1988-3. Editoriale.
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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1988-3

 

 

Dedichiamo l’editoriale di questo numero a Virgilio. Quando anticipazioni della stampa hanno reso noti i progetti per la riforma dei programmi di italiano per il futuro biennio unico e si è parlato di una soppressione della lettura obbligatoria di Virgilio nelle quarte ginnasio e clasp si corrispondenti e di Manzoni nella quinta, si sono levate voci di protesta e di difesa dell’autore dei Promessi Sposi, mentre nei confronti di Virgilio vi è stato un oblio totale. Eppure Virgilio fu autore grande in sé e grande per le energie che seppe suscitare in elevate personalità poetiche delle età successive, da un Dante a un Tasso, tanto per citare due nomi. E se per Dante, convinto assertore della letteratura in volgare, Virgilio è la “nostra maggior Musa” (Par. XV 26), “il nostro maggiore poeta” (Conv. IV 26), vi è in ciò il riconoscimento di una continuità ideale fra l’antichità classica e  la sua epoca, che aveva saputo assorbire gli spunti positivi della cultura pagana e li aveva interpretati in una sintesi originale. Non stiamo a indagare sui motivi per cui si arriverebbe all’eliminazione dalla scuola di Virgilio e Manzoni, e trascuriamo anche il fatto che la censura si abbatterebbe, guarda caso, su due personalità ricche di humanitas e di afflato religioso, assai difficilmente inquadrabili, dunque, nei nuovi miti di una cultura moderna. Siamo anche disposti a riconoscere che la lettura di Virgilio nelle prime classi superiori pone obiettive difficoltà che rendono spesso difficile valorizzare pienamente le potenzialità del testo. La lettura di Virgilio, infatti, presuppone come necessario sostrato la conoscenza dei poemi omerici e un ampio bagaglio di nozioni mitologiche che lo studente di oggi non possiede: nei programmi de1la vecchia scuola media, prima della riforma del 1962, la lettura di Virgilio teneva dietro a quella dei poemi omerici. Caduta questa premessa, e sostituitasi nella media inferiore la lettura di Omero con la cosiddetta epica, uno strano ed eterogeneo miscuglio di spunti diversi per provenienza, finalità e contenuti, rimane la presenza isolata di Virgilio all’inizio del ciclo quinquennale di scuola media superiore. Ma l’obiettiva difficoltà così determinatasi non è insuperabile: la buona volontà degli insegnanti ha sopperito alle incoerenze dei programmi ufficiali, affiancando alla lettura di Virgilio quella di un’antologia omerica: la conoscenza dei testi finisce per essere, per forza di cose, più ristretta, ma il risultato è nel complesso dignitoso e sostanzialmente adeguato. Anche gli editori hanno preso atto della nuova tendenza, e hanno prodotto testi di lavoro, in qualche caso pregevoli, con traduzioni accessibili e un corredo di note spesso apprezzabile.

Ancora una volta, dunque, il legislatore, anziché seguire e favorire una linea di tendenza che parte dalla base e si muove in una direzione culturalmente interessante, rischia di intervenire con provvedimenti intempestivi e che passano sopra la testa dei più diretti interessati, studenti, genitori e insegnanti. Ma non intendiamo proseguire la polemica contro disposizioni non definitive e che, per il momento, conosciamo solamente nelle linee generali (anche se una parola aperta e chiara degli addetti ai lavori può essere, oltre che doverosa, utile). Quel che più lascia perplessi, in tante prese di posizione, interviste, dibattiti che la prossima riforma del biennio ha suscitato, è l’emergere di una nuova parola magica, che in modo sempre più consistente sembra destinata a prendere il posto di vecchie parole d’ordine. La nuova parola d’ordine è acquisizione di competenze: un motto che è figlio di vecchi miti risalenti al passato decennio, miti la cui forza d’urto e la cui capacità distruttiva è per il momento sopita, ma non del tutto dimenticata. Perché il porsi come traguardo nel biennio l’acquisizione di competenza può darsi solamente dove prevale in modo miope la smania dell’unicità, e si deve in due anni dare qualche rudimento pratico di calcolo e di analisi linguistica sia a chi disegna di fare la facoltà di ingegneria e di lettere, sia a chi dopo quindici anni desidera realizzare la sua vocazione personale e porre le sue energie a servizio della collettività attraverso un’attività manuale: e dovendo per esempio i programmi di italiano essere uguali sia per il futuro falegname sia per il futuro docente universitario, è chiaro che Virgilio e Manzoni rischiano di essere un lusso superfluo, mentre è molto più urgente insegnare a scrivere senza troppi errori di ortografia e in modo sufficientemente coerente.

Trascuriamo il fatto che proporre un’ottica del genere implica anche riconoscere la disfatta dell’attuale scuola dell’obbligo, che proprio su tali miti di unitarietà si era fondata alle sue origini: e l’errore di valutazione ormai chiaramente emerso in quasi trent’anni di esperienza non si risolve creando un nuovo tipo di scuola  che prolunga di due anni un metodo chiaramente inefficace. Trascuriamo anche il fatto che il notevole accrescersi, negli ultimi anni, delle iscrizioni al liceo classico parla nettamente in favore di una linea di tendenza che privilegia una scuola che si propone di dare allo studente una formazione di base ampia con una prevalenza dei contenuti umani su quelli specifici di disciplina o di un gruppo di discipline. Quel che piů sconcerta è l’assoluta mancanza di sensibilità dimostrata finora nei confronti dei più diretti interessati, studenti di quattordici-quindici anni, che proprio per la giovane età meriterebbero invece la “maxima reverentia”. Essi hanno diritto di chiedere alla scuola una formazione umana attuata attraverso l’istruzione superiore: una trasmissione di contenuti culturali che li aiuti ad essere persone complete, una scuola che li renda capaci di inserirsi nella cultura della nostra epoca e che sviluppi in loro capacità critiche e di giudizio: non una scuola che si limiti a fornire dati e informazioni d’interesse meramente pratico e immediato, ma una scuola che li guidi a interrogarsi sul significato dell’uomo e dell’essere, che li renda capaci di sentire dentro di sé convinzioni ed ideali forti e tali da sorreggerli nel corso dell’esistenza, che li stimoli ad indagare in modo appassionato i misteri della natura e della scienza. Temiamo che tutto ciò sia utopistico. Figli, nipoti e nostalgici di un Sessantotto, i cui risultati devastanti sono sotto gli occhi di qualunque operatore scolastico, finiranno per adeguarsi a parole d’ordine vecchie e nuove, ma inesorabilmente staccate da una realtà che in questi venti anni si è mossa instancabilmente e non ha cessato di fornire spunti di riflessione e di giudizio.

L’unica speranza è che ragioni politiche rimandino a tempi migliori l’attuazione dei nuovi programmi: in fondo, è dagli inizi degli anni Settanta che giacciono i vari progetti di riforma della superiore e da allora ben pochi passi avanti si sono fatti in questa direzione: è comunque avvilente che l’unica speranza sia legata all’inefficienza delle nostre massime istituzioni repubblicane e al vaniloquio rissoso di molti nostri rappresentanti.

 

 

 

 

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