INSEGNARE LATINO
 

 

 

 

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INSEGNARE LATINO

una questione di finalità

 

di Giulia Regoliosi

 

Nel 1973 gli studiosi olandesi De Man e Te Riele pubblicavano un manuale di lingua latina  che si proponeva di rendere gli alunni capaci di leggere direttamente in latino. Tale testo venne ripreso in italiano da Cadei e pubblicato  nel 1979, ed. Minerva. L’opera, dal titolo Redde Rationem, ebbe un certo successo, tanto da generare imitazioni “indigene”, quali Latino oggi di Monaco-De Bernardis-Sorci (Palumbo) e Come funziona una lingua: il latino di Pezzolano Filos-Favarin (La Scuola).  Ma l’interesse  diminuì presto: il testo degli autori olandesi, congegnato in cento lezioni di cui settantasei fondate su un brano in latino inventato, intendeva utilizzare il metodo induttivo, cioè far ricavare morfologia e sintassi dai testi secondo il metodo moderno della unity: tuttavia all’inserimento precoce di un gran numero di nozioni di differente natura corrispondeva  un loro sviluppo in un lungo arco di tempo: di conseguenza la programmata autonomia si trasformava in una costrittiva dipendenza dai brani già noti, rendendo fra l’altro difficilissimo l’inserimento di esercizi e verifiche.

Un tentativo  di diverso genere  fu operato dalla latinista B.M. Mariano con il manuale Latine - Dai testi alle strutture, edito nel 1988 da Marietti, rielaborazione di un quaderno dell’IRRSAE Lombardia  della stessa autrice.  Anche in questo caso il metodo era induttivo, ma si partiva solo da testi autentici, iscrizioni e brevi brani letterari, da cui si traevano notazioni morfosintattiche riprese poi sistematicamente nella rubrica finale. L’estrema brevità dell’opera (383 pagine compresi gli esercizi) la rendeva subito di scarsa utilizzazione: due anni dopo fu aggiunto un volume di esercizi (parzialmente snaturando l’idea originaria, fortemente omogenea) e poi l’esperienza si chiuse.

Attualmente l’unico manuale in uso che si propone il metodo induttivo è quello del danese H. Ørberg, Lingua latina per se illustrata, curato in italiano da Miraglia, che ne gestisce anche con grande passione la diffusione e l’utilizzo. Ørberg riprende sostanzialmente l’idea  degli studiosi olandesi di Redde Rationem: imparare la lingua straniera direttamente in lingua, attraverso ampie letture di testi inventati e successivamente (al secondo anno o anche oltre, a seconda che l’utilizzo sia concluso nel biennio o prosegua nel triennio) di rielaborazioni di testi classici (Virgilio e Livio). Tendenzialmente dovrebbe svolgersi in lingua anche la conversazione in classe, secondo una modalità da lingua moderna: gli insegnanti sono pure stimolati a inserirsi creativamente, specie nell’elaborazione di esercizi e verifiche.

E’ bene chiarire come l’alternativa più diffusa al metodo induttivo, cioè un rigido insegnamento normativo-sincronico (modello inossidabile il manuale di Tantucci) mi trova contraria: la lingua latina ha uno sviluppo, una storia, diversi registri e linguaggi, per cui ogni forzatura schematica è diseducativa (perdita del senso della storia, dello sviluppo di una civiltà, della creatività d’autore) e scolasticamente perdente (gli autori del triennio sono vari e lontani nel tempo e nei generi, le scelte ministeriali per la prova di maturità spaziano ampiamente). Ma proprio per questo trovo ancora più forzato il legare l’incontro con una lingua a testi inventati o rimaneggiati, o peggio ad un parlato fittizio (meglio sarebbe allora l’idea della Mariano, ma difficilmente realizzabile in toto). Soprattutto mi colpisce che sia stato accolto con entusiasmo un metodo creato in ambito non romanzo, olandese o danese che sia: si comprende che il parlante non neolatino affronti il latino con assoluta estraneità, come lingua totalmente altra; ma per lo studente italiano la possibilità di usare la lingua-uno come lingua contrastiva mi sembra una ricchezza imperdibile. Un metodo moderatamente normativo, che rilevi la differenza dall’italiano non forzando l’opposizione (prima o poi si capirà che la tanto conclamata consecutio temporum è praticamente uguale  in italiano, anche se possiamo semplificare la relatività temporale secondo il nostro gusto), né appiattendo una lingua sull’altra, ma mettendo in luce le modificazioni e le differenze di punti di vista, mi sembra ancora il metodo migliore.

E’, ultimamente, una questione di finalità, o forse di gerarchia di fini. Suscitare entusiasmo e curiosità (come sembra avvenga per l’Ørberg) è sicuramente positivo; ancor più abituare alla lettura cursoria e all’assimilazione di vocaboli (l’esito più rilevante del metodo induttivo). Ma il contatto con la diacronia (cioè con il senso storico), quel tanto di senso di lontananza che crea rispetto  per un mondo lontano che ci è però padre, l’ascolto della diversità degli autori, e insieme l’attenzione all’analisi e alla riflessione sul particolare (difficile per il ragazzo di oggi, ma tanto più educativa) mi sembrano fini più importanti.

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