2001-1. ­Editoriale.
 

 

 

 

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"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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2001-1

 

Tempo fa una mia conoscente mi parlava dei suoi figli: entrambi più che trentenni, da anni abitano da soli, hanno fatto svariati lavori, cambiato più volte partner, sono attualmente singles: la ragazza tiene sulla scrivania un cartellone con le foto degli ex. I figli li conosco: hanno fatto un buon liceo, sono sempre stati culturalmente motivati, impegnati nella scuola, seri (e anche veloci) negli studi universitari; genitori molto uniti, socialmente impegnati. Eppure la filosofia del vivere alla giornata, rifiutando ogni scelta duratura se non definitiva (di lavoro, di matrimonio, di figli) li ha coinvolti: al punto che la madre, che ha fatto del dovere la sua bandiera, arriva a chiedersi disorientata se non ci sono altre logiche altrettanto valide che le sfuggono.

È il carpe diem oraziano, si dice. Ma per Orazio si tratta di valorizzare l’istante, senza sprecarlo nell’ansia del futuro; di cogliere (strappare, anzi) l’occasione che il giorno ci offre; di vivere ogni giorno come ultimo, pronti a godere di ogni nuovo giorno, di ogni nuova ora, come di un guadagno insperato. La valorizzazione dell’istante senza l’angoscia del futuro è il contrario dell’idea di effimero che si accompagna banalmente all’espressione carpe diem: perché la serietà si misura sul presente, mentre le eccessive preoccupazioni per il futuro paralizzano ogni decisione. Senza dimenticare che il carpe diem oraziano ha due motivazioni di fondo ineludibili: anzitutto il permitte divis cetera (o il quem mihi, quem tibi finem di dederint, o anche il certus enim promisit Apollo), vale a dire un affidarsi agli dèi da cui dipende il nostro domani, ma che già hanno mostrato di saper cambiare le cose in meglio e sono stabili nelle promesse; poi l’idea tutta romana di decus, che implica un tempo per ogni cosa, un impegno diverso per giovinezza e maturità della vita.

Più che ad Orazio, occorre allora rifarsi all’idea di flessibilità: la grande parola d’or­dine del lavoro, della scuola, dell’autonomia. Certo, in sé l’idea di una capacità di modificarsi, di apprendere nuove cose, di misurarsi con nuove realtà è positiva; ma sta portandosi dietro uno strascico di precarietà, di rifiuto di impegnarsi a fondo con la realtà e le persone, di progettare, di creare: il contrario, cioè, di quanto vorrebbe produrre. Lo vediamo in ogni cosa: nei bambini che non fanno più lo stesso gioco se non per pochi minuti, che non amano le feste di compleanno perché costretti a giochi collettivi (infatti va per la maggiore il parco di divertimenti con biglietti offerti dal festeggiato); nei ragazzi che, con l’appoggio delle famiglie, cambiano continuamente scuola, anche se hanno risultati positivi, alla ricerca di compagni più simpatici, professori più di sinistra o più di destra o semplicemente più; che cambiano tipo di scuola dopo anni, anche alla vigilia del diploma; negli universitari che intanto fanno vari lavoretti, cambiano facoltà, si trascinano per anni; negli adulti inquieti, che vivono soli per essere più liberi, che rimandano tutte le scelte importanti.

Attenzione allora alla flessibilità nella scuola. Il modello di scuola americana che elimina il gruppo classe fin dai primi anni e  ricrea gruppetti a seconda dei diversi moduli per pareggiare capacità e competenze può forse essere più efficiente, ma impedisce il formarsi di rapporti stabili (anche conflittuali, non importa), di misurarsi col diverso, di tendere a migliorarsi, di aiutarsi reciprocamente; elimina l’angoscia della bocciatura, ma rimanda solo il problema alla fine, quando, dopo anni di illusioni, assommando competenze inferiori rispetto ai coetanei, lo studente non può che fare una maturità di livello più basso, che gli preclude molte strade. Non è questa la flessibilità che vogliamo, ma solo quella che valorizza le differenze, aiuta ciascuno a dare il meglio di sé, in una stabilità di rapporti e d’impegno. Per questo, qualunque sia la scuola futura, stiamo lavorando. Ci suggerisce questa volta Virgilio: fata  viam invenient, aderitque vocatus Apollo.

 

      

 

 

 

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