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Teocrito, Idillio IX, Il Ciclope, vv. 19-60.

 

O bianca Galatea, perché respingi chi ti ama, tu più bianca a vedersi della giuncata, più molle di un agnello, più pettoruta di una vitella, più fresca dell'uva acerba? Tu bazzichi da queste parti quando il dolce sonno mi avvince, e te ne vai subito che il dolce sonno mi abbandona, e fuggi come la pecora che ha avvistato un grigio lupo. Mi sono innamorato di te, o fanciulla, allorché dapprima venisti con mia madre volendo cogliere sul monte fiori di giacinto, ed io guidavo per via. Cessare, dopo che ti ho visto anche in seguito, non posso più da allora, ma a te non importa nulla, per Zeus. So, graziosa fanciulla, perché tu mi fuggi; perché un solo sopracciglio folto su tutta la fronte lungo si estende da un orecchio fino all’altro orecchio e un solo occhio vi sta sotto, e largo si apre il naso sul labbro. Ma io, pur essendo tale, reco al pascolo migliaia di bestie e da esse mungo e bevo il miglior latte; e il cacio non mi manca né d'estate né d'autunno e nemmeno nel cuor dell'inverno; e i graticci sono sovraccarichi sempre. E suonare io so la siringa come nessuno dei Ciclopi, te mio dolce pomo e insieme me stesso cantando di frequente a notte fonda. Allevo per te undici cerve, tutte colla loro collana, e quattro piccoli orsacchiotti. Ma vieni da me e non ci perderai nulla, e lascia che l’azzurro mare si scagli contro la riva. Più dolcemente nell'antro presso di me passerai la notte: vi sono allori qui, vi sono slanciati cipressi, v’è la nera edera, v'è l'uva dal dolce frutto, vi è la fresca acqua che a me l'Etna ricca d’alberi dalla sua neve bianca invia come bevanda divina. Chi mai preferirebbe in luogo di tutto ciò tenersi il mare o le onde? E se io stesso ti appaio troppo villoso, ho però legna di querce e sotto la cenere un fuoco inestinguibile; e sopporterei d'essere bruciato da te anche nell'anima e nell'unico occhio, di cui nulla ho più dolce. Ohimè, perché non mi partoriva la madre munito di branchie acciocché potessi tuffarmi fin da te e baciarti la mano, se non vuoi la bocca, e recarti i gigli bianchi o il tenero papavero dalle rosse foglie? Ma questi fioriscono d'estate, quelli d'inverno, cosicché non potrei portarteli tutti allo stesso tempo. Ora però, o fanciulla, voglio tosto apprendere almeno a nuotare. (...)

 
κἠκ τούτων τὸ κράτιστον ἀμελγόμενος γάλα πίνω·
τυρὸς δ' οὐ λείπει μ' οὔτ' ἐν θέρει οὔτ' ἐν ὀπώρᾳ,
οὐ χειμῶνος ἄκρω· ταρσοὶ δ' ὑπεραχθέες αἰεί.
συρίσδεν δ' ὡς οὔτις ἐπίσταμαι ὧδε Κυκλώπων,
τίν, τὸ φίλον γλυκύμαλον, ἁμᾷ κἠμαυτὸν ἀείδων
πολλάκι νυκτὸς ἀωρί. τράφω δέ τοι ἕνδεκα νεβρώς,
πάσας μαννοφόρως, καὶ σκύμνως τέσσαρας ἄρκτων.
ἀλλ' ἀφίκευσο ποθ' ἁμέ, καὶ ἑξεῖς οὐδὲν ἔλασσον,
τὰν γλαυκὰν δὲ θάλασσαν ἔα ποτὶ χέρσον ὀρεχθεῖν·
ἅδιον ἐν τὤντρῳ παρ' ἐμὶν τὰν νύκτα διαξεῖς.
ἐντὶ δάφναι τηνεί, ἐντὶ ῥαδιναὶ κυπάρισσοι,
ἔστι μέλας κισσός, ἔστ' ἄμπελος γλυκύκαρπος,
ἔστι ψυχρὸν ὕδωρ, τό μοι πολυδένδρεος Αἴτνα
λευκᾶς ἐκ χιόνος ποτὸν ἀμβρόσιον προΐητι.
τίς κα τῶνδε θάλασσαν ἔχειν καὶ κύμαθ' ἕλοιτο;
αἰ δέ τοι αὐτὸς ἐγὼν δοκέω λασιώτερος ἦμεν,
ἐντὶ δρυὸς ξύλα μοι καὶ ὑπὸ σποδῷ ἀκάματον πῦρ·
καιόμενος δ' ὑπὸ τεῦς καὶ τὰν ψυχὰν ἀνεχοίμαν
καὶ τὸν ἕν' ὀφθαλμόν, τῶ μοι γλυκερώτερον οὐδέν.
ὤμοι, ὅτ' οὐκ ἔτεκέν μ' μάτηρ βράγχι' ἔχοντα,
ὡς κατέδυν ποτὶ τὶν καὶ τὰν χέρα τεῦς ἐφίλησα,
αἰ μὴ τὸ στόμα λῇς, ἔφερον δέ τοι κρίνα λευκά
μάκων' ἁπαλὰν ἐρυθρὰ πλαταγώνι' ἔχοισαν·  
ἀλλὰ τὰ μὲν θέρεος, τὰ δὲ γίνεται ἐν χειμῶνι,
ὥστ' οὔ κά τοι ταῦτα φέρειν ἅμα πάντ' ἐδυνάθην.
νῦν μάν, κόριον, νῦν αὐτίκα νεῖν γε μαθεῦμαι, (...)
 

Trad. di V. Pisani, da Teocrito, Idilli, a cura di V. Pisani e L. Di Gregorio, Roma 1984

 

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