"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI) "La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)
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“Perché studiare il latino”
di Dario Antiseri
Dario Antiseri (nato a Foligno nel 1940), filosofo e
scrittore, docente all'Università La Sapienza di Roma, alla LUISS di Roma
(Metodologie delle scienze sociali) e in altre importanti università italiane,
autore di saggi e di studi di grande importanza (trattati di riconosciuto valore
internazionale, ma anche testi di alta divulgazione) e collaboratore di varie
testate, esprime in questo scritto la sua posizione sul problema.
(da MondOperaio n.6 Novembre-Dicembre 2003)
Accantonato come “un alieno, un cafone” per avere francamente
preso di mira tanti “cialtroni” e “chiacchieroni” la cui indefessa opera genera
solo irrazionalismo, Carlo Bernardini dichiara, nella sua lettera a De Mauro (in
Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma Bari 2003) di non
voler affatto nessun conflitto tra le due culture, standogli a cuore solo che
“quei testoni dei letterati e dei filosofi smettano di parlare come funzionari
di una ‘cultura dominante’ e, riconoscendo che noi scienziati siamo perfino in
grado di vedere i nostri limiti, ci diano almeno “l’onore delle armi” — e
precisa che “il pensiero scientifico dipende fortemente da condizioni di
contorno che attenuano la dominanza del pensiero irrazionale”.
Da qui la sua difesa della precisione semantica, del rigore logico e
dell’aderenza (certo, non dimostrata come assoluta) delle teorie scientifiche ai
fatti: e da qui il suo motivato disprezzo per l’incomprensibilità deliberata
vista come “una perversione, una forma di ostilità gratuita verso i propri
simili”. D’accordo su tutto ciò, si può essere pienamente d’accordo con
Bernardini anche su parecchi altri punti, per esempio sulla sua riflessione
relativa alla manualistica scolastica; sul fatto che l”astratto non è affatto
sinonimo di non-reale”; sull’idea che “insegnare è uno dei mestieri più
difficili del mondo” (“richiede umiltà e autorevolezza: due qualità spesso
incompatibili nei caratteri individuali”). Mi permetterei, comunque, di
rivolgere a Bernardini delle domande sulla prescrittività o meno del metodo
scientifico o su che cosa egli esattamente intenda per metodo induttivo.
Certo, Bernardini ha ben ragione di lamentarsi del fatto che molti storici della
scienza non sono mai stati scienziati, per cui “il potere evocativo della storia
corrente della fisica o della matematica è prossimo a zero”. Ma gli chiedo: come
mai non ci sono dei fisici i quali avvertano come urgente il compito che, come
Bernardini ci ricorda, Amaldi affidava a se stesso quando disse: “Voglio
scrivere questa storia prima che ci mettano le mani gli storici...”? Se ci sono
storici della scienza che, per mancanza di competenza, si limitano “a curiosità
(...) che sono superflue e fuori posto”, ci sono in Italia anche stimatissimi e
meritori storici del pensiero scientifico come Paolo Rossi. E poi: perché quando
un istituto di fisica ha avuto un fisico seriamente impegnato in indagini
storiche riguardanti la fisica contemporanea, gli stessi fisici si sono ben
guardati dal fargli fare carriera e di avere così allievi? Sto parlando, per
essere chiaro, di Salvo D’Agostino, le cui ricerche sono ben conosciute,
soprattutto fuori dal nostro Paese.
Non c’è qui spazio per rendere conto di due storie, quella di “Calandro” e
quella di “Erasto B. Mpemba”, da cui Bernardini estrae una interessante “morale
pedagogica”. Restando, però, sempre nell’orizzonte della formazione, mi sta a
cuore puntare l’attenzione sulla mai sopita questione dell’insegnamento del
latino. “Nessuno o quasi invoca più il mito del latino lingua logica, e ciò è
bene, ma ben pochi sanno insegnare e pochi imparano davvero il latino e ciò, a
mio avviso, non è bene, anzi è proprio male”. Questo risponde Tullio De Mauro a
Carlo Bernardini, per il quale non si sa a che mai serva il latino. Dunque:
serve ancora studiare il latino? Ebbene, la risposta di De Mauro è un chiaro sì.
Anzitutto “serve come l’acquisire una buona pratica di una qualunque lingua
diversa dalla nostra. L’effetto di spaesamento linguistico, lo sappiamo, è
salutare alfine di migliorare il controllo del nostro stesso intendere”. Ma vi è
di più: “Una lingua è fatta per mettere in contatto le generazioni” - e qui sta
la ragione per cui “i giapponesi e cinesi d’oggi studiano nelle scuole il cinese
classico, gli indiani il sanscrito, i persiani e gli arabi l’arabo classico; e
questa è anche la ragione per cui da un capo all’altro dell’Europa e del mondo
linguisticamente europeizzato si è studiato e si studia il latino”. Ed ecco la
conclusione di De Mauro: “Il latino è parte profonda e viva della nostra storia. Solo chi crede di potere tagliare le proprie radici e tuttavia sopravvivere
può immaginare che la nostra società, la nostra comunità nazionale possa
rinunciare alla linfa che viene al nostro parlare e - pensare da un rapporto
profondo non ristretto a pochi eruditi con l’eredità latina. Serve ancora il
latino? Sì, a chi vuole essere contemporaneamente europeo e italiano”.
In una società come la nostra che si avvia ad essere sempre più “aperta”, sempre
più plurietnica e multiculturale, la consapevolezza delle nostre radici, la
delineazione dei tratti di fondo della nostra identità è questione ineludibile,
perentoriamente necessaria se si vuole davvero dialogare con culture e
tradizioni “altre” ed entrare magari in eventuali feconde contaminazioni con
esse, all’interno di una civile convivenza e reciproco rispetto.
Dunque: pieno accordo, con De Mauro sull’utilità e, direi, sulla necessità dello
studio del latino. Da parte mia, direi: necessario l’inglese per la più ampia
comunicazione, per “stare” insieme agli altri; necessario il latino per sapere
chi siamo e da dove veniamo. Ma qui vorrei aggiungere un’altra argomentazione a
favore dello studio del latino (e del greco) - o un’argomentazione che va nella
direzione di quella educazione alla razionalità su cui anche Carlo Bernardini
giustamente, e appassionatamente, insiste. E’ di Popper — pur se non soltanto sua
— l’idea che unico sia il metodo della ricerca scientifica. Dovunque si faccia
ricerca — in fisica come in sociologia e storiografia, in biologia e in chimica
come anche in filologia o nella traduzione di un testo — non si fa altro che
risolvere problemi tramite la proposta di ipotesi o congetture da porre al
vaglio delle loro conseguenze, nella consapevolezza che l’errore individuato ed
eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venire fuori dalla
caverna della nostra ignoranza. D’altra parte, seguendo l’insegnamento di Gadamer, sappiamo che l’interpretazione di un testo è una ipotesi su quello che
il testo dice - sul messaggio o senso del testo-; interpretazione che va
controllata sul testo e sul contesto; e se qualche pezzo di testo o contesto
urta contro la prima interpretazione, se ne deve proporre un’altra, in un lavoro
possibile ed infinito. Ebbene, se Popper e Gadamer sono nel giusto, ne segue che
scienziato è il fisico e scienziati sono il critico testuale e il traduttore.
Anche il traduttore è un ricercatore che fa congetture sul significato di
termini ed espressioni, sul senso di un testo, su quello che un testo dice. E
sottopone a controllo rigoroso questi nuovi tentativi di traduzione — e quelli
altrui. Tutti noi ricordiamo i momenti di ansia davanti a testi greci o latini
da tradurre. E se il testo non aveva il titolo, le nostre preoccupazioni
aumentavano. Poi magari arrivava, data la nostra precomprensione, il momento di
grazia: “Ho capito!”. Che cosa avevo capito? Avevo capito di che cosa trattava
il testo: una battaglia, un viaggio in mare, una favola con intenti morali,
qualche episodio della vita di qualche illustre personaggio e così via.
Fatta la congettura, si cercava di inserirvi tutti i “pezzi” del testo: avverbi,
aggettivi, espressioni idiomatiche, si forzavano le cose andando a pescare la
quarta accezione del verbo, la quinta dell’aggettivo, si lasciava un buco qua e
là; e se la versione non veniva fuori, si chiedeva al compagno di banco: ma di
che cosa tratta? E si ricominciava a tradurre. Congetture e confutazioni: in
questo consiste il lavoro del traduttore, il modo di procedere dell’ermeneuta. E
se questo è vero, è vero anche che tanto spesso nei nostri licei scientifici
l’unico lavoro di ricerca è consistito nella versione dilatino, e nei nostri
licei classici nella versione di greco e dilatino. Tradurre equivale a risolvere
problemi, mentre tanto spesso l’insegnamento delle scienze (sovente
ametodologico e astorico) è consistito nell’esecuzione di esercizi.
Il problema è il prirnum movens della ricerca; l’esercizio va invece eseguito:
chi fa un esercizio non deve, in linea generale, scatenare la fantasia, non deve
discutere, non deve sbagliare — ha da applicare leggi e regole magari apprese a
memoria senza motivazione alcuna. Ha certamente ragione Bernardini a denunciare
l’irrazionalismo che ci circonda da ogni parte; ma viene da chiedergli se della
corriva tolleranza verso l’irrazionale sia colpevole solo “una intrinseca
debolezza del pensiero umanista”; se sia vero che il pensiero umanista “sia solo
un pensiero che bada soltanto ad essere erudito ed elegante” e che ha
“responsabilità enormi nella formazione dell’uomo contemporaneo”.
Penso che le colpe siano rinvenibili sia nel campo di fisici e biologi
“cialtroni” sia in quello di letterati “retori”. Ma non va dimenticato che non
sono i fisici ad insegnare il rigore scientifico ai filologi. E che sarebbe
opportuno riflettere su quanto qualche anno fa affermò Noam Chomsky, e cioè che
“si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai
romanzi che non dalla psicologia scientifica”. La grande letteratura è prodotta
con mezzi non scientifici. Chiedersi, ha scritto Nelson Goodman, se una persona
è un Don Chisciotte o un Don Giovanni, è “una domanda vera e propria, quanto
chiedersi se una persona è paranoica o schizofrenica, ed è anche piuttosto
facile dare ad essa una risposta”. L’esperienza artistica e quella scientifica —
è ancora Goodman a parlare - hanno entrambe “un carattere fondamentalmente
cognitivo”.
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