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L’Epistola 9 di Seneca:

l’apatia greca in rapporto alla filosofia orientale

 

(da Zetesis 2/1986)

 

“Tu desideri sapere se giustamente Epicuro in una sua lettera rimproveri coloro che dicono che il saggio è pago di se stesso e perciò non sente il bisogno di fare amicizia”. Così inizia l’epistola di Seneca che affronta il tema dell’amicizia, sostenendo che il saggio, pur bastando a se stesso, stringe legami di amicizia, non perché ne abbia bisogno, ma perché vuole averne, perché vuole che la sua umanità e la sua virtù non siano in niente carenti. Ed Epicuro, che nel “Giardino” sollecitava ad esercitare tale virtù, rimprovera in particolare Stilpone Megarico che, al contrario del filosofo del piacere, proponeva l’apatheia, l’insensibilità, come valore sommo, escludendo ogni legame e rapporto affettivo e proclamando l’autarchia assoluta. In proposito osserva poco dopo Seneca: Hoc inter nos at illos interest: noster sapiens, vincit cuidem incommodum omne, sed sentit; illorum ne sentit quidem.

L’apatia è un po’ la cifra dell’etica ellenistica e, data la prevalenza in questa età dell’etica su ogni altra parte della filosofia, dell’intera filosofia ellenistica. Diversi però sono i modi di intendere l’apatia, diverse le sfumature da scuola a scuola. Le posizioni più radicali in merito sono senz’altro quelle di Stilpone e di Pirrcese d’Elide, scettico.

Stilpone, il maggiore dei Megarici, (IV-III sec. a.C.), partendo da ma dura polemica antipluralistica nei confronti dell’ontologia platonica e aristotelica arrivò a posizioni eleatiche: esiste solo l’Uno, il resto è irreale; e il saggio deve giungere all’assoluta insensibilità, cioè ad un assoluto distacco dalla realtà (1). Le posizioni megariche fornirono armi allo scetticismo di Pirrone (che ebbe tra i suoi maestri un Megarico). Pirrone negò ogni ontologia: “Il fenomeno domina sempre, dovunque appaia” (2). Negato l’essere, Pirrone, che non aveva più fiducia nell’uomo (come l’avevano, invece, in situazioni ideologiche simili, Gorgia e Protagora) rinunciò a tutto: l’uomo è nulla, fanciullesco ogni suo proposito, follia la vita: “Colui che vuole essere felice deve considerare queste tre cose: 1) qual è la natura delle cose; 2) come dobbiamo porci di fronte ad esse; 3) che cosa risulterà a coloro che si porranno in un certo modo di fronte alle cose. Dunque, 1) le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere o false; 2) di conseguenza, non bisogna accordare ad esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione perché ogni cosa è e non é; 3) coloro che si porranno in tali disposizioni conseguirsnno l’afasia e l’atarassia” (3). Le cose, dunque, appaiono a Pirrone apparenze (senza che al di là di esse ci sia una realtà noumenica); per conseguenza l’unico atteggiamento da assumere è quello dell’astensione dal giudizio, cioè dell’epoché; si tratta di restare adoxastos, cioè senza opinione, senza agitazione, indifferente. Il distacco dalle cose comporta l’afasia, cioè il non esprimersi sulla natura e sull’essere delle cose, e questo a sua volta comporta l’atarassia, la quiete interiore. Varie testimonianze ci informano su come si comportava concretamente Pirrone: “Si narra che quando per qualche ferita gli furono applicati medicamenti corrosivi o dovette subire tagli o cauterizzazioni, non contrasse neppure le ciglia” (4). Durante una tempesta in mare rimase impassibile a guardare il porcellino che aveva con sé. Difatti, come riferisce Cicerone: “Il saggio per Pirrone non sente neppure le cose fuori di sé e chiama questo apatia” (5). Non è, si badi, solo indifferenza, ma insensibilità; ed è l’atteggiamento che a un di presso doveva essere anche di Stilpone Megarico, come abbiamo visto sopra. Ma come si spiega questo sentire? E’ un sentire nuovo, “fino ad allora sconosciuto in Grecia”, dice Robin. Come sottolinea Reale (6), Pirrone tendeva a “spogliare completamente l’uomo” (ækdûnai \nqrwpon) e conclude che tale proposito è la realizzazione del suo ne sentire quidem coincidente con la “vita ugualissima” (êsótatoj bíoj) che nasce dal Divino. Probabilmente Pirrone modificava il modo di percepire le impressioni riducendole a sensazioni pure e quindi spezzando i legami causali tra loro, e così perveniva a sentire diversamente, per esempio a ignorare le offese, il dolore, ecc.

Tutto questo si comprende meglio se pensiamo agli influssi che secondo le fonti storiche egli ricevette dai Gimnosofisti indiani. Infatti, al seguito di Alessandro Magno, Pirrone incontrò dei saggi indiani (e dei Magi) (7) e in particolare Calano, che volontariamente si diede la morte sopportando impassibilmente le fiamme del rogo (8). Queste esperienze devono averlo indotto a credere nella irrealtà del mondo e nella possibilità di porsi al di sopra delle cose al punto di ignorarle.

E l’apatia stoica? Dice Seneca: bisogna distinguere tra un animo invulnerabile e un animo fuori di ogni possibilità di sofferenza: lo stoico vincit incommodum omne, sed sentit. Anche per Seneca il saggio è felice pur tra i tormenti, pur nel toro di Falaride; però distingue: altra è l’impassibilità che è costante vittoria consapevole sulle difficoltà e altra l’impassibilità che è incapacità di sentire le difficoltà, quindi indifferenza che stacca il soggetto dalla realtà e gli fa apparire identiche vittoria e sconfitta, dolore e piacere come tutte le altre cose. Ancora, Seneca a proposito del saggio dice, citando Crisippo: Ait sapientem nulla re egere et tamen multis illi rebus opus esse. E tra queste si trovano i legami di amicizia ai quali il saggio si volgerà non per utilità ma per innata socialità. Quasi alla fine dell’epistola scrive: “Cionondimeno, benché amantissimo degli amici, benché spesso li anteponga a se stesso confrontandosi con loro, porrà dentro se stesso il termine di ogni bene e dirà quel che disse Stilpone (... interrogato da Demetrio Poliorcete, distruttore di Megara): Omnia mea mecum porto. Ecco, Seneca si avvicina a Stilpone, ne sottoscrive le tesi ed esclama: Haec vox illi communis est cum Stoico. In realtà, come ho già detto, l’apatia è largamente condivisa come valore supremo da tutti i filosofi dell’età ellenistico-imperiale: si tratta spesso di accenti diversi, di coloriture diverse. Stilpone e Pirrone, dunque, rappresentano le tesi più radicalmente restrittive nei confronti dell’apatia; quelle più estensive coincidono con la metriopatia accademica (da Crantore in poi) e peripatetica, cioè con il governo moderato e indulgente degli affetti. La posizione mediana è tenuta dagli Stoici come Seneca e lo abbiamo visto.

Ma quello che qui mi interessa è soprattutto la posizione più radicale in negativo, quella megarico-scettica. Per la verità, anche i Cinici dicevano cose analoghe. Diogene di Sinope (IV secolo), il maggiore dei Cinici, predicava anche lui impassibilità e autarchia, ma facendo leva soprattutto sull’esercizio (\skhsij) e sulla fatica (pónoj) e pervenendo a un tipo di vita, la vita cinica, povera, frugale, nemica dei piaceri: spesso i Cinici si comportavano ed erano scambiati per mendicanti. Ma, ribadisco, mi pare qui più interessante l’’estremismo’ di Pirrone, che nasceva da prospettive filosofiche più complesse e metteva capo a una sorta di misticismo (la ‘vita ugualissima’) influenzato certo dal contatto col mondo orientale oltre che dall’eleatismo (l’Uno-Bene) dei Megarici.

Pagina del Buddhacarita (Le imprese del Buddha) di AçvaghoshaDunque, quali i rapporti tra l’apatia greca e la filosofia orientale, diciamo il Buddhismo? Storicamente non ci sono rapporti significativi tra filosofia greca e filosofia indiana, se si esclude l’incontro di Pirrone con gli yogi indiani. Ci sono però tangenze (per esempio tra apatia e nirvana), ma anche notevoli e significative differenze che consentono di valutare l’enorme distanza che separa il sentire occidentale da quello orientale (9).

La dottrina di Buddha (VI-V sec. a.C.) non è un dogma o un insieme di dogmi, ma piuttosto un tipo di vita che si inserisce in certe prospettive cosmogoniche e cosmologiche; è una disciplina rigorosa non tanto finalizzata al dominio di se stessi quanto al raggiungittanto della salvezza. Quanto allo spessore religioso della dottrina (dharma), Buddha ha ignorato i culti tradizionali come non aventi rapporto col suo insegnamento, e la sua preoccupazione fondamentale era quella di salvare l’uomo dal ciclo delle esistenze o metempsicosi (samsāra). Predicato come dottrina di salvezza, avendo fondato culti collettivi ed organizzato ordini monastici e una sorta di gerarchia, il Buddhismo è una religione oltre che una filosofia. Esso si rivolge all’uomo, a ogni uomo, proponendogli i mezzi per salvarsi dal samsāra e dalla sofferenza (duhkha) che ne consegue, fino al raggiungimento del nirvāna. Le quattro sante verità (l’esistenza del dolore; l’origine del dolore è nel desiderio; la distruzione del dolore è soppressione del desiderio; la vita che conduce alla soppressione dei desiderio è una morale ascetica rigorosa), insieme col “nesso causale”, sono il nocciolo della dottrina: la morte deriva dalla nascita, dalla nascita l’esistenza, dall’esistenza il desiderio, dal desiderio il contatto, dal contatto i sensi, dai sensi l’io come personalità individuale, dall’io la coscienza, da questa le disposizioni mentali latenti, da queste l’ignoranza (cioè l’ignoranza delle quattro verità) (10). Dalla ignoranza deriva il dolore e il ciclo delle esistenze. E il nirvāna, estinzione (del ciclo samsarico), liberazione (dall’avidyā e dal duhkha), negazione del mondo illusorio e dell’io, è appunto annientamento della sofferenza.

Ci sono varie pratiche, metodi e formule (tantra, mantra), che le diverse scuole del Buddhismo (mahāyāna, hinayāna, tantrico, zen) propongono per raggiungere tale stato. Ciò che è da sottolineare è che tale condizione del saggio (bodhisattva) si basa su un irreversibile excessus mentis ed è molto vicina al naufragio nel nulla assoluto, all’autoannientamento (11). Scrive J. Blofeld (12), a proposito di samsara e nirvāna, che la preoccupazione particolarmente del Buddhismo zen (diffuso in Giappone) e vajrayāna (tantrico) è soprattutto rivolta alla liberazione; in questi prevale la riflessione mistico-antica, rivolta a trovare il metodo della salvezza, su quello speculativo-intellettuale, cioè si tratta di terapeutica e di soteriologia.

Tutti coloro che sono vittime dell’avidyā (l’ignoranza) devono sopportare diversi cicli di esistenze e ciò perché troppo legati all’io e al desiderio. “Quanto più il loro spirito crea nuovi oggetti di desiderio, tanto più le brume dell’illusione si infittisoono attorno a loro”. “Il nirvāna è lo stato che sopraggiunge quando sono stati vinti il desiderio, l’av­versione e ogni attaccamento a un io e così è cancellata l’illusoria individualità di un essere”. Continua Blofeld a proposito del difficile concetto di nirvāna che del resto non è precisato bene né univocamente nei testi buddhisti: “In generale, l’ingresso nel nirvāna è un ritorno allo stato di realtà ultima non deformata dalla bruma di avidyā”. E un altro studioso, M. Percheron (13), in proposito: “La prima ipotesi è che il nirvāna sia uno stato definitivo di quiete in cui si trova l’uomo che con la meditazione si è staccato dal mondo fenomenico... Una spiegazione teista prospetta uno stato più elevato. L’uomo, facendo astrazione dal mondo esterno e dal mondo interiore, arriva a staccarsi completamente dai fenomeni. Non sente più altro in sé che l’esistenza universale e non può più distinguersi dal Cosmo o Natura”. Rammento che per l’induismo la vetta morale consiste nel samadhi, cioè nell’unione dell’atman (l’anima individuale) col brahman, (lo spirito universale), una volta caduta Māyā, l’illusione (14). “Infine, una terza concezione, nettamente atea, implica una sparizione senza ritorno della vita individuale e universale: è il nulla”. E osserva Percheron: “Sono ipotesi ove si riconosce il tipico modo di procedere degli occidentali. Più sfuma­ti, i buddhisti non distinguono mai nettamente tra Dio e Nulla, Tutto e Nulla”.

Comunque sia, c’è nel Buddhismo una evidente componente pessimistica e anzi nichilista: è il lato ‘oscuro’ dell’intelligenza che tende all’annientamento. Ed è questo desiderio mistico del Nulla o di Dio che comporta il distacco totale dal mondo, che caratterizza la filosofia orientale, secondo mille sfaccettature e differenti coloriture. Perché, come spesso è lus­sureggiante la natura e il paesaggio indiano, così è arbore­scente e inestricabile il pensiero indiano. Il pensiero che distingue e definisce è certo una prerogativa dei Greci e quindi degli Occidentali. Un’altra considerazione è da fare: se è vero che l’Occidente ha conosciuto e conosce dottrine mistiche simili a quelle orientali (dal Neoplatonismo alla mistica medievale e oltre) confrontando la meta ultima dell’etica ellenistica, l’apatia, col nirvāna, risaltano notevoli e significative differenze. Il solo Pirrone (e Stilpone prima di lui) è avvicinabile agli Indiani: la sua apatia può essere comparata al nirvāna anche nell’accezione teistica: significativo il suo “spogliare completamente l’uomo” per avvicinarlo al Divino. Ma non c’è, comunque, prorompente e primaria, come in Oriente, la spinta soteriologica e mistica, antilogica e antiindividuale, mirante in qualche modo all’unione col Tutto. E riguardo all’apatia di Crisippo e di Seneca (non di Epitteto già misticheggiante): questa è impassibilità che ad ottiene con l’azione cosciente che l’individuo compie per affermare la sua virtù sulla sorte, benché uno degli obiettivi della Stoà sia in gratiam cum Fato revertere.e quindi piuttosto quello di seguire gli accadimenti che non di guidarli (cfr. frammento 8 di Epitteto). Il forte messaggio della Stoà di Crisippo e di Panezio, che tende in età imperiale a farsi meditazione intima, pessimistica e misticheggiante (contemptus mundi prima del Medioevo), esprime una virtù vitale rivolta a proclamare aristocraticamente la superiorità dell’uomo virtuoso, cioè del sapiente, su tutto e su tutti (seppur non in modo egoistico ed antisociale), in prospettiva orizzontale e razionale. Philosophia adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter: haec docebit ut deum sequaris, feras casum (15).

 

Nell'immagine: Pagina del Buddhacarita [Le imprese del Buddha] del poeta indiano Açvaghosha, la più antica biografia (poetica) del Buddha (ediz. Cowell, Libro V).

 

N.B. Poiché molti browser hanno ancora forti limiti nella visualizzazione dei caratteri non standard, per evitare effetti indesiderati e imprevedibili nella visualizzazione del testo, abbiamo preferito eliminare alcuni segni diacritici nella trascrizione dei nomi indiani (in particolari rispetto alla trascrizione scientifica standard i punti sotto o sopra le lettere sono stati sostituiti dal diverso tipo di carattere nel corpo della parola [tondo invece di corsivo o viceversa:  p.es. nirvāna con la seconda nasale cerebrale, ecc.]) .

 

(1) Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano 1976, III, PP. 73 e 99.

(2) Diog. Laert., IX 105.

(3) Aristotele, presso Eusebio, Praep. evang., XIV, 18 (citazione non testuale).

(4) Diog. Laert., IX 67.

(5) Cic., Acad. pr., 11, 42, 130.

(6) Op. cit., III, p. 493

(7) Diog. Laert., IX 61.

(8) Plut., Alex., 69.

(9) Sui rapporti tra Oriente e Occidente da questo punto di vista, cfr. O. Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari 1977, vol. I, Introduzione.

(10) Cfr. Lessico Univ. Ital. (Enc. Treccani), s.v. Buddhismo.

(11) Cfr. Tucci, op. cit., I, pp. 14-15.

(12) J. Blofeld, Le Bouddhisme tantrique du Tibet, tr. francese, Parigi, Ed. du Seuil, 1976, pp. 57

(13) M. Percheron, Le Bouddha, Paris, Ed. du Seuil, 1974, pp. 63 ss.

(14) Cfr. S. Lemaître, Ramakrishna et la vitalité de l’Hindouisme, Paris, Ed. du Seuil 1975, p. 33.

(15) Sen., ep. 16.




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