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Nel mondo latino

 

Come punto di passaggio tra il modo greco e il mondo romano può servire la traduzione che un poeta neoterico, Varrone Atacino, fece delle Argonautiche di Apollonio. Tra i frammenti della sua versione ce ne rimane uno (fr. 8 Morel-Büchner) che corrisponde a parte del passo che abbiamo appena esaminato (precisamente ai vv. 749-750):

 

                                    desierant latrare canes urbesque silebant:

                                    omnia noctis erant placida composta quiete.

 

A Seneca retore questa versione era piaciuta (1): meno piaceva, a quanto pare, a Ovidio, il quale avrebbe preferito che il pensiero terminasse con omnia noctis erant: sarebbe seguita una forte cesura che rendeva più carico di effetto il verso: è bensì vero che così facendo se ne sarebbe eliminata la parte più originale. Più che traduzione, questi versi sono una libera rielaborazione, nella quale si deve onestamente riconoscere un respiro diverso rispetto alla ricerca esasperata di effetti che si osserva nell’originale. Almeno tre aspetti interessati rileviamo: il plurale urbesque silebant amplia l’orizzonte della descrizione, che nell’originale era ristretta al borgo di Medea (ἀνὰ πτόλιν); il desierant iniziale sostituisce la descrizione in negativo dell’originale con una descrizione in positivo, perché non descrive un’assenza di rumore, ma il verificarsi di un avvenimento, il distendersi della quiete notturna; infine, nel secondo verso del frammento, che ha poco in comune con l’originale, l’idea della quiete prende il sopravvento e si sovrappone all’idea del silenzio: sembra quasi che il poeta abbia sentito l’angustia di una descrizione che procedeva in negativo e si limitava a registrare ciò che mancava e abbia voluto dare un tocco personale al quadro. Se è vero che l’imitazione della poesia greca nel mondo romano è filtrata, il più delle volte, attraverso la poesia ellenistico, è altresì vero che il modello ellenistico viene rimodellato e riadattato secondo una sensibilità diversa, che, come si vede da questo semplice esempio, ci porta più vicini a quella del poeta greco arcaico che non a quella della fonte immediata.

Seneca retore afferma che Virgilio aveva in mente questi versi di Varrone Atacino quando scrisse alcune descrizioni della notte nell’Eneide. Quattro sono i passi a cui facciamo riferimento: un passaggio molto breve è quello di Aen. III 147

                                

                                   Nox erat et terris animalia somnus habebat:

 

Una descrizione della notte più ampia e più distesa si legge nel passaggio (che è anche il più famoso) di Aen. IV 522 ss.

                        

                                   Nox erat et placidum carpebant fessa soporem

                                   corpora per terras, silvaeque et saeva quierant

                                   aequora, cum medio volvontur sidera lapsu,

                                   cum tacet omnis ager, pecudes pictaeque volucres,

                                   quaeque lacus late liquidos quaeque aspera dumis

                                   rura tenent, somno positae sub nocte silenti.

                                   [lenibant curas et corda oblita laborum.]

                                   At non infelix animi Phoenissa neque umquam

                                   solvitur in somnos oculisve aut pectore noctem

                                   accipit: ingeminant curae rursusque resurgens

                                   saevit amor magnoque irarum fluctuat aestu.

 

Spunti in parte simili si leggono in Aen. VIII 26 ss.

 

                                   Nox erat et terras animalia fessa per omnis

                                   alituum pecudumque genus sopor altus habebat,

                                   cum pater in ripa gelidique sub aetheris axe

                                   Aeneas, tristi turbatus pectora bello,

                                   procubuit seramque dedit per membra quietem.

 

Più succinto il “notturno” di Aen. IX 224 s.

 

                                   Cetera per terras omnis animalia somno

                                   laxabant curas et corda oblita laborum.

 

Il motivo omerico della veglia del singolo contrapposto al riposo generale (particolarmente forte in Aen. IX 224 s. col cetera iniziale che ricorda da vicino l’ ἄλλοι μέν omerico) sembra filtrato attraverso le riprese ellenistiche. Per Aen. IV 522 ss. il punto di riferimento più ovvio è costituito dal terzo libro di Apollonio, dal momento che buona parte della vicenda amorosa di Enea e Didone ha come fonte la Argonautiche: nel nostro passo in particolare si è voluto vedere anche una reminiscenza delle Incantatrici di Teocrito, perché il poeta accenna ai saeva ... aequora che nell’antecedente di Apollonio non compaiono. Per la verità, se anche può essere vero che Virgilio ha mutuato da Apollonio l’idea di inserire nel libro una descrizione della notte, è altresì evidente che lo spirito che anima il notturno di Virgilio è completamente diverso: Apollonio descriveva la quiete della città ellenistica, o meglio delle congestionate megalopoli ellenistiche, quando è cessato il rumore del traffico e le voci non si fanno sentire, Virgilio descrive la notte come un momento di sospensione in cui le passioni e gli affanni della vita vengono placati. Il realismo alessandrino si contrappone all’afflato universalistico di Virgilio. Per quanto il punto di riferimento immediato possa essere stato Apollonio (ed eventualmente Teocrito) è indubbio che Virgilio risente qui in modo netto di Alcmane: è la stessa contemplazione della natura che si prolunga per più versi, e ritorna più volte su sé stessa, perché la descrizione degli elementi naturali (le selve, i mari, la pianura) fornisce lo spunto per richiamare gli esseri viventi che abitano questi elementi (gli armenti, gli uccelli), e il richiamo agli esseri viventi costituisce lo spunto per ritornare agli elementi della natura (i laghi, le forre): il generico corpora del v. 523 quasi si anima nell’individuazione precisa degli animali della terra, del lago, dei cieli. La descrizione della natura parrebbe completa al v. 524, quando il poeta ha già richiamato i diversi regni della natura (le terre, i boschi, i mari), e l’enjambement di aequora (vigoroso, come sono tutti gli enjambements a una parola) comporta una forte pausa nella scansione del verso: la parte seguente parrebbe destinata unicamente a precisare le coordinate cronologiche del passo (cum ... cum), ma di nuovo l’indicazione di queste fornisce l’occasione per protrarre la descrizione della quieta notturna, sovrapponendo nuovi elementi a quelli già detti. Sembra che stia davanti al poeta un quadro troppo suggestivo per potersene staccare troppo facilmente: Virgilio, come Alcmane, non descrive, contempla: è egli stesso affascinato, come da un grande mistero della natura: ed è un quadro in cui manca del tutto la presenza dell’uomo. Naturalmente, Virgilio non viene meno a quelle caratteristiche di eleganza e di perfezione formale che sono il timbro peculiare della sua poesia. Se l’effetto di Alcmane era ottenuto dalla forte anafora e0dousi ... e0dousi (dormono ... dormono), Virgilio non usa un verbo di uso comune quale sarebbe dormiunt, ma espressioni assai più ricercate, e si avvale di una variazione (carpebant soporem ... somno positae): se si osserva che Nox erat et costituisce un’anticipazione della descrizione vera e propria, e si colloca pertanto al di fuori di questa, notiamo che i due riferimenti al sonno si trovano alle due estremità della descrizione e quasi la incorniciano (2), con in più il riferimento intermedio di quierant che descrive uno stato di quiete già raggiunto. Peraltro il carpebant soporem iniziale aggiunge delle informazioni che il semplice dormiunt non darebbe: il sonno non è solo un momento di pausa dettato da una precisa esigenza fisiologica, ma è quasi una decisione: carpere è verbo che si adatta a differenti usi, spesso metaforici, ma la sua idea centrale è quella dell’‘afferrare brano a brano’: molto diversa la frase finale che col suo somno positae (la cui discendenza dal placida composta quiete dsi Varrone Atacino è palese) indica uno stato raggiunto. Per una piena comprensione del carpebant sororem ci si deve rifare al v. 530, ove l’espressione solvitur in somnos ribadisce l’idea di questa risoluzione verso il sonno che è negata a Didone. Quest’idea del movimento verso uno scopo (solvitur in somnos) propone qualcosa di diverso dall’espressione corpora somnus solverat, che troviamo in Ovidio (Met. X 368 s.): oltre tutto il medio solvitur esprime la partecipazione del soggetto all’azione. Ma non sembra fuori posto anche un richiamo al passo iniziale del libro IV, dove è Didone stessa caeco carpitur igni: nella trama dei richiami che l’opera letteraria antica genera, si crea una nuova opposizione fra le creature che conquistano il proprio spazio di riposo dopo le fatiche del giorno e la regina che, protagonista puramente passiva di una vicenda più grande e incomprensibile, è conquistata da una fiamma che la corrode e che non si può estinguere. Che si tratti di informazioni non accessorie è provato anche dal confronto con gli altri notturni più brevi che ricorrono nel poema: in essi per l’idea del sonno vengono utilizzate espressioni più comuni quali somnus habebat (Aen. III 147) e sopor altus habebat (Aen. VIII 27): la scelta di un lessico più scelto è dunque funzionale al contesto: non è motivata da una ricerca di effetto, e neppure dal legittimo desiderio di mantenere elevato il registro linguistico del poema rifuggendo dalle espressioni della lingua d’uso, ma nasce dalla precisa necessità di caricare il contesto poetico di informazioni più precise. L’idea del ‘dormire’ propria del frammento alcmaneo si fonde e quasi si salda indissolubilmente con l’idea del ‘silenzio’ (tacet ... sub nocte silenti), che sembra invece caratteristica, preminente o assoluta, delle riprese ellenistiche: Si noterà ancora che in Virgilio, come in Alcmane, l’aggettivazione è intensa, e in parte esornativa, ma mai ridondante (saeva ... pictae ... aspera); anche l’impiego di anafore (cum ... cum), di enjambements e dell’allitterazione (lacus late liquidos) contribuisce ad accrescere l’intensità della descrizione.

Si osserverà che dei quattro notturni dell’Eneide tre iniziano con Nox erat et: solamente Aen. IX 224 (dove è più forte il richiamo ai corrispondenti passi omerici) si sottrae a questo modello. Fonte virgiliana può essere stato l’inizio del XV epodo di Orazio:


                                    Nox erat et caelo fulgebat luna sereno
                                               inter minora sidera,
                                    cum tu magnorum numen laesura deorum
                                               in verba iurabas mea. 

 

Il contesto è diverso (sono i giuramenti degli amanti al chiaro di luna, motivo non infrequente nella poesia antica), ma l’epodo si apre con una descrizione di una notte luminosa che, pur nella sua brevità, è carica di suggestione. Si è pensato che entrambi i poeti si rifacessero ad una fonte comune, individuata nella Piccola Iliade di Lesche, nella quale leggiamo (fr. 9 Bernabé):


                                νὺξ μὲν ἔην μεσάτη, λαμπρὴ δ᾿ ἐπέτελλε σελήνη                                                

                                era la notte nel suo mezzo, e luminosa si volgeva la luna. :

 

Ma l’ipotesi è proponibile solo per Orazio, che comunque ha adattato il verso greco alle esigenze della metrica latina, sopprimendo il predicativo mesátē e dando vita a un attacco di forte intensità, con Nox erat che occupa il dattilo iniziale dell’esametro così da produrre una dieresi che carica di tensione l’et che apre il secondo piede. In effetti la suggestione di questo inizio si rileva non solamente in Virgilio, ma anche in altri poeti augustei che, sia pure con intenti diversi, hanno proposto una descrizione della notte: cfr. p.es. Properzio III 25, 26

 

                                    Nox erat et sparso triste cubile gelu;

 

Ovidio, Am. III 5, 1 ss.

 

                                   Nox erat, et somnus lassos submisit ocellos.

 

Un passaggio che inizia con la stessa espressione troviamo in Bebio, Ilias Latina, vv. 113-114

 

                                   Nox erat et toto fulgebant sidera mundo

                                   humanumque genus requies divumque tenebat.

 

Si tratta di una ripresa quasi letterale di Il. II 1-2, ma l’attacco con Nox erat et mostra che nella poesia latina si è venuta a creare una tradizione: il modello greco è ripreso e rivissuto all’interno di una tradizione poetica che ha ormai acquisito una sua precisa fisionomia e una sua personalità. Lo stesso rilievo vale per Valerio Flacco, Argon. III, 32 s.

 

                                   Nox erat et leni canebant aequora sulco

                                   et iam prona leves spargebant sidera somnos.

 

Di minore interesse, perché aggiungono poco di nuovo agli elementi che abbiamo già considerato, sono altri notturni che troviamo nella poesia latina dell’età augustea e dei secoli successivi. Per esempio Ovidio, Met. X 368 ss.

 

                                   Noctis erat medium, curasque et corpora somnus

                                   solverat; at virgo Cinyreia pervigil igni

                                   carpitur indomito, furiosaque vota retractat

 

In una linea diversa si pone per contro un notturno di Stazio, Silvae V 4 (Somnus), v. 3 ss..

                                                   

                                                Tacet omne pecus volucresque feraeque

                                   et simulant fessos curvata cacumina somnos,

                                   nec trucibus fluviis idem sonus; occidit horror

                                   aequoris, et terris maria acclinata quiescunt.


Qui il riferimento ad Alcmane è assai più netto e vivo che nei precedenti, così da dare l'impressione che il passo non si collochi nell'ambito della poesia di tradizione postaugustea, ma si rifaccia direttamente ad Alcmane. Il passaggio si trova all'interno di un breve carme (Somnus, leggi tutto il componimento) in cui Stazio, stremato da un'insonnia ormai perdurante da sette giorni, invoca il Sonno perché ritorni a effondere sopra di lui i suoi doni. Benché non manchino riferimenti mitologici ed espressioni un po' complicate (è la prima volta che troviamo riferimenti mitologici in un componimento dedicato alla notte e al sonno), il brano ha un andamento abbastanza delicato e un tono personale che lo rende gradevole. Anche il fondo ironico che lo pervade risulta originale nell'ambito e lo distacca dal tono generalmente aulico e distaccato della poetica di Stazio. Anche se la ripresa di Alcmane fosse qui priva delle consuete mediazioni ellenistiche e romane, non si potrebbe comunque ricavare da questo componimento alcuna indicazione sul contesto generale della perduta composizione del lirico greco arcaico: il contrasto tra i quattro versi qui citati e il contenuto generale del carme di Stazio è notevole, e quel poco che ci resta della lirica greca arcaica rende assai poco verosimile la possibilità di immaginare i versi del notturno inseriti in un carme anche lontanamente assimilabile a quello di Stazio. L'unica cosa che possiamo ribadire è il fatto che anche in Stazio, come praticamente in tutta la tradizione che lo precede, troviamo il contrasto tra la quiete notturna e la veglia del singolo. Nel caso specifico questa veglia non è legata a nessuna pena d'amore e a nessuna stringente preoccupazione, ma solo a una situazione patologica: il poeta soffre d'insonnia e rivolge una preghiera al dio Sonno perché almeno gli passi vicino e lo sfiori con la sua presenza benefica.

Sulla scia di questo passo può essere letta un'altra descrizione della notte ancora di Stazio (nella Tebaide, I 336 ss.):


                                    Iamque per emeriti surgens confinia Phoebi
                                    Titanis late, mundo subvecta silenti,
                                     rorifera gelidum tenuaverat aera biga;
                                     iam pecudes volucresque tacent, iam Somnus avaris
                                     irrepsit curis pronusque ex aethere nutat,
                                     grata laboratae referens oblivia vitae.
                                     Sed nec ...


Di nuovo, Stazio innova rispetto ai suoi predecessori inserendo richiami mitologici nella descrizione della calma notturna.

Un altro e diverso notturno latino merita di essere richiamato, quello di Tacito, Ann. XIV 5:

Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere.

L’attacco del passo offre al lettore una descrizione breve, ma suggestiva, di una notte chiara e tranquilla e di un mare calmo: ma la pace dello spettacolo naturale è messa in relazione con un progetto criminoso, perché Nerone ha deliberato di uccidere la madre facendo naufragare la nave in cui essa si trova, e la notte serena permette di mettere in opera il piano. Vi è contrasto stridente tra la bellezza della quadro naturale e la presenza del male che grava su di esso: ma, con ulteriore passaggio, la pace della natura diviene anche strumento del male, perché il chiaro della notte e la calma del mare costituiscono una premessa favorevole per l’esecuzione del piano. Il quadro si carica così di domande angosciose, in quanto il contrasto fra bene (il senso di equilibro e di pace che nasce dalla contemplazione della natura) e male perde di vigore, e anzi il bene sembra cospirare col male favorendone il compimento, in un intrecciarsi inestricabile di componenti.

                                  

                                   

 

(1) Sen. Rhet., contr. VII 1, 27: Soleo dicere vobis Cestium Latinorum verborum inopia <ut> hominem Graecum laborasse, sensibus abundasse; itaque, quotiens elatius aliquid describere ausus est, totiens substitit, utique cum se ad imitationem magni alicuius ingeni derexerat, sicut in hac controversia fecit. nam in narratione, cum fratrem traditum sibi describeret, placuit sibi in hac explicatione una et infelici: nox erat concubia, et omnia luce carentia <sub> sideribus muta erant. Montanus Iulius, qui comes fuit <Tiberii>, egregius poeta, aiebat illum imitari voluisse Vergilii descriptionem: nox erat – habebat [Aen. VIII 26 ss.]. At Vergilio imitationem bene cessisse, qui illos optimos versus Varronis expressisset in melius: desierant – quiete. Solebat Ovidius de his versibus dicere potuisse longe meliores, si secundi versus ultima pars abscideretur et sic desineret: omnia noctis erant. Varro quem voluit sensum optime explicuit; Ovidius in illius versu suum sensum invenit.

 

(2) Il v. 528, omesso dai codici antichi e dalla maggioranza dei codici carolingi e assente dal commento di Servio, sembra un’interpolazione tardiva, trattandosi di una ripresa quasi letterale di Aen. IX 225 (con la sola variazione di laxabant in lenibant). Benché commentatori virgiliani anche autorevoli (Sabbadini, Paratore) ne abbiano difeso l’autenticità, esso sembra da espungere, come fanno le edizioni critiche più recenti (ad es. Mynors, Geymonat).

 

Nella figura: Mosaico del II sec. d.C. proveniente dalla città di Risan (Montenegro) con una delle rare rappresentazioni del dio Sonno.

 

 

 

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