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La ragione e la virtù dell'uomo nel De vita beata di Seneca

in rapporto alla fenomenologia di Husserl

 

I.

“È una vita felice quella che si conforma alla sua natura, e questa vita si può conseguire solo se la mente è sana e in costante possesso della sua salute e, poi, se essa è forte e attiva, ora capace di sopportare mirabilmente, secondo le circostanze, preoccupata ma non ansiosa riguardo al suo corpo e a ciò che riguarda quest’ultimo, ora attenta ad ogni altra cosa che dà sostegno alla vita senza particolare sollecitudine per alcuna, intenzionata ad usare i doni della sorte non a servirli” (1).

Così Seneca, con la consueta pregnanza e classica limpidezza, sulla felicità, che, lo si capisce bene, è essenzialmente realizzazione di un equilibrio psico­fisico fondato sul primato dell’animo, anzi della ragione e, pertanto, è indicabile con la parola greca eudaimonía, cioè armonia, benessere dello spirito (2). E tale vita secondo natura è vera sapienza e libertà perché, scacciati gli allettamenti illusori delle cose e dei sensi, subentra nell’animo gioia perfetta (gaudium subit inconcussum et aequale) ed è spenta ogni ferocia che nasce da debolezza e quindi da contrasti interni. Peraltro, la felicità coincide col sommo bene che è animus fortuita despiciens virtute laetus; ed ecco ribadito il distacco dalle cose e dagli accadimenti, la cui realizzazione è appunto il bene più alto. E questo è l’animo di chi coltiva l’onestà, si contenta della virtù ed è autosufficiente (unum bonum honestas, unum malum turpitudo). Di conseguenza, ripete Seneca, per essere liberi si dovranno respingere il piacere e i casi della sorte: ci sarà così vero sapere, giudizi retti e stabili e ancora: ex cognitione veri gaudium grande. Poi, respinto più volte il piacere, non senza apprezzamento per il piacere di Epicuro (quello catastematico) – sicca et sobria voluptas (3) – ribadisce: Natura duce utendum est: hanc ratio observat, hanc consumit. E più specificamente nel capitolo XIV: Agedum, virtus antecedat, tutum erit omne vestigium. E significativamente soggiunge: Rationalem porro sortititi naturam quae melius res ratio proponitur? E a conclusione della prima parte del De vita beata – quella più interessante, per le posizioni filosofiche espresse, chiaramente risalenti alla scuola e verosimilmente a Crisippo – : “Dunque, la vera felicità è posta nella virtù. E che cosa ti consiglierà questa virtù? Di non valutare bene o male niente che non derivi dalla virtù o dal vizio”.

Come a dire che mónon tò kalòn Þgaqón (“solo ciò che è bello è buono”), mentre tutto il resto o è male, cioè vizio, o è indifferente (adiaphoron) (4). E, infine, la virtù basta per vivere bene: Quid enim deesse poteat extra desiderium omnium poaito? Quid extrinsecus onus est ei qui omnia sua in se collegit? (5).

Tutte queste affermazioni, di matrice crisippea (6), si vede bene che mirano a dire un’unica cosa: che

la ragione è l’unico bene al quale bisogna rivolgersi; in essa è felicità, libertà, gioia e ogni soddisfazione. La natura dell’uomo è appunto la ragione; pertanto il saggio è colui che ricerca l’obiettivo, che da ciò consegue, di distaccarsi dalle cose che soggiacciono alla sorte capricciosa. Ecco, quindi, per così dire, le parole-chiave: natura-ratio ~ virtus ~ sapientia/vita beata ~ fortuna. Evidente la classica opposizione virtù-fortuna e l’altrettanto classico binomio natura-ragione, che da un lato rimandano addietro nel tempo, a Socrate e ai Presocratici e dall’altro sono destinati a determinare tanta parte del pensiero umano fino al Rinascimento e oltre.

Quanto a logos e physis (ragione e natura), essi sono i concetti fondamentali del pensiero greco, i pilastri su cui poggia la filosofia greca (7).

Editio princeps delle Lettere di SenecaPhysis è per i Presocratici principio dell’essere e delle cose e sostanzialmente coincide con la totalità del reale, considerato nel suo ordine (cfr. kosmos) e nelle sue leggi. In Platone e Aristotele finisce col significare natura sensibile, realtà sensibile. La Stoa dà a physis il significato di fondamento della norma morale e politica e, anzi, si può parlare, con gli Stoici, di Logos-Physis fondamento ontologico della realtà e fondamento dell’etica (8).

Scrive Seneca, esprimendo la dottrina della scuola (non va dimenticato che il Neo-stoicismo emargina le problematiche fisiche e ontologiche della tradizione stoica): “Ciò che è proprio dell’uomo è la ragione. Per essa l’uomo precede gli animali e viene subito dopo gli dèi. Una ragione perfetta è quindi il bene proprio dell’uomo... Ogni essere quando ha raggiunto la perfezione di quel che è il suo bene ha raggiunto il suo fine ultimo (finem naturae suae tetigit). E la perfezione della ragione si chiama virtù e in ciò appunto consiste l’onestà (haec ratio perfecta virtus vocatur eademque honestum est)” (9).

Anche Epitteto, lo schiavo filosofo, di poco posteriore a Seneca (morì nei primi decenni del II secolo): “Sei un uomo, ossia un animale mortale capace di usare le rappresentazioni in modo razionale. E che cosa vuol dire in modo razionale? Significa: in coerenza con la natura e in maniera perfetta”. E ancora: “Poiché due elementi si trovano mescolati nel la nostra generazione, il corpo, che abbiamo in comune con gli altri animali, e la ragione e l’intelligenza che abbiamo in comune con gli dèi, alcuni di noi piegano verso questa parentela miserabile e mortale, solo pochi invece verso quella divina e beata” (10). Dunque, la natura specifica dell’uomo è la ragione e, come ogni essere ha lo scopo di attuare la sua natura, così l’uomo non può che avere lo scopo di attuare la ragione che è legge, ordine, intelligenza, sapere; da ciò conseguirà la condotta morale. In altre parole: la Natura universale assegna ad ogni essere il suo fine (telos), come parte di un Tutto (il cosmo), il cui ordo si rispecchia in ogni sua componente. Il saggio è pertanto colui che sa che cos’é il bene dell’uomo, che conosce la posizione dell’uomo nel mondo (die Stellung des Menschen im Kosmos) ed ecco illustrata la celebre asserzione socratica: la virtù è sapere. Da tale sa pere, conformemente all’intellettualismo greco, non possono che derivare azioni rette e perfette (katorthómata) (11) o almeno azioni convenienti (kathékonta: officia) (12).

L’areté è nella Repubblica platonica l’attività specifica di ogni cosa; attività che corrisponde alla natura di questa (13). L’uomo, quindi, è virtuoso quando esplica bene la sua razionalità - e questo vale anche per Aristotele (14). Per i Sofisti, invece, è piuttosto abilità che si manifesta come eccellenza dell’individuo in qualcosa; per esempio per Protagora nella tecnica antilogica (15).

La Stoà fa coincidere physis e logos, e si è visto chiaramente che quest’ultimo ne è la realizzazione e il perfezionamento. La ragione sceglie se stessa (16) e con ciò fonda il primato dell’uomo autocosciente (17), di fronte alle minacce incombenti della tyche, che per gli Stoici coincide con la Heimarmene o Pronoia o Fatum, cioé con la razionalità e finalità immanenti del Dio-logos-physis (18). E la virtù, che è appunto tale cosciente e deliberato atteggiamento nei confronti del mondo, spesso nel Neostoicismo assume toni eroici e mistici; per esempio nel De vita beata: “Dai passi della virtù deve essere solcato questo erto calle della perfezione! Essa starà ritta e forte e sopporterà ogni avvenimento non solo paziente ma anche consenziente, e saprà che è legge della natura ogni difficile circostanza e farà come il buon soldato che sopporta le ferite, conta le cicatrici e morendo trafitto dai giavellotti ama il capo per cui cade; avrà,infatti, quest’antico precetto fisso nello animo: segui Dio!” (19). Su questa strada, la Stoà sfocia nel misticismo platonizzante di Epitteto e prepara il Cristianesimo. Il tradizionale primato dell’uomo sulle cose tende a porsi, eleaticamente e platonicamente, come confronto tra due realtà irriducibilmente diverse, e la dicotomia virtù-fortuna, ragione-cose si radicalizza, originando in Epitteto la fondamentale bipartizione (diairesis) della realtà in cose dipendenti da noi e cose non dipendenti da noi (proairetikà e aproaireta) (20). È noto che le problematiche di cui sopra, pur conosciute nel Medioevo, ritrovano solo nell’Umanesimo­Rinascimento la loro originaria dimensione.

Però gli Umanisti e gli uomini del Rinascimento parlando di virtù ne sottolineano particolarmente alcuni aspetti e pongono l’accento sul libero arbitrio dell’uomo, sulla sua facoltà di autoplasmarsi e di autodeterminarsi senz’alcuna costrizione (21), subentrato all’ordo e alla physis classica l’antropocentrismo di matrice biblica (alla Weltanschauung antica, prima cosmocentrica e poi teocentrica, subentra quella rinascimentale, antropocentrica). E pertanto la virtù rinascimentale si riaggancia piuttosto a quella sofistica e al celebre principio protagoreo: pántwn tÏn crhmátwn métron æstìn \nqrwpoj (“l’uomo è la misura di tutte le cose”) (22); il principio dell’homo (individuo) - mensura rerum.

 

II.

Edmund HusserlLa fenomenologia di E. Husserl, particolarmente l’ultimo grande lavoro del filosofo, la Crisi delle scienze europee (23), si propone di precisare i motivi e le cause della crisi dell’umanità europea (24) ed occidentale e di rimediarvi mediante una nuova filosofia nettamente razionalistica imperniata sull’io, sul soggetto leibhaft, “in carne ed ossa”, sull’io trascendentale: “Le mere scienze di fatti.– dice Husserl – creano meri uomini di fatto” (25); in altre parole le scienze rischiano di reificare l’umanità, perché non sono paradossalmente scientifiche (26), in quanto non fondate adeguatamente: la scienza pertanto non ha significato per la vita e il vuoto tende a prevalere nelle coscienze tiranneggiate dall’obiettivismo e dal fiscalismo. Husserl cerca, dunque, riallacciandosi alle aspirazioni dell’uomo rinascimentale, di ricomporre i rapporti tra scienza e uomo; l’umanità del Rinascimento – dice – “esige di plasmare se stessa in piena libertà e riscopre nella umanità antica un modello esemplare” (27): basta infatti citare Pico (la cui Oratio de hominis dignitate è esemplare in questo senso), ma anche la virtù demiurgica del Principe di Machiavelli, per capire quanto il Rinascimento a nelasse riprendere l’interrotto discorso della virtù e della ragione classiche (28). Ebbene, questa umanità che cerca una scienza onnicomprensiva a partire dall’io (si pensi a Cartesio di cui tanto si fa debitore Husserl (29)), sopra tutto con la matematizzazione galileiana della natura inaugura un razionalismo che tradisce le sue aspirazioni più profonde e alla lunga la corrompe (30).

Il proposito delle ricerche di Husserl è pertanto quello di ridare all’umanità europea il suo telos, il suo compito ‘obliato’ (31) e quindi all’uomo di oggi la possibilità di ritrovare il valore sommo della theoria greca (32), in un contesto culturale nel quale si armonizzino scienza e filosofia, sapere settoriale e scienza generale, io e realtà.

La filosofia parte dal mondo della vita e dell’esperienza, dal mondo materiale (Lebenswelt, Erfahrungswelt) e con l’epoché (33) (la ‘messa in parentesi della validità del mondo’) scopre la realtà fenomenica come sempre intenzionata dall’io e quindi dalla coscienza. Attraverso tale “sospensione di giudizio”, capiamo, dunque, che il senso del mondo dipende esclusivamente dalla nostra vita intenzionale: l’epoché ha fatto piazza pulita di tutto. A questo punto il mondo diventa un fenomeno trascendentale ed è dunque il correlato delle apparizioni e delle intenzioni soggettive (34). Attraverso la riduzione fenomenologica e, poi, trascendenta le, l’io si scopre vero fondamento di ogni operazio ne nella Lebenswelt e si ritrova in quanto umanità (Wir-heit), fondamento del sapere scientifico e in grado di costituire una scienza generale a partire dalla sua stessa struttura a priori. Questo io originario (Ur-Ich) della riduzione trascendentale che cos’é? Si tratta di un problema critico di rilievo – osserva Paci (35): non è una costruzione mitologica né idealismo o umanesimo retorico. E’ sempre l’io, sono io che attuo l’epoché. Quello di Husserl è soggettivismo assoluto e realismo assoluto, è la radicalità del soggetto come un fatto; è il fondamento del ritorno alle cose stesse (36). E questo io – conclude Paci – coincide con l’intersoggettività e la società umana reale e intenzionale (37). Ora, la ratio nel costante movimento dell’autorischieramento (38) si realizza autenticamente appunto scartando l’ingenuità dell’atteggiamento naturale attraverso il rivolgimento fenomenologico e trascendentale che fa superare ìl mondo come costituito di poli oggettuali ma non concepiti come tali: “Per l’esistenza umana abbiamo due gradi: quello dell’uomo che non è ancora persona in senso pieno, che non ha ancora realizzato un’autoconsiderazione ultima e la fondazione originaria dell’auto-reggimento e quello dell’uomo che l’ha già realizzato” (39), e si tratta ovviamente del filosofo. L’uomo persona in senso pieno è appunto soggetto della sua vita in armonia con gli altri soggetti, collegato ad essi dall’entropatia (40). “L’epoché trascendentale – che fonda la persona in senso pieno – è dunque un rivolgimento (Umschlag) totale dell’io, attraverso il quale l’io empirico concepisce una nuova volontà di vita” (41). Si tratta di una aorta di conversione che conduce ad una autoconoscena ultima e assoluta; e l’autoconoscenza è l’assoluta conoscenza del noi (Wir-Erkenntnis), conoscenza dell’umanità come razionalità (42).

3) Dunque, raffrontando a livello antropologico ed etico Seneca ed Husserl, appaiono subito evidenti divergenze terminologico-espressive, metodologiche, strutturali che fanno pensare ad uno iato concettua le insanabile. Invece, c’è una continuità innegabile sia perché Husserl si rifà esplicitamente alle origini dell’Occidente per poter indicare agli Euro pei in un’ora difficile il loro “compito” storico, sia perché ci sono indiscutibili convergenze di fon do riguardo alla concezione antropologica, che fanno capire come Husserl sia figlio della filosofia classica, di cui riformula in ottica nuova e “moderna” i valori perenni; in particolare:

a) il primato dell’essere umano e della persona: sia l’uomo della tradizione (vir bonus, honestus, virtute praeditus) sia l’io trascendentale sono nettamente anteposti alla realtà fenomenica, l’uno testimone autocosciente della armonia del cosmo, capace di capirlo e di riprodurne le simmetrie e le divine proporzioni, l’altro fondamento ultimo di ogni sapere e “datore di senso” e di verità all’intero mondo, di cui è l’interprete privilegiato. In Husserl operano soprattutto istanze epistemologiche – la fondazione delle scienze: il suo proposito è quello di liberare l’uomo dalla crisi, dall’alienazione e di ridargli la facoltà di autodeterminarsi. In Seneca, si tratta di tutelare l’uomo dalle cose, dal destino, dal male, dal piacere: è un’ottica che privilegia il piano etico-esistenziale e tende a stabilire preliminarmente che cosa abbia senso per l’uomo, che cosa sia bene, quale sia il sommo bene per l’uomo.

In Husserl il quesito di fondo è se qualcosa abbia senso e da dove venga il “senso”, cui Husserl risponde che l’uomo può e deve dare senso a tutto; così lo libera dal vuoto incombente e ricostituisce la sua dignità minacciata dalla reificazione (Verdinglichung) delle scienze.

b) La ragione (e la coscienza) è il centro dell’uomo: la ratio è lo strumento principe per costituire il mondo, cioè per dargli senso, verità, essere e quindi per fondare quella “strenge Wissenschaft”, basata sull’io leibhaft, che è la fenomenologia. In Seneca è telos morale e in pratica coincide con la libertà e la virtù. L’io assoluto che si scopre Wir-heit è la ragione che ai autodiechiara e autodetermina attraverso l’epoché, riconoscendo come tali i fenomeni (anche nello stoico Epitteto l’opzione di fondo tra io e cose comporta un rivolgimento totale e la ripulsa delle cose (43)). La ragione è anche coscienza cioè relazionalità, intenzionalità e, dopo l’epoché, Feld der Sinngebung (44); in Seneca, la coscienza da pura appercezione (syneidesis) diventa sede dei valori morali e, dunque, fonte delle certezze che consentono di respingere ogni debolezza e cedevolezza nei confronti del caso e delle realtà esterne (45).

c) La virtus è telos dell’uomo: alla problematica tradizionalmente concernente la virtù, subentra in Husserl – e lo si è visto – quella della autoconoscenza e della conseguente costituzione attiva del mondo. Per gli antichi il problema era determinare la natura dell’uomo e quindi il suo bene; poi di realizzare tale bene, ovviamente la ragione: ecco la virtù; nel Rinascimento l’uomo si scopre assolutamente libero, posto al centro del mondo e “mensura rerum’: il microcosmo (individuo pensante e soprattutto volente) si oppone dialetticamente al macrocosmo, che tende a trasformare. In Husserl, il problema epistemologico è tutt’uno con l’esigenza di consentire alla ratio di sconfiggere l’obiettivismo e il fiscalismo, al fine di garantire all’uomo di poter ridiventare “faber fortunae suae”. E’ evidente pertanto che il telos fenomenologico si riallaccia alla virtù rinascimentale (46), e indirettamente a quella classica, come alla sua origine (ursprünglich).

 

Nelle immagini: 1. Pagina dell'editio princeps delle Lettere di Seneca (Roma, 1475); 2. Edmund Husserl

 

(1)  Seneca, , 3, 3.
(2) Affine all’eudaimonía è senz’altro l’euthymía; a proposito della tranquillitas animi: Hanc stabilem animi sedem Graeci euthymian vocant (De tranquillitate animi, 2, 3).
(3) de vita beata, 13, 2.
(4) Cfr. Pohlenz, La Stoa, tr. it., Firenze 1967, I, pp. 241 sgg.
(5) de vita beata 16,1 sgg.
(6) Si tratta di asserzioni di tono intellettualistico derivanti dalla celebre equazione socratica: virtù = sapere. Seneca, qui dipendente fortemente dalla scuola, altrove dà spazio a istanze derivanti dalla mentalità romana e in particolare alla volontà, arrivando a dire: quid tibi opus est ut bonus sia? Velle (Ep. 80, 4). Su tutta la questione, cfr. Reale, Storia della filosofia antica, Milano, 1978, IV, pp. 90 sg.
(7) Cfr. Pohlenz, op. cit., I, p. 3.
(8) Cfr. Reale, op. cit., V, Indice, a. v. physis; logos; III, pp. 388 sgg. e passim. La fisica e l’ontologia stoiche sono immanentistiche, panteistiche e monistiche. Il potenziale dualismo etico (uomo-cose) si manifesta pienamente nel Neo-stoicismo, specialmente in Epitteto.
(9) Seneca, Ep. 76, 6.
(10) Epitteto, Diatribe, III, 1, 25; 1, 3, 3; cfr. l’Indice del mio volume, Epitteto, Milano, 1982, passim.
(11) Cfr. Pohlenz, op. cit., I, pp. 261-4.
(12) Cfr. Epitteto, cit., Indice, s.v. kathékon.
(13) Cfr. Platone, Resp., I, 335 b sgg.
(14) Cfr. Aristotele, Eth. Nic., A 7,1097 b 22 sgg.
(15) Cfr. Reale, op. cit., I, 234 sg.
(16) Cfr. de vita beata, 14,1 supra.
(17) La ragione è autoteoretica: cfr. Epitteto, Diatr., 1, 20.
(18) Cfr. Reale, op. cit., III, pp. 362 sgg.
(19) De vita beata, 15,5
(20) Cfr. Epitteto, cit., Introduzione(di Reale) e passim. Il dualismo etico postula un dualismo ontologico (ma la metafisica platonica non é ancora recuperata).
(21) Cfr. il passo di Pico citato infra.
(22) Protagora, fr. 1; Reale, op. cit., I, pp. 230 sgg..
(23) Pubblicata postuma per la prima volta nel 1954.
(24) Cfr. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it., Milano 1965, pp. 328 sgg, e passim.
(25) Cfr. Crisi, p. 35.
(26) Cfr. Crisi, pp. 156 agg. (27) Cfr. Crisi, p. 37 ag.
(27) Cfr. Crisi, p. 37 ss.
(28) Cfr. Pico della Mirandola, dall’Oratio de hominis dignitate: “Nec certam sedem nec propriam faciem nec munus ullum peculiare tibi dedimus, ut quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea pro voto, pro tua sententia habeas et possideas. Definita ceteris natura intra prescriptas a nobis leges coercetur. Tu nullis angustiis coercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam praefinies. Medium te mundi posui, ut circumapiceres inde commodius quicquid est in mundo. Nec te coelestem neque terrestrem, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas”.
(29) Cfr. Crisi, pp. 103 egg. e passim: il celebre cogito. Husserl cita soprattutto la II Meditazione di Cartesio.
(30) Cfr. Crisi, pp. 39 agg. e passim. Zecchi, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, Firenze 1978, p. 6: “Il decadimento dell’idea rinascimentale della scienza è rintracciata da Husserl in Galilei, Cartesio, Hume, Kant. Ed è all’interno di questa linea di pensiero che si svolgono le sue critiche e le indicazioni di superamento. Cartesio individua nell’ego cogito il fondamento apodittico della filosofia come fondamento delle scienze, ma assolutizza l’ego che diventa res cogitans lasciandone l’analisi alla psicologia oggettivistica. Kant, cercando le condizioni di possibilità di fondazione della scienza, ricorre ad un ‘mitico soggetto trascendentale”‘.
(31) La riflessione sull’origine prima (Ursprung) di fenomeni od esperienze (Erlebnisse) porta alla luce il fine (telos) della cosa stessa; cfr. E. Paci, Il valore delle scienze e il significato dell’uomo, Milano 1963, Indice, passim.
(32) Cfr. Crisi, p. 338.
(33) Cfr. Crisi, pp. 164 sgg. e passim.
(34) Cfr. Crisi, pp. 171 agg.
(35) E. Paci, op. cit., pp. 140 agg. La prima parte del libro è un’ampia e limpida esposizione dei temi della fenomenologia; la seconda una analisi dei rapporti tra fenomenologia e marxismo.
(36) Cfr. Paci, op. cit., p. 144.
(37) Cfr. Paci, op. cit., p. 140.
(38) Cfr. Crisi, p. 287.
(39) Cfr. Crisi, pp. 492; 511.
(40) Cfr. Paci, op. cit., s.v. Entropatia (Einfühhlung), p. 470.
(41) Cfr. Crisi, p. 497.
(42) Cfr. Crisi, p. 498 e pp. 284 agg.
(43) Cfr. voci prohairesis e aprohaireta nell'indice al mio volume, Epitteto, cit.
(44) Cfr. Paci, op. cit., s.v. coscienza, p. 469.
(45) Cfr. Reale, op. cit., IV, pp. 87 sgg.
(46) Cfr. Crisi, pp. 36 sgg.


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