti più alti. La felicità degli uomini non dura a lungo integra” (19), Erodoto, che definisce il dio come un essere “invidioso e apportatore di scompiglio” (20), pronto solamente a meditare e a porre in opera il male degli uomini.

Di fronte a tutto questo l’uomo, come già si è detto, non può opporre nessuna difesa, se non la pazienza e la rassegnazione. È l’atteggiamento di Odisseo, che nel momento del turbamento più acuto si rivolge al proprio cuore e lo invita a resistere e a perdurare, in quanto ha lunga esperienza della sofferenza e del male (21); è la σωφροσύνη, atteggiamento fondamentale in tanta parte della letteratura successiva (22). Essa è l’equilibrio interiore che l’uomo deve conseguire con uno sforzo continuo: non è né immediato né naturale, bensì conquistato  attraverso  la  consapevolezza  maturata  dall’osservazione  profonda della realtà. Il σώφρων è colui che ha il senno ‘sano’ (23), in quanto sa che né il bene né il male possono durare a lungo, e che è vano tanto il rallegrarsi eccessivamente nel primo quanto il dolersi oltremisura nel secondo, perché è l’avvicendarsi continuo del bene e del male a costituire il “ritmo” della realtà. Allo stesso equilibrio di fronte alle cose richiamano i precetti delfici: il  “conosci te stesso” è un invito a meditare sul limite dell’uomo, così come il “nulla di troppo” indica la conseguenza più ovvia di questo “conoscersi”. Considerazioni di tal genere sono certo limitanti per l’uomo e per la sua volontà di autodeterminarsi. Ma l’insicurezza e l’inferiorità di fronte a un dio che l’uomo non comprende non sono elementi che deprimono o soffocano il sentimento religioso: basterà rileggere in Simonide la preghiera di Danae (24), dove la volontà di Zeus è identificata senz’altro con la giustizia, e dove l’orante, pur dalla sua situazione priva di speranze, è quasi timorosa di chiedere al dio qualcosa che sia altro rispetto alla sua volontà, in quanto sarebbe empio pretendere una cosa diversa da quella che Zeus ha stabilita nel suo disegno.

D’altronde l’uomo, a mano a mano che prende coscienza della propria istanza religiosa, sempre meno riesce ad accettare l’idea di un dio che usi dell’uomo come semplice oggetto. Il pessimismo nei confronti del divino non è mai accolto senza turbamenti o senza ansie. Se l’immagine del dio è prevalentemente negativa, si vorrebbe almeno cercare di capire il senso del male che egli manda. L’ansia di conoscere il significato della propria vita, del proprio agire, del proprio morire anche, è una delle dominanti del mondo spirituale greco. La ragione è insufficiente a rispondere a una domanda come questa: proprio perché conosce il valore della razionalità, il greco sa anche realisticamente i limiti di questo strumento. Così da una parte c’è una tensione a giungere alla contemplazione del dio, dall’altra la consapevolezza, profondamente avvertita, dell’impossibilità per l’uomo di arrivare da solo a questa meta. È quanto esprimerà, in maniera perfettamente consapevole, Platone, il filosofo cioè in cui questa tensione al divino si manifesta forse con il massimo vigore. Egli avvertirà come sia impossibile per l’uomo arrivare al dio, se non è questo a manifestarglisi. Al termine di tutto lo sforzo dell’anima umana di sollevarsi alla divinità, esisterà pur sempre uno scarto rispetto all’obiettivo a cui è protesa (25).

La tensione alla rivelazione, dunque, è il punto estremo del senso religioso greco. Spunti di rivelazione sono stati disseminati qua e là dal dio: le narrazioni dei poeti, i miti, che il greco sente come parte essenziale della propria cultura e della vita, sono una rivelazione divina; ma sono pur sempre qualcosa di parziale, che non appaga del tutto la sua ansia. L’uomo religioso è pronto ad accogliere i segni con cui il dio si manifesta: l’esistenza degli oracoli, numerosi e venerati in ogni età della Grecia, ne è una riprova. Egli attende che sia il dio a manifestarsi, grazie ai profeti o grazie ai segni che gli indovini sanno interpretare. Lo stormire delle fronde, il canto degli uccelli, l’estasi mistica, sono tutti mezzi con i quali l’uomo cerca una comunicazione col dio e gli chiede espressamente di indicargli il senso della sua vita e della sua vocazione. Il greco sa dunque che vi sono altri mezzi di conoscenza diversi da quello razionale: la presenza di vati e di profeti mostra la coesistenza di modalità diverse per valutare la realtà, che la ragione da sola non è in grado di cogliere completamente. Vi sono anche uomini, come i Bakides (26), la Pizia o gli stessi poeti (27), in grado di entrare in una comunione più completa col dio grazie ad una capacità spirituale donata loro dagli dèi stessi. È evidente in molta parte della letteratura greca come si tenti di valorizzare tutte le forme di conoscenza dalle quali scaturiscono giudizi diversi sulle cose e sull’uomo. Forse l’ebbrezza a cui Alceo spesso invita, l’esperienza dell’ispirazione poetica, quelle forme di «follia» di cui parla Platone (28), l’esperienza sconvolgente dell’amore sono tutti momenti in cui l’uomo sembra uscire da sé stesso e cogliere la realtà in modo più profondo e più vero.

Al limite dunque l’uomo non può fare altro che cercare il dio e aspettare che egli riveli sé stesso: l’immagine dei postulanti degli oracoli, che si pongono a dormire nel tempio (29), tutti protesi a cogliere il manifestarsi dei segni divini, è forse la più esplicita testimonianza di questo atteggiamento ‘passivo’ con cui l’uomo greco chiede il senso del proprio essere. Stranamente, è un atteggiamento passivo che giunge al termine di una ricerca e di un interrogarsi che spesso non cela il proprio disagio. La passività si manifesta soltanto dopo che si è sperimentato il limite angusto del conoscere umano. L’attesa di una rivelazione completa che la civiltà greca non avrà mai; prima di questa, una serie di illuminazioni parziali e frammentarie, adatte soltanto a rendere ancora più evidente il buio profondo in cui l’esistenza umana si dibatte.

 

Entro questo quadro dunque è da collocare la tragedia attica nella sua fase più antica (Eschilo e Sofocle), certo il documento che meglio esprime una presa di coscienza nei confronti del divino. La tragedia non è soltanto la forma d’arte più completa che il mondo della polis abbia elaborato; o, per meglio dire, gli spettatori ateniesi non volevano che fosse solamente questo. Essa doveva avere anche un valore educativo, permettere agli ascoltatori di prendere consapevolezza di sé attraverso un messaggio comunicato da un poeta, la cui posizione all’interno della polis aveva più di un’analogia con quella del profeta presso il popolo ebraico. Non a caso Aristofane nelle Rane loda Eschilo per aver reso migliore il popolo, e rimprovera Euripide di non aver saputo fare altrettanto (30): non è solo un giudizio di tipo moralistico, ma l’esito di una visione della vita in cui l’autonomia, modernamente intesa, delle singole espressioni della persona è radicalmente rifiutata.

L’uomo è sentito nella sua unitarietà: tra vita privata, vita pubblica, religiosità e anche estetica non ci sono fratture o autonomie. Si chiede al poeta di portare alla città un annuncio del divino: egli dev’essere una persona ispirata dagli dèi, perché la comunicazione poetica è uno dei modi di rivelazione che trascendono il razionale: quando è preso dall’entusiasmo creativo, il poeta è in grado di comunicare qualcosa che non è capace di dire quando ha la “ragione in sé” (31); la critica platonica, riprendendo del resto un vecchio tema, già accennato fin dai luoghi omerici dove si insiste sulla sacralità dell’aedo e sull’origine divina del suo canto (32), non fa che proseguire e canonizzare un’idea ampiamente diffusa nell’epoca della polis. E del resto anche il poeta ha coscienza della propria missione profetica: già Pindaro si era presentato come “profeta delle Muse” (33); soltanto in base a questa concezione egli può mettersi in contatto col popolo e cercare un dialogo. La presenza del coro nella tragedia, formato, come è noto, da personaggi di rango sempre inferiore rispetto ai protagonisti (salvo l’unico caso delle Eumenidi), risulta proprio dal desiderio di mettere in dialettica la morale comune della polis, elevata come nell’Agamennone o ingenua come nell’Antigone, coi fatti sconvolgenti che vengono riportati sulla scena.

Anche la scelta di miti o di fatti storici ampiamente noti agli spettatori è emblematica: si tratta di avvenimenti esemplari, che facilmente danno adito a un giudizio. Lo spettatore non va a teatro per vedere nel dramma se il poeta sa rappresentare efficacemente caratteri e situazioni, né desidera conoscere la conclusione della vicenda, perché essa gli è nota fin dal primo presentarsi degli attori sulla scena. Il mondo della tragedia è stilizzato, non cerca una verisimiglianza con la vita di tutti i giorni. Esso, collocandosi al di fuori del tempo e dello spazio, vuole piuttosto provocare un’impressione di assoluto: sono come le vesti e le maschere degli attori non concedono spazio alle loro qualità interpretative, ma li fissano in una immobilità perenne; così come il linguaggio, sia pure atteggiato in modo diverso in Eschilo e Sofocle, risulta astratto dall’attico del tempo, per situarsi all’interno di una tradizione che nel colorito epico del dialogo e nella sottile patina dorica delle parti corali porta nuovamente lo spettatore al di fuori del contingente e del caduco.

Del resto l’elemento forse più interessante del teatro di Eschilo è il fatto che la sua problematica si situa all’interno della cultura della polis. Basterà rileggere la cosiddetta Elegia alle Muse di Solone (34), per vedere come le sue tragedie ripresentino, vivificate da una capacità poetica e drammatica del tutto ignota al più arcaico legislatore ateniese, la stessa tematica del perenne trionfo di Dike negli avvenimenti del mondo e dell’inevitabilità che la hybris umana trascini su di sé la punizione degli dèi. Ma Eschilo non è un moralista: è un uomo di fede, mosso da un senso di profonda dipendenza nei confronti del divino. Tuttavia, la certezza che esista una giustizia nell’operare del dio non rende meno acute le lacerazioni e i dissidi dell’esperienza umana. Certo vi sono personaggi la cui colpevolezza è chiara, come è il caso di Serse o addirittura di Prometeo; ma spesso anche l’innocente soffre, come Io nel Prometeo o Cassandra nell’Agamennone, oppure è costretto a perire da una maledizione che pesa sulla sua stirpe e di cui egli non ha responsabilità, come è il caso di Eteocle, in cui la nobiltà del sentire e la dignità dell’atteggiamento non sono motivi sufficienti per procurargli la salvezza. Non è quest’elemento della colpevolezza trasmessa alla stirpe che fa difficoltà: essa è naturale, in un mondo in cui la famiglia è il primo cardine della vita sociale, e nel quale la stessa religione ufficiale dipende dal genos (35). Del resto anche altre culture, come l’ebraica nel suo periodo più antico, ripropongono un motivo simile (36). Ciò che colpisce è la possibilità che la responsabilità dell’uomo non sia totale: questa è l’impressione offerta dallo stesso Serse agli spettatori. È Ate che attrae l’uomo nelle sue reti inestricabili (37). Se la fede nel divino impone di credere che la volontà di Zeus sia finalizzata al bene, esiste però anche più di uno smarrimento, nel vedere come il suo attuarsi momentaneo risulti incomprensibile.

Ma esiste anche un altro problema: l’ὕβρις rompe un equilibrio di forze cosmiche che dovranno poi essere riassestate attraverso una vera e propria reazione a catena. Soltanto Zeus può decidere se ritenersi sazio a un certo punto, come nelle Eumenidi, oppure scatenare la sua ira fino allo sterminio totale della stirpe, come nei Sette.

È la problematica su cui si fonda l’Orestea. La storia dell’antica famiglia maledetta, in cui la serie dei delitti pesa come una tara sul sangue di ogni discendente e lo conduce a sempre nuove trasgressioni, viene svolta attraverso una trilogia legata, poiché l’ampiezza di respiro della concezione drammatica conduce Eschilo a infrangere le barriere fra un dramma e l’altro, con un’innovazione ormai da tempo sperimentata. E nell’Orestea appare chiaro come dietro alle continue violazioni della Dike vi siano forze sempre più grandi, che, relegate ancora sullo sfondo nell’Agamennone, si fanno innanzi fino a divenire le protagoniste effettive dell’ultima tragedia, le Eumenidi. “Dike contro Dike, Ares contro Ares” (38), canta il poeta nelle Coefore. Nell’ultima tragedia la vicenda si svolge ormai fra divinità: l’uomo è al centro di un groviglio di forze che lo trascendono, e le sue scelte devono rispettare l’equilibrio di queste forze. La νέμεσις divina non è altro che un mezzo per riportare il cosmo alla sua armonia originaria. Se la volontà di Zeus è trascendente e finalizzata al bene dell’uomo e della storia, l’uomo dev’essere profondamente devoto ad essa e amarla. La libertà dell’uomo consiste nel suo adeguamento alla volontà divina, e proprio in questa richiesta che il dio fa all’uomo di adeguarsi al suo volere il libero agire dell’uomo non è né umiliato né violato.

Anche Sofocle si pone su questa strada. Se le sue conclusioni saranno diverse, è perché la sua visuale è più profondamente angosciata e pessimistica di fronte al divino. Anche Sofocle è un uomo famoso per la sua devozione agli dèi: tale ce lo presenta la tradizione antica (39), e chi ha voluto fare di lui un razionalista sostanzialmente ateo ha poi dovuto alterare più o meno profondamente i dati biografici che gli antichi ci hanno trasmesso. Ma se il suo senso di dipendenza è profondo, meno facilmente accettata è l’idea che il dio agisca sempre per il bene dell’uomo. I personaggi delle tragedie più antiche sono anzi l’emblema dell’umanità tormentata dal divino; la dialettica fra ὕβρις e νέμεσις non è più sentita come rispondente alla verità della storia. Se Aiace, col suo atteggiamento pieno di sprezzo e di arroganza (40), è colpevole di fronte alla divinità, è pur vero che esiste una immensa sproporzione tra la sua ὕβρις e l’azione di Atena che, senza alcuna pedagogia nei confronti dell’eroe, lo tratta come una marionetta togliendogli il senno e l’onore, cioè i suoi attributi più caratteristici, e costringendolo così al suicidio; e nessuna ὕβρις può essere ravvisata in Deianira, colpevole solo di amore e ingenua fiducia.

Così l’ambientazione di Sofocle mette in primo piano un cosmo in cui è sconosciuta la dimensione del perdono: l’uomo a cui la sorte cominci a testimoniare uno sfavore da parte degli dèi non può più sperare di risollevarsi; gli dèi amano farsi chiamare padri, ma in realtà stanno semplicemente a guardare la sofferenza degli uomini, oppure intervengono per aumentarla. “Tutto questo è Zeus” afferma il Coro nelle Trachinie (41), quasi a suggello della tragica vicenda. Quello del primo Sofocle è un mondo senza speranza: se la hybris di Creonte viene punita, questa punizione comporta anche la morte di tre innocenti, fra i quali Antigone, che ha affermato l’assoluta trascendenza della legge di Zeus, con una fermezza e una consapevolezza interiore che le impedisce persino di essere capita dal Coro di vecchi Tebani, a lungo incapaci di scorgere la verità della sua posizione profetica. Eppure per l’uomo non c’è altra strada se non quella di rispettare la volontà degli dèi. Anche quando gli oracoli chiedono il male e il delitto, l’uomo deve aspettarsi che siano gli dèi a tracciare la strada della sua vita, pur se il percorso di questa stride rispetto alla sua moralità. Certo non basta la razionalità a salvare: l’Edipo dell’Edipo Re è un esempio di quest’affermazione. Così il problema della responsabilità dell’uomo si ripropone ogni volta in maniera angosciata. Soltanto dall’ Edipo a Colono avremo, a conclusione dell’esperienza sofoclea, parole di speranza nella fondamentale positività dell’azione divina.

 

Dall’età di Pericle fino alla fine dell’età della polis assistiamo, in parallelismo con la crisi della città-stato e delle sue strutture democratiche, a un venir meno della religione tradizionale e del senso religioso in genere. Quest’epoca è contrassegnata da avvenimenti di grande importanza, che turbarono profondamente le coscienze dei cittadini: basterà accennare alla lunga guerra contro Sparta (431-404), al cui interno si inserirono i due tremendi flagelli della peste e del disastro in Sicilia, poi all’età della perdita delle libertà democratiche e infine, dopo la restaurazione di queste, all’instabilità politica e alle discordie causate dall’inserirsi della potenza macedone nel quadro della storia greca, e, come ultimo definitivo segno della decadenza, alla sconfitta di Cheronea e all’asservimento dell’Ellade. Su tutti questi fatti, già di per sé atti a creare profondi cambiamenti culturali, s’innestano gli influssi dei filosofi ionici, col loro tentativo di spiegare la natura su basi unicamente razionali e fisiche, e poi dei Sofisti. Gli uni e gli altri esercitano sul senso religioso un’influenza ultimamente negativa, i primi con la loro pretesa di spiegare le origini degli avvenimenti naturali (vale a dire le cause seconde), perdendo completamente di vista la causa prima, i secondi con la loro critica ‘illuminista’, che minava dalle fondamenta non soltanto la religione tradizionale, ma anche i valori ideali sui quali la polis si era sempre basata. Assistiamo così, accanto alla decadenza della religione, a un decadimento profondo dei valori morali del cittadino ateniese.

Il cambiamento appare chiaro già nella stessa politica estera ateniese: mentre Pericle ancora disegna un quadro fondamentalmente imperialistico, ma di un imperialismo che potremmo definire spirituale, basato com’è non tanto sulla volontà di estensione di un impero territoriale quanto sul desiderio di far prevalere gl’ideali ateniesi su quelli spartani, i successivi strateghi, i cosiddetti “cani del popolo”, veri demagogia guerrafondai, sono vòlti unicamente a una politica di aggressione e di avventura, che trascina fra l’altro la polis in una serie di sciagure dalle quali non saprà più riprendersi. Basterà leggere quel vero e proprio dialogo tragico che è la disputa tra gli Ateniesi e i Melii riferitaci da Tucidide (42): in nome della loro forza militare superiore, gli Ateniesi si attribuiscono anche il diritto di decidere della sorte di un’isola pacifica e innocua strategicamente; il loro atteggiamento prescinde da qualsiasi valutazione di moralità o di giustizia e usa la forza come unico criterio per distinguere il bene dal male.

Analogamente avviene per il senso religioso. A partire dall’età di Pericle cominciano a farsi via via più forti gl’influssi razionalistici. Lo stesso Pericle, amico di Anassagora e dei razionalisti del suo tempo (43), non fa mai mostra di un senso di religiosità autentica e non accenna mai alla presenza degli dèi nella storia. Certo, Pericle è uomo politico troppo abile per mettersi in polemica diretta con le divinità olimpie: fa uso dell’oracolo di Delfi, dedica statue e culto agli dèi tradizionali, ma ne ignora sostanzialmente l’esistenza.

Non sono soltanto alcuni fatti isolati, per quanto indicativi, a mostrarci il cambiamento in atto: accenniamo alla sacrilega profanazione dei misteri, attuata da Alcibiade e di cui parla Andocide (44), o alla mutilazione delle Erme (45), o alla fondazione di un “club degli atei” fatta di Cinesia con lo scopo di “prendete in giro gli dèi e la morale tradizionale” (46). Si assiste al diffondersi di una cultura atea. Basterà citare i nomi di Crizia o di Diagora o di Protagora, per esempio. Accanto all’irrisione della religione tradizionale, si ha una predicazione dissolutrice della religione, accusata di essere lo stratagemma di qualche uomo primitivo per generare nei primi uomini un timore interiore, e quindi un comportamento morale capace di tenere insieme la società umana (47). Anche la pietas popolare subisce un grave deterioramento, a partire dall’epoca della peste: vedendo come sia i buoni sia i malvagi periscono a causa della malattia, ognuno è portato a dimenticare o a negare l’esistenza degli dèi (48). Coloro che ricorrono agli oracoli sono considerati visionari (49), la religione si traduce in un formulario ormai vuoto di contenuti.

In un primo momento la polis abbozza un tentativo di resistenza contro l’irrompere delle nuove idee. Ne sono indizio i toni di riprovazione di fronte all’emergere delle dottrine ateistiche e gli scandali suscitati dai vari atti d’empietà sopra accennati. Nonostante questo, il nuovo corso di idee segue uno svolgimento ormai inarrestabile. La Sofistica penetra nel teatro con l’opera di Euripide.

Già gli antichi hanno chiamato Euripide “filosofo della scena” (50), ed è stato notato che egli investe di un contenuto radicalmente nuovo la rappresentazione tragica. Rispetto al suo contemporaneo Sofocle, Euripide vive in modo sofferto le contraddizioni e le ferite che la critica alla religione ha inferte alla cultura della polis.

Già l’uso del mito è significativo. Se prima era una forma quasi di verità rivelata, ora esso diventa semplice pretesto scenico. Solo questo fatto spiega l’accentuazione degli intrecci, sempre più complessi e faticosi, al punto di richiedere l’introduzione di un elemento estraneo alla vicenda, qual è il deus ex machina, per risolverli; e nel mito Euripide valorizza gli aspetti più truci e paradossali, come nell’Ecuba, oppure ne rappresenta le versioni meno note, come nell’Elena, facendosi così valere anche come poeta doctus che conosce le pieghe meno risapute della mitologia tradizionale; che studia a tavolino le opere dei suoi predecessori; che, unico forse fra i contemporanei, possiede una biblioteca privata. Tutti elementi che rendono la figura di Euripide ben diversa da quella di Sofocle, e ne fanno un anticipatore del poeta doctus ellenistico. Gli atteggiamenti euripidei verso la divinità sconvolgono radicalmente la visione tradizionale e dimostrano l’impostazione razionalistica e accentuatamente filosofica che egli da al problema. Il rifiuto di una divinità ‘cattiva’ (51) è continuamente affermato, e talvolta, come nell’Eracle, con accenti di profonda intensità interiore. La critica al mito e alle divinità tradizionali porta con sé anche il rifiuto della mantica, che viene fortemente attaccata nelle sue tragedie (52). Unico mezzo di conoscenza è la ragione: tutto ciò che ne esula è visto come allusione o inganno.

Anche nel suo proporsi positivamente, quella di Euripide è una religiosità filosofica. I suoi dèi sono l’etere e la terra, secondo le teorie dei fisici ionici e dei Sofisti, che vengono riprese non senza contraddizioni. Il mondo è regolato da un meccanismo naturale, in cui l’agire dell’uomo ha un posto secondario. L’ingiustizia è biasimata solo in quanto si oppone a questo perfetto ingranaggio, che non sopporta deviazioni. Ma la giustizia è qui fra gli uomini, non deve essere rimandata in un illusorio mondo di divinità (53); del resto, questa concezione fa della divinità un essere astratto, a cui l’uomo non può rivolgersi. Ed è una dottrina che Euripide stesso accetta con angoscia e non senza problemi. Esiste una nostalgia del passato espressa in un famoso Coro dell’Ippolito, così come esiste un contraddirsi del poeta. Se nell’ultima tragedia egli si rivolge nuovamente alla religione tradizionale, non è soltanto  per una riconciliazione col passato, o per mettere in mostra gli aspetti aberranti di certi atteggiamenti religiosi, come hanno disputato, con alterne soluzioni, i critici. Il rifiuto del senso religioso e la sua sostituzione con una dottrina atea o razionalista lascia sempre nell’uomo uno spazio di insoddisfazione. Le Baccanti, indipendentemente da ogni considerazione che se ne voglia trarre, sono un documento del fascino che comunque la religiosità ha ancora nell’animo di Euripide, oltre che una testimonianza estremamente significativa sia della modalità sia del prestigio che hanno nell’ambiente della polis i misteri. Non a caso essi saranno gli unici culti a salvarsi dal processo di corruzione religiosa che accompagna la crisi della polis, per continuare con immutata diffusione e profondità anche nelle epoche successive.

Dopo la restaurazione del governo democratico, operata da Trasibulo, si osserva un tentativo di far rivivere la tradizione nazionale ateniese e si professa un grande attaccamento ai valori degli avi, che è necessario ricostruire dopo i danni portati dalla Sofistica. Ma in questa riaffermazione di valori connessi con la propria storia il sentimento religioso non entra più: i documenti coevi lo dimostrano. Nel Panegirico di Isocrate la tradizione ateniese è recuperata solamente in senso nazionalistico, nel quadro di un giudizio politico retorico e inattuale. Tra gli altri valori che Isocrate indica come scoperti dagli Ateniesi vi sono anche il culto degli dèi e la religione (54): ma l’accenno che l’oratore vi dedica mostra come la sua concezione religiosa sia del tutto formale e priva di rispondenze inferiori.

Anche nell’orazione contro Leocrate, Licurgo, uomo noto in tutta la polis per la sua devozione, difende le tradizioni patrie e apre il suo discorso con una invocazione agli dèi, ma non rivela mai in tutta l’arringa una vera partecipazione religiosa. Lo stesso si può dire delle orazioni di Demostene e di Eschine: si accenna spesso alla volontà del δαίμων che dispone e regola le vicende umane, ma esso è qualcosa di impalpabile e di sfuggente, totalmente astratto dalla storia; è un dio con cui è impossibile intrattenere qualsiasi rapporto, e l’esperienza religiosa si alimenta proprio nel “tu” che l’uomo può dire al dio.

Un nuovo motivo ormai si va facendo strada: il dominio della τύχη sul mondo. L’uomo è condizionato e piegato da un fato capriccioso, del tutto alieno da qualsiasi logica. Cercando di affermare la sua autonomia dal divino, l’uomo greco si trova incapace di capire la sua vita e la sua storia, e finisce così per rinunciare alla parte più autentica di sé, all’interrogativo sul significato della vita, che prima aveva sentito in modo ansioso e profondo. Accanto alla τύχη stanno altri termini, come δαίμων e αὐτόματον: ma il termine δαίμων non accenna a un’evoluzione monoteistica o semplicemente enoteistica del pensiero religioso; e αὐτόματον è ciò che accade di per sé, spontaneamente, e quindi nega con forza ancora maggiore l’esistenza dì una provvidenzialità divina sul mondo (55).

 

Si salda cosi l’epoca della polis con quella dell’Ellenismo. La religione tradizionale continuerà ad esistere, ma sarà sempre più vuota di contenuto, asservita oltretutto alla persona dei regnanti nei vari Stati formatisi dal dissolvimento dell’impero di Alessandro. I suoi culti diventeranno anche più fastosi e raffinati, e i suoi dèi otterranno dai sovrani ellenistici statue e templi sempre più grandiosi, mentre accanto ai vecchi dèi si inserirà la divinità del sovrano o del suo genio. Ma questo culto sarà sempre meno partecipato e sempre meno carico di verità. Non a caso Polibio potrà vedere nella religione qualcosa di cui i saggi non hanno bisogno e che può servire unicamente per tenere a freno le masse (56).

Al dominio degli dèi subentra il dominio della τύχη, ormai raffigurata come dea con la cornucopia in numerosi dipinti e statue dell’età ellenistica. Molti passi della commedia nuova accennano a un disinteresse religioso quasi totale: non importa nemmeno domandarsi se gli dèi vi sono o no, l’essenziale è venerarli come se vi fossero (57).

Questo vuoto del senso religioso greco sarà un terreno favorevole per l’innestarsi di molti motivi orientali .o misteriosofici, che finiranno per dare un quadro totalmente diverso della religione greca, piegandola ad esigenze lontane da quelle più originalmente sue e avvilendola infine in forme di acuto irrazionalismo o di misticismo languido e deteriore. Non a torto il. Nilsson potrà dire che la vittoria del Cristianesimo sugli ultimi resti delle religioni pagane costituisce (e noi aggiungiamo, costituisce anche, ma non solo) una vittoria delle forze sane dello spirito dell’uomo (58).

 

 

Nelle immagini: 1. Bronzo di Zeus, copia di età imperiale da originale circa del 400 a.C. (Roma, Musei Capitolini); 2. Copertina del volume Uomini e dei in Atene (Torino, Paravia, 1978); 3. Dioniso su una pantera (mosaico da Delo, Casa di Dioniso); 4. Francobollo della Repubblica Greca dedicato a Zeus (1985).

 

N O T E

 

(1) Act. 17, 22.

(2) La parola è usata nel suo significato positivo; secondo l’etimologia essa indica un rispetto per gli dèi che nasce dal timore (cfr. l’it. reverenza) e ricorre, con una certa frequenza, a partire da Senofonte e Aristotele. Poiché un senso religioso fondato sul timore ha in sé qualcosa di precario e distorto, almeno tendenzialmente, il passaggio al significato negativo di ‘superstizione’ è comprensibile (cfr. Polyb. XII, 24, 55; ecc.).

(3) M. Pohlenz, L’uomo greco, trad. it. Firenze 1962, pag. 26 seg.; 38 seg.

(4) La parola, nel senso di ‘speculazione filosofica’, è usata frequentemente da Platone (Ap. 29 e; Tim. 47 a; ecc.); l’espressione θεὸν ζητεῖν è usata in Act. 17, 27.

(5) W. Otto, Gli dèi della Grecia, pagg. 221 seg.

(6) Sulla questione del legalismo nella religione greca cfr. M. Nilsson, Religiosità, pagg. 41 seg.

(7) Pind., I Ol., vv. 52 seg.

(8) Ibid., vv. 35 seg.

(9) Cfr. Archil., fr. 58 D, vv. 1-4.

(10) V Isth., vv. 193 seg.

(11) Il. I,  vv. 193 seg.

(12) Od. XX, vv. 30 seg.

(13) W. Otto, op. cit., pagg. 233 seg.

(14) Od. XIII, vv. 312 seg.

(15) Il. XVI, vv. 688 seg.

(16) Od. VI, vv. 167 seg.

(17) Il. XXIV, vv. 527 seg.

(18) Archil., fr. 67 a D.

(19) Pind. III  Pyth., vv. 81 scg.

(20) (τὸ θεῖον) φθονερὸν τε καὶ ταραχῶδες, Herod. I, 32.

(21) Od. XX, vv. 17 seg.

(22) La parola, che si trova già in un luogo tardo dell’Odissea (XXIII, 13), ma con significato generico, assume il senso di ‘atteggiamento interiore che evita la ὕβρις a partire da Theogn. I, v. 379. Affine è il senso di τλημοσύνη in Archil., fr. 7 D.

(23) Come indica l’etimologia (da σάος + φρήν).

(24) Fr. 543 P = 13 D.

(25) Cfr. Phaed. 85 c seg.

(26) Nome di alcuni profeti vaganti, non legati ad alcuna sede oracolare, che sono soggetti all’estasi da parte del dio e prevedono il futuro. Sull’esistenza di questa categoria di veggenti v. in particolare E. Rohde, Psyche, pag. 397; Realencyclopaedie, vol. II, col. 2801 seg. Un’opinione contraria, che nega l’esistenza di questi veggenti come categoria o setta, in E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. ital. Firenze 1959, pag. 89, n. 3.

(27) Che l’ispirazione poetica sia in sostanza una forma di estasi o addirittura di rivelazione è affermato da Platone nello Ione.

(28) Pbaedr., 245 e; cfr. anche Apol. 22 e; ecc.

(29) È l’uso della cosiddetta incubata, frequente soprattutto nel culto di Asclepio: il malato, dopo una purificazione rituale, si pone a dormire nel tempio del dio, e qui attende un sogno rivelatore, interpretato eventualmente con l’aiuto dei sacerdoti, Cfr. Boche-Leclercq, Histoire de la divination. I, pag. 320.

(30) Vv. 1485 seg.; cfr. anche vv. 1054 seg.

(31) Plat., Ion. 534 a seg. e passim.

(32) Od. VIII, v. 499; XXII, vv. 348-49; ecc.

(33) Su tutta la questione v. J. Duchemin, Pindare poète et prophète, Paris 1955. In particolare si legga Nem. VII, 17 seg.

(34) Fr. 1 D.

(35) Cfr. M. Nilsson, Religiosità, pagg. 7 seg.; W. Nestle, Storia della religiosità greca, pag. 59.      

(36) E. Galbiati-A. Piazza, Pagine difficili della Bibbia, Milano 1960, pagg. 282 e seg.

(37) Pers., vv. 93 seg.

(38) V. 461.

(39) In particolare egli ospitò nella sua casa la statua di Asclepio, trasportata da Epidauro ad Atene, e introdusse nella polis il culto di questo dio. Per questo i contemporanei onorarono Sofocle, dopo la sua morte, con il nome di Dexion (= ‘colui che accoglie’), e dedicarono un tempio agli dèi Asclepio e Dexion insieme.       

(40) Cfr. vv. 116 seg.; 764 seg.

(41) V. 1278.

(42) V. 87-112.

(43) Cfr. Plutarch., Per., cap. 10 e 21. Sulla questione cfr. anche V. Ehrenberg, op. cit.., pagg. 131 seg.; W. Nestle, op. cit., pagg. 129 seg.   

(44) Dei misteri, 11 segg.

(45) Ibid.; cfr. Thuc. V, 27 segg.

(46) Cfr. Lys., fr. 53 Th. Il personaggio di Cinesia è citato più volte: sulla sua attività letteraria e politica (fu poeta comico e ditirambografo) cfr. l’articolo di P. Maas in Realencyclopaedie, vol. XI, coll. 479 segg.

(47) Crit., Sisyph., fr. 1 N., vv. 25 seg. Che l’opinione fosse molto diffusa, è sottolineato dalla critica che ne fa Platone in Leg. 889 e.

(48) Thuc. II, 53, 4.      -        -   •’

(49) Thuc. II, 54.

(50) Cfr. Athen. IV, 158 e, ecc.

(51) “Io penso che nessuno degli dèi sia cattivo” (Iph. Taur., v. 391).

(52) “Perché dunque, sedendo sui seggi profetici, chiaramente giurate di conoscere i fatti divini ? Non sono altro che opera umana le vostre parole. Chi infatti vanta la propria capacità intorno agli dèi non fa altro che abbandonarsi fidente a delle parole” (Philoct., fr. 795 N; cfr. anche Hel. 744; ecc.).

(53) Mel. desm., fr. 506 N.

(54) Isocr., Panegyr. 53

(55) Si noti dal cambiamento della terminologia il mutarsi dell’atteggiamento:μοῖρα e αἶσαo esprimevano la partecipazione dell’uomo al disegno divino, mentre mette in rilievo semplicemente la casualità.

(56) Polyb. VI, 56, 6 seg.

(57) Philem., fr. 118 ab Kock.

(58) M. Nilsson, Religiosità, pagg. 259 seg.

 

 

 

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