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La figura del servo in Terenzio

Parecchie delle commedie di Plauto sono definite "commedie del servo". Il poeta assume come impianto lo schema generativo della nea, che prevede di solito una lotta tra due antagonisti per il possesso di un bene – quasi sempre una donna e/o una somma di denaro – che si conclude, dopo una serie di peripezie, con il successo di una parte e il danneggiamento dell’altra. All’interno di tale schema Plauto inserisce l’azione vitale di un servus callidus, al quale di solito è delegata dal padroncino la conquista del bene in palio, che regge le fila dell’intreccio elaborando piani vittoriosi. Lo scioglimento consiste nel "rimettere a posto le cose" e il servo, pur utilizzando mezzi illegittimi e truffaldini, quindi passando attraverso una fase di temporaneo "disordine", è colui che collabora al conseguimento di un ordine più giusto e autentico rispetto alla realtà iniziale (nota 1) .

Anche nelle commedie di Terenzio è presente in modo massiccio la figura del servo, ma sia il suo carattere che la sua azione all’interno dell’intreccio non sono assimilabili a quelli dei servi plautini. L’azione, d’altra parte, non si riduce generalmente al puro conseguimento di un bene materiale, ma è finalizzata a realtà spesso complesse e difficili da ottenere con semplici sotterfugi. Emblematico è il caso dell’Hecyra e degli Adelphoe, commedie statariae, originali nell’ambito del teatro latino e in un certo senso antesignane del teatro moderno, in cui l’intreccio, del resto estremamente scarno, non esaurisce l’interesse dell’opera, ma è funzionale ora all’affermazione di una tesi ora alla presentazione di caratteri.

Nell’Hecyra lo scopo da conseguire è che il matrimonio accettato dal giovane Panfilo per forza, e in seguito rivelatosi fonte di gioia, continui felicemente, e ultimamente che ogni personaggio riacquisti agli occhi degli altri quella credibilità che una serie di equivoci aveva messo in dubbio.

Proprio lo scarto tra le apparenze e la realtà, determinato del fatto che ciascuno conosce solo un aspetto e non il contesto globale della vicenda, è la molla dell’azione, che induce i personaggi ad andare in cerca di false motivazioni e di supposti colpevoli di una situazione non chiara. Lo strano comportamento di Filumena, che durante l’assenza del marito Panfilo abbandona la sua casa per tenere celata una gravidanza ritenuta disonorevole, spinge la suocera Sostrata ad autopunirsi per presunte mancanze e il marito Lachete ad etichettarla come la classica suocera malevola. Nato il bambino, Panfilo è convinto che non sia suo e cerca di giustificare la sua decisione di divorziare dalla moglie senza dover rendere noto il suo segreto (rivelare la nascita del bambino), passando così per avaro e superbo agli occhi dei due vecchi padri (Lachete e Fidippo). Quando anche Fidippo scopre il bambino, che crede figlio naturale dei due sposi, se la prende con la moglie (accusata ingiustamente di voler mandare a monte le nozze) e propone a Lachete di prenderselo in casa, se proprio non vuole Filumena. Le sofistiche argomentazioni di Panfilo, che non può accettare di crescere un figlio non suo e d’altra parte non vuole tradire la moglie, istillano nei due vecchi il sospetto che il giovane voglia tornare a frequentare l’etera Baclide, liberandosi della moglie e del figlio. Lo scioglimento avviene per opera dell’etera, per la cui mediazione si viene a sapere che il figlio partorito da Filumena era in realtà di Panfilo. Grazie a questo elemento risolutore, che permette di ricostruire l’intero corso degli eventi, si rompe il velo delle apparenze che rischiava di compromettere la fiducia reciproca e tutti si rivelano innocenti, crescendo anzi nella stima reciproca: l’ordine e la giustizia che vengono ristabiliti non sono dunque fissati da convenzioni esteriori (la legittimità del bambino), ma si calano in una dimensione interiore, coincidono con un rinnovato equilibrio nei rapporti tra le persone del dramma.

In tutta questa vicenda il ruolo del servo Parmenione è curioso. Egli prende parte attivamente alle peripezie dei padroni , verso i quali dimostra affetto e comprensione (vv. 281-313), ma è all’oscuro degli eventi nodali del dramma. È l’unico che, in quanto confidente del padroncino, è a conoscenza dell’importante particolare che Panfilo non aveva toccato la moglie nei primi tempi del matrimonio, per cui sarebbe stato in grado di trarne le logiche conseguenze (135-151), ma resta totalmente all’oscuro dell’evento della nascita. Delegato al ruolo di informatore (nota 2), è in realtà il personaggio meno informato di tutti, a tal punto che nel momento cruciale, quando Panfilo scopre la nascita del bambino, esce di scena con un pretesto (430-443) per non tornare che alla fine del quinto atto, investito del buffo ruolo dell’intermediario ignaro di tutto: è infatti affidato a lui l’incarico di riferire a Panfilo il particolare risolutore dell’anello, ma egli è del tutto inconsapevole del senso del suo messaggio, poiché ne ignora il contesto, ed è il primo a stupirsi degli effetti benefici di ciò che annuncia (vv. 808 segg.).

Bonaccione e un po’ allocco, è anche dotato di grande umanità e di acuta sensibilità (nota 3), ma sconta la sua pigrizia col correre inutilmente di qua e di là (è anche servus currens) e l’eccessiva curiosità col rimanere per sempre all’oscuro degli avvenimenti intercorsi durante la sua assenza. La battuta finale sintetizza efficacemente il suo ruolo nella commedia:

... equidem plus hodie boni / feci imprudens quam sciens ante hunc diem umquam.

È dunque un personaggio dai contorni ben definiti al quale è legata piuttosto l’espressione del comico che un ruolo propositivo nello sviluppo dell’azione; d’altra parte le peculiarità che lo individuano rispetto al "tipo" del servo tradizionale permettono già di definirlo come "carattere".

Anche il ruolo del famulus furbo e intrigante è ripreso della tradizione, così come quelli della cortigiana e del lenone, ma in Terenzio viene interpretato non più da tipi convenzionali, copie contraffatte e stilizzate della vita reale, ma da caratteri, che, seppure ancora non sviluppati integralmente, sono delle copie verosimili del mondo di cui la commedia di Terenzio vuole essere una rappresentazione. Almeno potenzialmente, infatti, i rappresentanti della medesima categoria assumono caratteristiche differenti, che vengono ulteriormente evidenziate dall’abitudine dell’autore di presentarli in coppie (nota 4), e mostrano nel corso della vicenda diversi atteggiamenti talora contraddittori.

Il tentativo di caratterizzare i personaggi con tratti individuali e distinti evidenziato nell’Hecyra è attuato dall’autore anche per quelle categorie di servi che per vicende, atteggiamenti e comportamenti risultano più vicini ai tipi presenti nell’opera plautina.

Numerosi infatti sono gli esempi di servus callidus terenziani, ma in linea di massima appaiono meno infidi e furfanteschi di quelli plautini, meno volgari nell’espressione e presentano accanto alle tradizionali caratteristiche dell’arguzia, della destrezza verbale e della capacità di simulare ed improvvisare altri aspetti nuovi e peculiari.

Paradigmatico è Siro degli Adelphoe, commedia in cui Terenzio rivela maggior attenzione per la formulazione della sua tesi circa i metodi educativi più validi che per l’intreccio. I protagonisti, infatti, Damea e Micione, sono due fratelli che hanno curato l’uno l’educazione di Ctesifonte con rigidità ed intolleranza, l’altro di Eschino con comprensione e accondiscendenza (nota 5). Entrambi i figli, tuttavia, pur buoni e ossequienti alla patria potestas, deludono le aspettative dei rispettivi educatori, abbandonandosi ad una vita libertina. Ctesifonte, infatti, si innamora di una ballerina e viene aiutato da Eschino a venirne in possesso, mentre quest’ultimo usa violenza ad una fanciulla libera, ma, per la sua indole naturalmente generosa e nobile, desidera legittimare l’unione e riconoscere il bimbo che ne deve nascere. Tuttavia, mentre Ctesifonte continua a nascondersi alla vista del padre di cui teme l’ira, Eschino trova la comprensione del genitore che, pur rimproverandolo per gli atti commessi, lo accoglie nuovamente a sé in una scena commovente (IV, 5).

Sembrerebbe, quindi, venir consacrata la validità del metodo educativo meno rigido, nel rispetto dei nuovi ideali e dei nuovi costumi di humanitas esaltati ed incarnati da Terenzio, quando nel V atto, con straordinari effetti comici, assistiamo ad una radicale trasformazione di Demea.

Questi, resosi conto della benevolenza che circonda il più magnanimo Micione, si atteggia a benefico dispensatore di ricchezze e di libertà, forzando anche la mano di Micione ed inducendolo a concessioni anche per lui eccessive. Vuole dimostrare così che un atteggiamento estremamente accondiscendente e munifico nell’educazione è possibile solo laddove esistano abbondanti mezzi e porta a buoni risultati unicamente se i giovani siano di buona indole. Demea, percio, pur mostrandosi comprensivo e perdonando il figlio, decide di tornare al suo comportamento abituale che solo può garantire una guida per i giovani sempre irriflessivi e impetuosi. Micione sembra accettare questo richiamo di Demea ed anche Eschino dichiara di volersi attenere per l’avvenire alla sua guida.

L’autore non affida quindi la risoluzione dell’intrigo iniziale ad un servo deus ex machina secondo il costume plautino, ma al mutato convincimento dei suoi protagonisti, costituendo così un esemplare di commedia psicologica ante litteram. Eppure nel corso dell’azione compare tra le usuali figure di servi il personaggio di Siro, schiavo di Eschino, che svolge la funzione di intrigans nelle vicende amorose dei due giovani e che ricalca il tipo del servus callidus, vafer, con il quale condivide anche il carattere di ingordo (v. 590) e di scansafatiche.

Come intrigans egli si affianca a Ctesifonte per ottenere dal lenone Sannione uno sconto sul prezzo della ballerina (II, 3), e distoglie Demea dal cercare Ctesifonte in città, dove in realtà si trova, mandandolo a cercare in campagna (III); e gli impedisce di entrare nella casa di Micione in cui si nasconde il figlio, convincendolo a cercare il fratello in una bottega fuori alle mura. Tuttavia, se il fine della sua azione è accettabile, i mezzi da lui utilizzati sono l’inganno, la menzogna e la finzione di cui è oggetto soprattutto il personaggio di Demea che risulta costantemente abbindolato ed imbrogliato con evidenti effetti comici. Siro in questa azione si dimostra un acuto osservatore della realtà umana, rivelando dì conoscere il carattere orgoglioso di Demea e di saperlo assecondare nelle sue velleità: Nimium intra vos, Demea, (Micìone e Demea) ac, / non quia ades praesens dico hoc, pernimium interest, / tu quantus quantu’s, nihil nisi sapientia es, / ille somnium! Sineres vero illum tuom / facere haec (391-395).

Senza che Demea se ne accorga il servo, sotto le vesti del confidente, ironizza sul modello di vita e di educazione del vecchio, e durante il colloquio tra i due, nella terza scena del terzo atto, mentre Demea sostiene le sue tesì e denìgra l’operato di Micione nei confronti di Eschino, Siro lo interrompe ripetutamente rivolgendosi al garzone Dromone ed impartendogli ordini circa l’acquisto e la preparazione di alcuni pesci (375--380; 420-425); sospende inoltre i l discorso per rivolgersi al pubblico riferendosi a Demea come ad un animale da condurre al pascolo: Abigam hunc rus (401). Si diverte nel confondere ulteriormente il povero vecchio quando, indicandogli luogo in cui avrebbe potuto trovare il fratello, tergiversa e gli dà informazioni false (573-585).

Tuttavia, nonostante tali capacità organizzative e verbali, lo stratagemma ordito da Siro per nascondere Ctesifonte alle ire del padre non raggiunge il suo scopo per l’incauto intervento del garzone Dromone che rivela al padre il nascondiglio del figlio. Siro con la sua opera, pertanto, non appare come il risolutore dell’intrigo, ma come un personaggio che con il suo comportamento nei riguardi dei giovani e di Demea presenta una particolare posizione di pensiero rispetto al problema dell’educazione affrontato nell’opera e che con i suoi atteggiamenti e comportamenti costituisce un iniziale carattere ben individuabile e distinto.

Analoghe osservazioni richiedono gli altri servi callidi delle commedie terenziane, dei quali pertanto saranno messi in evidenza solo i tratti realmente distintivi o i loro particolari ruoli nelle azioni drammatiche.

Particolarmente interessante e la struttura dell’Heautontimorumenos e la funzione del servo Siro nella vicenda. Infatti con lo schema della doppia coppia di padre e figlio (nota 6) Terenzio dà alla commedia una struttura perfettamente speculare: all’inizio dell’opera Menedemo sconta l’eccessiva severità nei confronti del figlio Clinia, e Cremete dà i suoi consigli; alla fine Cremete è alle prese con il proprio figlio Clitifone e Medenemo fa da paciere.

Le vicende assumono una duplice linea di svolgimento: la prima ruota attorno alla figura di Clinia che tende ad ottenere Antifile, povera ragazza senza dote, nonostante il divieto del padre; la seconda verte sulla figura di Clitifone che vuole l’etera Bacchide ed il denaro per mantenerla, contravvenendo ai solidi precetti morali del genitore. L’intervento del servo Siro si inserisce per realizzare il progetto di Clitifone, ma il bene illegittimo viene perduto nonostante i piani messi in atto. Il bene ritenuto moralmente legittimo, la giovane Antifile, viene invece conseguito mediante la disponibilità di Menedemo che l’esperienza ha costretto a diventare più umano e mediante il riconoscimento fortunoso di Antifila come figlia di Cremete. La situazione canonica della commedia plautina viene perciò rovesciata: non si può conseguire alcun bene con mezzi illegìttimi e immorali.

Il servo Sìro appare inizialmente deciso e intraprendente, spiritoso e sicuro dì sé, capace di manovrare le situazioni e le persone, ma all’improvviso, quando il piano fallisce definitivamente, c’è un brusco cambiamento e lo schiavo piange sulle sue disgrazie: Disperii! Scelestus quantas turbas concivi lnsciens! (970). Anche questo servus callidus viene a caratterizzarsi come un perdente e si arricchIsce di toni, non nuovi per Terenzio, ma certamente per la commedia latina.

Nel Phormio, intricata, ma fortunata commedia motoria, Geta costituisce il servo fedele che, avendo ricevuto dal padrone Demifone, partito per un viaggio con il fratello Cremete, l’incarico di sorvegliare il figlio Antifone, ha disatteso il suo compito e ha lasciato che il giovane sposasse la giovane Fania. Timoroso per l’imminente ritorno del padrone, il servo si ingegna per aiutare il padroncino Antifone e il cugino di questi, Fedria, che nel contempo si è innamorato di una cortigiana. In questo tentativo Geta rivela le medesime attitudini e capacità dei precedenti servi callidi, ma, come essi, aggiunge ai tratti del tipo plautino toni di paura e di esitazione (nota 7) e come essi non è l’artefice della soluzione che giunge inaspettata per la rivelazione che la giovane Fenia non è altri che la figlia illegittima di Cremete e, quindi, moglie adatta ad Antifone.

La funzione del servo scaltro e intrigante in questa commedia risulta ulteriormente sminuita dalla presenza di altre vicende e di altri personaggi che assurgono al ruolo di protagonisti, quali il lenone Formione che dà il titolo all’opera.

Anche il servo Davo dell’Andria si presenta come servus callidus, oltre che come servus currens (II, 3) e intrigans. Aiuta infatti il padroncino Panfilo, che pur promesso dal padre Simone alla figlia dell’amico Cremete, intrattiene una relazione amorosa con Gliceria, dalla quale attende di lì a poco un figlio. Arguto, capace di conoscere il carattere degli uomini ed abile nell’approfittare delle situazioni che gli si presentano, Davo usa le sue doti per avvertire l’inganno che il padre ordisce alle spalle del figlio per indurlo a sposare colei che gli aveva destinato e per ingannarlo a sua volta facendogli credere che il parto di Gliceria sia simulato e che il figlio sia disposto ad assecondare il desiderio del padre.

Rispetto ai servi callidi plautini Davo assume tratti peculiari e caratteristici rivelando una maggior complessità di aspetti quando è imbarazzato e dubbioso circa l’atteggiamento da assumere nei confronti del padrone, ma soprattutto quando il suo piano iniziale fallisce. Si dispera, rimpiange di essersi impegnato (600-605), ma, desideroso di rimediare e confidando nelle proprie forze (618-620), architetta un nuovo piano. Servendosi dell’ancella Miside, senza che questa si accorga di essere utilizzata e senza che capisca il piano del servo (IV, 6), Davo induce Cremete, il padre della promessa sposa di Panfilo, a credere che il giovane attenda un figlio da un’altra donna e ad annullare, pertanto, le nozze. Tuttavia anche in questa commedia lo stratagemma ordito dal servus callidus non è strettamente necessario allo scioglimento dell’intrigo che si verifica autonomamente ed improvvisamente per l’intervento fortuito di Critone che porta la notizia che Gliceria, la fanciulla amata da Panfilo e madre di suo figlio, è in realtà libera, ateniese e, soprattutto, figlia di Cremete.

Nella più plautina delle commedie di Terenzio, l’Eunuchus, la figura del servo acquista un peso più consistente, anche se non proprio determinante (nota 8) e si avvicina più degli altri famuli ai personaggi di Plauto per il carattere: furbo, conoscitore degli uomini, pronto allo scherzo e alle battute di spirito, tiene testa nel I atto alla cortigiana Taide e al padroncino Fedria, del quale commenta con ironia e insieme affettuosa comprensione la debolezza in amore (57-206). Come altri servi plautini, inoltre, Parmenone è oggetto di punizioni e di beffe da parte di altri servi. Nel V atto, infatti, l’ancella Pitia, vendicarsi di essere stata ingannata precedentemente dal servo Parmenone, ordisce una tresca alle sue spalle, dando origine alle scene più comiche dell’opera (643-667; 817-831).

Tuttavia, anche questo servo, così propriamente plautino, rivela un’indole buona e onesta, quando, temendo per la sorte del suo padroncino, rivela ogni cosa al padre, pur sapendo di rischiare di persona (766 seg.). Il carattere infido e doppio è invece assunto dal parassita che mira unicamente a conservarsi un posto a tavola.

I servi callidi di Plauto, caratterizzati dalla furbizia e dalla ribalderia, entravano spesso in opposizione dialettica con altre figure di servi per lo più sciocchi e bonari, facili preda, quindi, delle insidie e delle beffe dei più scaltri. Tale contrasto non può verificarsi nelle commedie di Terenzio per il carattere composito dei servi che abbiamo finora esaminato. Gli altri personaggi servili presenti nelle opere in questione, perciò, non devono considerarsi in antitesi a Siro, Geta, Parmenone e Davo, ma, come loro, copie ugualmente verosimili dei famuli della società latina del II secolo a.C.

Nell’Andria, ad esempio, compare nel II atto Birria, il servo di Carino, amico di Panfilo e innamorato della fanciulla a lui destinata in moglie. Anch’egli è legato al padroncino e lo assiste nelle sue vicende amorose (324; 415), ma ha nei suoi confronti un atteggiamento scettico e sospettoso, scostante e insofferente per il suo carattere ansioso, giungendo ad essere talora arrogante e volgare. Carino, dal canto suo, esprime il suo carattere di amante geloso, bistrattando il servo: Abin hinc in malam rem cum suspitione istac, scelus (317).

Simile, ma non identico, è Davo, servo di Antifone nel Phormio, che assolve, come il Sosia dell’Andria, alla funzione di introdurre nel I atto l’antefatto della commedia. Anch’egli come Birria non presenta un atteggiamento di dedìzione verso il padroncino, ma rivela un sentimento di invidia nei confronti dei ricchi (68-69) e di astio verso la loro volontà di essere serviti ed onorati (40-41).

Un carattere particolarmente violento ed aggressivo distingue Geta, il servo di Sostrata negli Ade1phoe. Di scarsa ri1evanza nell’intreccio (ha solo una funzione di raccordo tra Panfilo e G1iceria), presenta spunti di grande comicità (III, 2) e toni particolari. Nella dedizione verso le sue padrone, infatti, diventa ansioso per la loro sorte di donne sole e vendicativo contro chi le offende: Vix sum compos animi, ita ardeo iracundia. / … Seni animam primum extinguerem ipsi, qui illud produxit scelus; / Tum autem Syrum inpu1sorem, vah! quibus illum lacerarem modis! Tutti i servi esaminati, i più scaltri e più ingenui, quelli più funzionali all’intreccio e quelli più marginali, hanno come caratteristica comune la fedeltà al proprio padrone e alla propria familia. I rapporti di confidenza, familiarità, spesso addirittura di parità che essi intrattengono coi padroni potrebbero ricalcare i moduli convenzionali della commedia nuova, ma non sembrano del tutto inverosimili se proiettati sullo sfondo della società romana del tempo, in particolare se si tengono presentì certi ambiti sociali piuttosto che altri, quegli ambiti cioè dell’aristocrazia illuminata che costituivano gli ideali destinatari delle opere dl Terenzio.

Diversamente dalla speculazione greca, infatti, che almeno fino all’ellenismo teorizza la schiavitù per natura (nota 9), il diritto romano, prima ancora di essere influenzato dallo stoicismo, si fonda sulla convinzione che la schiavitù discende dal diritto positivo (da collegare col diritto di guerra) e non è un fatto di natura; da tale convinzione proviene la pratica certamente antica, ignota ai Greci, della concessione della cittadinanza allo schiavo liberato e del permesso accordato ai liberti di accedere alle magistrature. Nella mentalità e nel diritto romani, perciò, l’uomo è per natura libero e di conseguenza lo schiavo è potenzialmente uguale al cittadino.

Inoltre, se è vero che gli schiavi sono tra le personae alieno iure subiectae perché poste in potestate dominorum (nota 10) e in quanto tali il padrone ha su di loro diritto di vita e di morte, è altresì noto che la condizione dello schiavo della familia urbana era tra le più tollerabili e privilegiate (nota 11). Seneca nell’epistola 47 collega l’uso per cui i maiores chiamavano familiares gli schiavi con l’humanitas dei Romani e l’assenza di disprezzo per gli schiavi stessi.

Era con questi schiavi che si stabiliva spesso un rapporto umano e cordiale, come attesta per esempio, benché sia una fonte già tarda, l’epistolario di Cicerone, o le dimostrazioni di lealtà degli schiavi romani nei confronti dei loro padroni in momenti difficili, o ancora la cura che nell’ultima repubblica e in età imperiale molti domini pongono nell’assicurare luoghi di sepoltura e onori funebri a schiavi e liberti della propria familia (nota 12).

Nell’età delle grandi conquiste, poi, col diffondersi della ricchezza e del lusso ìmportati dall’oriente, si sviluppa una sorta di "terziario", con la diversificazione e la moltiplicazione dei servizi e con il ricorso a schiavi specializzati (camerieri, cuochi, giardinieri, flautisti, lettori, ecc.). Tale diversificazione di ruoli già s’intravede nelle commedie terenziane (nota 13).

In conclusione, è possibile che ai tempi di Terenzio i servi della familia urbana intrattenessero rapporti paritari, sul piano umano, con i loro padroni, anche se è altrettanto certo che Terenzio nelle sue commedie intendesse additare, sia per i servi che per i padroni, un modello ideale di comportamento a cui non era estraneo il concetto stoico di φιλανθρωπία, proprio allora oggetto di dibattito all’interno del circolo scipionico.

Nelle immagini: 1. Busto di Terenzio (Roma, Museo Capitolino); 2. Scena dall’Andria in un codice di Leida del X sec. (Simone parla con Panfilo, Davo e Byrria); 3. Pendaglio al collo di uno schiavo ("Tene me, ne fugiam; revoca me…") (Roma, Museo Comunale).

1) Cf. G. B. Conte, Letteratura latina, Le Monnier, Firenze 1987, pp. 38-45.

2) Nel primo atto informa gli spettatori degli antefatti (114-194); all'inizio del terzo atto sappiamo che Panfilo, appena tornato dal viaggio, è stato informato da lui della situazione.

3) Egli cerca di attenuare la gravità del presunto dissenso tra suocera e nuora confortando il padroncino (281-313); nel momento in cui Filumena sta per partorire decide di non entrare nella casa di Fidippo per non aggravare la situazione già precaria di Sostrata (327-335); per lo stesso motivo convince poi Sostrata a non entrare quando sente le grida di Filumena (340-345).

4) P. es. i due padri e i due figli degli Adelphoe e dell’Heautontlmorumenos; i due vecchi e le due suocere dell’Hecyra; i due giovani fratelli e i due servi principali dell’Eunuchus, ecc.

5) Il medesimo tema, di grande attualità all'epoca e negli ambienti di Terenzio, viene affrontato anche nell’Heautontimorumenos attraverso il contrasto tra genitori dai rigidi precetti morali e figli che si allontanano dai loro modelli abbracciando un comportamento libertino. In modo forse meno articolato rispetto agli Adelphoe in questa commedia Terenzio prospetta la necessità di un atteggiamento più equilibrato da parte di entrambi gli interlocutori.

6) Presentano la medesima struttura bìlaterale anche gli Adelphoe e il Phormio, in cui compaiono le vicende di due genitori, fratelli tra di loro, e dei loro rispettivi figli; tale struttura risponde certamente alla scelta di Terenzio dl evidenziare ulteriormente i caratteri dei diversi personaggi attraverso il confronto tra due individui appartenenti alla stessa categoria, ma differenti umanamente.

7) "... ego illius sensum pulchre calleo;/ cum fervit maxume, tam placidum quam ovem reddo. / ... Laudarier te audit libenter: facio te apud illum deum; / virtutes narro.. ./ tuas: homini ilico lacrumae cadunt / Quasi puero gaudio..." (Adelph. 534-536).

8) La commedia si configura come plautina anche per il susseguirsi dei colpi di scena, per la presenza di personaggi tipici della tradizione comica come il soldato millantatore (Trasone) e il parassita che gli fa da spalla (Gnatone) e, infine, per la nota di brillante comicità legata alla presenza del vero e del falso eunuco (Doro e Cherea) nelle loro vesti variopinte.

9) Tale è, com’è noto, la tesi sostenuta da Platone e Aristotele, che si integra con quella della superiorità del greco sul barbaro φύσει "per natura". Bisognerà attendere gli apporti della filosofia stoica e cinica per arrivare al1’affermazione dell’unità del genere umano e alla negazione della schiavitù per natura; tale speculazione influirà soprattutto sul tardo stoicismo romano, in particolare su Seneca; cf. M. Sordi, Paolo a Filemone o Della schlavitù, Ed. Universitarie Jaca, Milano 1987, pp. 23-29 e bibliografia annessa.

10) Dig. I, 6, 1, 1; sulla definizione giuridica del servo vd. Sordi, op. cit., pag. 30 e 35.

11) Più pesante la condizione della familia rustica, che poteva ultimamente comportare gli ergastula, cioè il lavoro in catene, oppure quella ancora dei più disumani servi poenae, i condannati a vita che lavoravano per esempio nelle miniere, o ancora quella delle familiae gladiatoriae, esistenti dal I sec. a. C. e molto diffuse in età imperiale. Cf. Sordi, op. cit., pp. 36-45 e blbliografia annessa.

12) Sordi, op. cit., p. 40. Interessante a questo proposito la presenza di un liberto nell’Andria.

13) Ci sono levatrici (la Lesbia dell’Andria), nutrici (Sofrona del Phormio, Lesbia dell’Andria, Sofrona dell’Eunuchus, anonima nell’Heautontimorumenos) , cuochi (Sosia dell’Andria, garzoni (Dromone degli Adelphoe e dell’Heautontimorumenos), ancelle varie nell’Eunuchus, un servo lararius (Dramone dell’Andria) e un servo adversitor (Storace degli Adelphoe).

 

 


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