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Seneca e Heidegger

(Zetesis 95/2)

 I. Il De brevitate vitae di Seneca anche alla luce delle tematiche heideggeriane di Essere e Tempo

       a) Ci si lamenta – comincia sallustianamente Seneca rivolgendosi al destinatario Paolino – della brevità della vita (1). Lo fa anche Aristotele, nonché Ippocrate: vita brevis, ars longa (2). Ma la verità è che perdiamo molto del nostro tempo, che non sappiamo usare il tempo concessoci: vita, si uti scias, longa est (3). E subito dopo, un’ampia casistica: c’è l’avaro, c’è l’ambizioso, il commerciante smanioso di guadagni, il soldato che solo brama rischiare, c’è l’arrivista, ecc. La verità è che, immersi e conficcati nei desideri (immersos et in cupiditatem infixos), fatichiamo a rivolgerci a noi stessi (4). Il mondo è pieno di gente che segue prona i propri desideri e obiettivi di successo, del tutto dimentica di sé (del vero sé), cosicché alius in alium consumitur e in conclusione suus nemo est (5). E peraltro la gente che vive con tanto affanno i propri desideri e vizi agisce contraddittoriamente quando si tratta di morire: come fossero immortali - dice Seneca - desiderano ogni cosa senza freno né si danno pensiero del tempo o di se stessi, poi, quando sono malati, fanno di tutto per salvarsi: tanta in illis discordia affectuum (6). Che cos’hanno destinato alla bona mens? Ben poco o niente della loro vita (7).

       Dopo gli esempi di Augusto, Cicerone (semiliber in mezzo a tanti negotia) e Livio Druso (8), virilius peccant – dice – quanti amano la gloria o il denaro piuttosto che i libidinosi. Comunque per tutti gli “occupati” vale lo stesso discorso: non è facile vivere, e anzi per tutta la vita si deve imparare a vivere e a morire (vivere tota vita discendum est et ... tota vita discendum est mori dice chiasticamente (9)). La quantità della vita non conta; conta il modo di spendere il tempo: praecipitat quisque vitam suam et futuri desiderio laborat, praesentium taedio (10): così vivono quanti tendono alle cose del mondo e pur desidererebbero sottrarvisi. “Invece colui che usa ogni suo tempo a suo vantaggio ... non teme. Tutto gli è noto a sazietà. Per il resto, la fortuna disponga comunque voglia: la sua vita è al sicuro” (11). Non è il passare del tempo, la longevità che fa la vita lunga: non ille diu vixit, sed diu fuit (12). E anzi spesso chi muore molto vecchio è stato molto sballottato (multum iactatus est) sul mare della vita senza navigarvi mai.

Busto di Seneca a Cordova       Fin da queste prime battute appare evidente il pensiero di Seneca: la quantità della vita, o meglio la sua presunta brevità, è un problema senza importanza, anzi un falso problema. Quel che conta è la sua qualità, come la si vive; come si usa il tempo: e quest’ultimo non è tutt’uno con la fortuna, con la sorte, con il mondo di cui siamo parte, in cui siamo (heideggerianamente) “gettati”? Bisogna saper vivere. E le occupazioni che ci distraggono e ci distolgono dalla cura del nostro essere? Non ci rendiamo conto di cosa sia il tempo, cosa incorporea (res incorporalis) qual è (13). Non gli diamo peso e intanto la vita tacita labitur. È la fortuna (14) che ci sottrae la vita; dobbiamo ritrovarla, per non essere semplicemente trasportati dal divenire. Chi è occupato non intende l’iter della vita, questa navigazione anche difficile, e così perde il passato (illis non vacat praeterita respicere (15)), tutto proteso al futuro e indotto dalla cupidigia alla lotta vorticosa del presente, di cui sente talora noia: in tal modo, pauroso del suo passato, per i vizi di cui si è macchiato, necesse est memoriam suam timeat (16); così perde uno dei suoi possessi più certi, giacché per tali uomini indaffarati il tempo per quassos foratosque animos transmittitur. Il presente è sempre in corsa e finisce ancora prima di essere giunto (ante desinit esse quam venit). E dunque agli occupati, che sono rivolti all’instabile presente, il tempo sfugge di continuo. Al contrario, il saggio che ama la stabilità tende a sottrarsi al moto del presente e niente dissipa.

       Chi sono gli occupati? Sono quelli di cui s’è parlato sopra, ma anche gli oziosi (in senso deteriore) che passano il tempo a raccogliere vasi corinzi o a guardare gli atleti in palestra o quelli che indugiano dal barbiere e così tutti i “delicati”, che vivono nella mollezza o nel lusso... Analogamente l’erudizione è un falso ozio, futile e insignificante: come occuparsi della “que­stio­ne omerica” o di antichità... Il vero otium (17) che restitui­sce l’uomo a se stesso e gli consente di vivere una vita autentica e di progettarsi consapevolmente faccia a faccia con la morte è quello della filosofia: soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt (18). Difatti spaziano da un tempo all’altro, hanno coscienza di sé e della storia dell’umanità tutta. Dobbiamo gratitudine a tutti i grandi filosofi che ci hanno aperta la strada: “possiamo disputare con Socrate, riposarci con Epicuro, vincere la natura dell’uomo con gli Stoici, uscirne con i Cinici” (19). Perché non innalzarci da questo tempo angusto e caduco alle realtà eterne e immortali (Quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu in illa toto demus animo quae immensa, quae aeterna sunt, quae cum melioribus communia?)?

       “Nessuno di costoro - prosegue - ti costringerà a morire, tutti ti insegneranno a farlo; nessuno ti consuma gli anni tuoi, ognuno ti offre i suoi” (20). Appunto grazie ai saggi che si studiano nell’ozio filosofico, ci sarà offerta la via che porta all’eternità e saremo innalzati al luogo dal quale nessuno è sbalzato. Così tenderemo proficuamente all’immortalità (haec una ratio est extendendae mortalitatis, immo in mortalitatem vertendae (21)). Il sapiente dunque vive, e vive con piena coscienza di sé, degli altri, del mondo, perché confronta ogni tempo e ogni idea (longam illi vitam facit omnium temporum in unum collatio).

       E prosegue (contrapponendo al solito falsi oziosi e veri oziosi, oziosi e occupati): gli occupati sono inquieti e non appena cessano dalle loro occupazioni in otio relicti aestuant (22), perché non sunt illis longi dies sed invisi. E perché tanto timore anche nelle gioie? “perché esse non si fondano su solide realtà ma sono turbate dalla medesima vanità da cui hanno origine” (23). Difatti, tutto ciò che hanno viene da fuori, dalla fortuna che è instabile (mentre stabile è solo la ragione e l’otium che le si dedica): omne quod fortuito obvenit instabile est..

       Ecco dunque l’invito di Seneca a Paolino a ritirarsi dalla falsa vita, preda di desideri e di falsi valori: “Non t’invito a una quiete pigra e inerte e ad annegare nel sonno e nel piacere caro al volgo la vitalità della tua indole” (24). “Rivolgiti alle occupazioni che sono più tranquille, sicure e nobili”. E queste consistono nell’indagare le realtà etiche, teologiche, fisiche e astronomiche. “Ti aspetta - conclude Seneca - l’amore e la pratica delle virtù, la dimenticanza dei desideri (cupiditatum oblivio), la scienza del vivere e del morire e una profonda quiete (vivendi ac moriendi scientia, alta rerum quies)” (25). E ribadisce infine che non vivono davvero quanti si discostano da questa condotta, campassero pure cent’anni! (26).

        b) Dalla breve esposizione fatta risultano preminenti alcuni concetti (tempus, fortuna, virtus, usus, otium, ecc.) consueti e ricorrenti in Seneca, che qui acquistano un particolare e direi nuovo rilievo: innanzitutto, il tempo, assimilabile ad un aspetto del mondo, è una realtà utilizzabile, da utilizzare: il buon uso delle cose (res) è ciò che fa di un uomo un saggio, cioè un uomo dotato di virtù, uomo che, pertanto, si possiede pienamente (longa est vita, si plena est: impletur autem, cum animus sibi bonum suum reddidit et ad se potestatem sui transtulit, ep. 93). Heidegger parla del mondo come Zuhandenheit, cioè utilizzabilità, e della necessità di sottrarsi al man (“si”), al pensare che è chiacchiera infondata ed equivoco (anche Seneca: homines non quo eundum eunt sed quo itur (27)), per il conseguimento di una vita autentica (28). Il valore della Eigentlichkeit (“autenticità” - si osservi: eigen “proprio”, eigentlich “autentico”) risiede nella conquista di sé, nell’autoappartenenza: chi rimane ‘disperso’ nel mondo, nello stato dell’essere ‘gettato’ (Geworfenheit) e della ‘deiezione’ (Verfallenheit), cioè in balia della sorte, dei desideri, dei pregiudizi e delle consuetudini volgari, non si appartiene (29).

       Se invece l’uomo (heideggerianamente il Dasein , “l’esserci”) scopre autenticamente il mondo, se dischiude a se stesso il suo essere vero, rimuove con ciò stesso i velamenti e gli oscuramenti di prima e chiarifica le contraffazioni con cui si rendeva prigioniero (30). Pertanto conquista se stesso e con ciò si progetta in base alle sue possibilità, grazie alla riflessione filosofica; in particolare, ha come possesso stabile, di fronte alla mutevolezza del divenire, il suo passato e quello dell’uma­nità. Non è trasportato dal mondo (non ‘scade’ nella quotidianità) perché consapevolmente, seguendo la coscienza (Gewissen), se ne distacca e, pur finito com’è, se ne innalza al di sopra (31). Da progetto gettato e deietto, l’esserci diventa ‘scelta di sé’ e ‘voler aver coscienza’ e dunque è risolutezza ( o decisione) che comporta la ‘cura’ (32) autentica di fronte alle cose (33). In altre parole, da una partecipazione irriflessa e acritica a un certo mondo storico-sociale, l’uomo perviene all’appropriazione, che implica un rapportarsi diretto ed essenziale con le cose: ecco il progetto deciso dell’esistenza autentica (34).

       In ciò ha grande spazio il precorrimento o anticipazione della morte. La meditatio mortis libera dalla paura della morte, insegna a morire (e a vivere), dona piena sicurezza di fronte a un fatto che è effetto di una legge naturale (35). In Heidegger costituisce l’uomo come un tutto autentico fondandolo radicalmente: essa è la meditazione sulla condizione più propriamente umana (“la morte è la possibilità più propria dell’esserci” (36)), per cui il singolo si fa consapevole della possibilità ineluttabile della fine, non prevedibile né voluta (come neppure il nascere), del suo tempo.

       La risolutezza precorritrice di fronte alla morte, di cui parla Heidegger, è l’accettazione della propria singolarità finita (del Sein zum Tod = essere per la morte), la calma angoscia di chi sa che la vita è tutto e nulla, l’impegno nell’agire affrancato da ogni illusione (37).

       L’autenticità di fronte alla morte si rivela progettualità e poter-essere consapevole: dall’angoscia della morte e della vita si dischiude, con la avvertita possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci, il senso della temporalità come costitutivo dell’esserci (38) e quindi il senso dell’essere dell’esserci.

      

II. Il taedium vitae in Seneca alla luce della tematica heideggeriana dell’angoscia

        a) Nei primi paragrafi del De tranquillitate animi, Sereno espone a Seneca con dovizia di particolari la sua malattia (39): l’animo suo è convinto di molte verità, eppure non al punto di rifiutare coerentemente quanto estraneo ai valori assunti: gli piace la parsimonia e la frugalità, ma non disdegna tavole imbandite, argenteria e il lusso di ambienti fastosi; vuole esprimersi in modo essenziale, tutto cose, e poi il suo pensiero, preso dall’empito delle idee, diventa ambizioso e lo stile reboante... Gli risponde Seneca che è lo stato d’animo di chi fluttua, come in preda al mal di mare, spiace a se stesso e, incapace di seguire un’unica strada, si lascia incoerentemente tentare da ciò a cui non ha dato l’assenso; è volubile, lo prende il tedio e l’inquietudine, ha il sonno difficile e si rigira alla ricerca di una difficile quiete che è la stabilità dei pensieri e dei sentimenti. Prevalgono timore e pentimento, in un’altalena di sentimenti contrastanti (40). Ci si vergogna di ammettere i propri errori, si teme il giudizio di se stessi; presi da una strana alterigia si crede talvolta di essere già saggi, ci si adula, salvi poi precipitare nel più cupo pessimismo. Ecco allora il desiderio di sfuggire alla malinconia e al senso di fallimento facendo viaggi; ma sempre spiace ciò che si ha. La verità è che si cerca di fuggire da sé: hoc se quisque modo semper fugit (41) , dice Seneca citando Lucrezio. Ma non ci si libera da sé. E per alcuni fu così insopportabile la propria compagnia e quella dei propri pensieri che si diedero la morte. “Poiché, sempre mutando propositi, si ritrovavano allo stesso punto e non avevano lasciato spazio al nuovo, la vita cominciò ad essere di fastidio e il mondo stesso, e allora si insinuò in loro quel pensiero che è espressione di marcia voluttà: ‘fino a quando le stesse cose?’” (42).

 Martin Heidegger      Quale il rimedio contro il tedio che è sazietà, instabilità, labilità, volubilità, incoerenza, incostanza? La risposta di Seneca più discorsiva e meno lapidaria di quella di Lucrezio (fine del III libro del De rerum natura) rimanda al comune maestro Democrito: guardando alle cose stesse e conscio di essere nato per la morte (morti natus es (43)), cerca la tranquillità o euthymìa (Democrito scrisse un’opera sull’argomento). Che cos’è l’euthymìa, tradotta con tranquillitas animi (come già aveva fatto Cicerone (44))? È la stabilità dell’animo (stabilis animi sedes), è un corso sempre uguale e favorevole distante da esaltazioni e depressioni. Chi piace a se stesso è lieto, prova gioia e, lungi dall’errare, si mantiene costantemente nello stato divino dell’imperturbabilità (divinum non concuti (45)).

       È la consueta ricetta stoica che, in questo caso, si collega a Democrito, secondo cui l’anima è la dimora della nostra sorte e solo rettitudine e avvedutezza rendono felici (46). Il fine nostro è appunto l’euthymìa che non è identica al piacere ma è la condizione costante della calma e dell’equilibrio dell’animo non turbato da paura né da superstizioni né da altro stato passionale (47): è il piacere che dà una vita solitaria dedita alla speculazione (48).

       Del resto, come dice Diogene Laerzio, nulla, per Democrito, diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere (49). E’ al fondo la posizione eleatica che, additando la via del sapere e dell’essere, propone l’astensione da ciò che non sia l’essere (e pensare ed essere coincidono) (50).

       L’essere parmenideo è immobile, immutabile, perfetto, compiuto, identico in tutte le sue parti (51). Sono i sensi che ci inducono in errore e ci spingono nelle braccia dell’illusoria realtà dominata da nascita e morte e dunque dal non essere. L’’errore dei mortali’ sta dunque nell’ammissione del non essere come fosse reale accanto all’essere (52). Come ammonisce Epitteto: chi guarda fuori di sé perde se stesso. L’autarchia garantisce dalla fiumana del divenire.

       Nell’ottica atomistica di Leucippo e Democrito, l’essere non è uno, bensì un infinito numero di corpi indivisibili e invisibili per la piccolezza del loro volume; e questi corpi sono in movimento nel vuoto ... (53). Pieno e vuoto, dialetticamente contrapposti, spiegano secondo rigorosa necessità, e non ‘a caso’, il cosmo infinito anzi i mondi infiniti (54). Ma il primato spetta sempre alla mente, alla phronesis, per quanto la mente, l’anima, non sia ontologicamente differenziata rispetto al resto. Il sapere acquisito, dimensione privilegiata per i Greci rispetto al sentire e al volere, redime dall’errore:

                       

                        Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit,

                        effugere haud potis est, ingratis haeret et odit

                        propterea morbi quia causam non tenet aeger;

                        quam si bene videat, iam rebus quisque relictis

                        naturam primum studeat cognoscere rerum

                        temporis aeterni quoniam, non unius horae

                        ambigitur status, in quo sit mortalibus omnis

                        aetas, post mortem quae restat cumque, manenda (55).

 

Anche Lucrezio vede nella ‘gnosi’ la salute, la guarigione dalla malattia che induce a fuggire se stessi. La fluttuazione, del resto, e la nausea nascono dal peso (56) del non sapere che fa errare: il saggio guarda dall’alto dei templi sereni edificati dalla sapienza gli uomini che si agitano smaniosi di cose e di autenticità, e talora sono presi dal desiderio di autodistruzione e di morte:

 

                       Sed nil dulcius est, bene quam miunita tenere

                       edita doctrina sapientium templa serena

                       despicere unde queas alios passimque videre

                       errare atque viam palantis quaerere vitae (57).

 

Simile attitudine in Seneca: occorre - dice a Sereno - che tu abbia fede in te e vada per la retta via senza fartene stornare dalle orme trasverse dei molti che vanno trascorrendo qua e là e di alcuni che si smarriscono addirittura nei pressi della via stessa (58).

       Certo è diversa la strada stoica da quella epicurea. E poi, aristocraticamente solitario e drammatico Lucrezio, più disponibile all’umana solidarietà Seneca; entrambi concordi nel respingere ciò che contraddice l’unitaria dottrina razionale, ma romanamente inclini ad ascoltare la voce del ‘cuore’ (non solo della mente: l’appello di Seneca al credere e al volere non è di poco momento ) e a rappresentare le fluttuazioni, le incertezze, eleaticamente connesse all’’errore dei mortali’, al punto che Lucrezio è preso dalla pietà, dal male e dal dolore che pur si propone di sconfiggere: ne consegue che il paradiso del saggio non lo appaga: “Che male sarebbe mai stato per noi non essere nati?” (59). Altro tono da quello di Epicuro che, nell’Epistola a Idomeneo, proclama di essere felice pur tra i tormenti del mal della pietra che lo sta conducendo a morte (60).

       E’ pesante la vita di chi non sa. Preso da quello che, a buon diritto, si può chiamare angoscia esistenziale, quasi schiacciato o quanto meno gravato dal non sapere, quest’uomo va errando: il saggio è immobile come l’essere parmenideo; ed è in alto, quasi innalzato al livello degli dei, superiore al ciclo delle cose mortali; di fronte alle quali si può ridere o piangere (però: humanius est deridere vitam quam deplorare) (61). Se Eraclito vedeva la vita come un dramma, a Democrito le cose umane parevano ridicole (62). Liberato dall’angoscia o almeno dall’accidia, l’uomo guarda grave, seppur sereno, oppure sorride.

       Posto al di sopra delle cose, il saggio contempla l’eterno: nel caso del passo lucreziano, il sapere atomistico solleva a considerare “l’eterno tempo nel quale l’umanità ha da vivere tutto il periodo, qualunque sia, che resta dopo la morte di ciascuno”. E’ un’eternità (63) pari a quella dell’essere parmenideo e coincidente con la verità del pensiero. La voglia di morte (il quousque eadem senecano sopra ricordato) è frutto della dispersione dell’io e della dissoluzione del pensiero nelle sensazioni e nelle cose stesse: allora la morte appare tradimento, delusione, disinganno insopportabile. “Se ti darai agli studi, sfuggirai ogni tedio e non desidererai la notte per noia del giorno, non sarai grave a te stesso né inutile agli altri” (64). C’è un egoismo sterile, osserva Seneca, che non è del saggio, che ci induce a cercare soddisfazione nell’azione talora fine a se stessa, in un attivismo frenetico e inconcludente. “Spesso un vecchio - conclude Seneca proponendo una riflessione sul tempo e sul suo uso ampiamente svilup­pata nel De brevitate vitae - non ha nessun’altra prova d’aver vissuto a lungo se non l’età” (65).

       Seppure non dovesse partecipare alla vita pubblica, il saggio cercherà di giovare ai singoli e alla comunità con il suo pensiero, con la sua voce, con il suo senno (66). Chi vuol vivere bene, sappia adattarsi fruttuosamente alle circostanze come Socrate nell’Atene dei Trenta Tiranni: il peggior male - come diceva Curio Dentato - è uscire dal numero dei vivi prima di morire (ultimum malorum est e vivorum numero exire ante quam moriaris) (67). Morire con gli occhi aperti, e anzi vivere con gli occhi aperti: ecco la conclusione (68).

       Certo non esiste l’uomo: esistono gli uomini, anzi, direi, gli individui. Seneca è prodigo di consigli (anche minuti: specie dal capitolo 12 alla fine). Bisogna innanzitutto che ognuno sappia valutare se stesso, le cose e le persone, bisogna coltivare le buone amicizie, evitare il culto del denaro e quindi educarsi alla parsimonia, saper essere moderati nelle proprie ambizioni. Del resto, siamo tutti legati alla sorte al punto che la vita tutta è una schiavitù (omnis vita servitium) (69) o una prigione. Si tratta di adeguarsi, di saper usare le cose: “Niente è così aspro che l’animo equilibrato non vi trovi un conforto” (70). E conclude: “adhibe rationem difficultatibus(71), come a dire: sappi trar partito dalle cose per non esserne vinto; del resto “tutte le cose sono dentro ugualmente vane (omnia introrsus pariter vana) (72). Di fronte alla fragilità dell’esistere e anzi alla morte: perché dovrebbe essere grave il tornare alla natura? Vivrà male chi non saprà morire bene. Chi teme la morte non farà mai nulla da uomo vivo (pro homine vivo); chi invece sa ciò che gli è stato fissato in sorte fin dal concepimento, vivrà secondo il decreto ... E’ preparato alla sorte destinatagli” (73).

       “Cuivis potest accidere quod cuique potest(74). Sapere in anticipo lo statuto delle cose e della vita per adeguarvisi tranquillamente: ecco la strada maestra che conduce all’amor fati , rassegnazione ferma e non passiva - del resto la natura è invincibile -. All’errare degli uomini che si affaticano inutilmente è contrapposto il fermo pensare e agire di chi ha mete precise (omnis itaque labor aliquo referatur, aliquo respiciat) (75). Il movimento vano, la vana agitazione - cui si contrappone il movimento orientato di chi è stabile in se stesso - sono senza frutto o portano alla tristezza: sono la malattia stessa di chi finisce con l’essere sazio delle cose: fino a quando sempre le stesse cose? Non si prendano molti impegni privati o pubblici - consiglia Democrito. Seneca, contrario al disimpegno sul piano socio-politico, precisa e ribadisce che certo vanno respinte le attività superflue, ma non quelle necessarie (76).

       Il saggio può essere vittima della fortuna e incorrere nell’insuccesso (“non lo sottraggono ai casi umani, ma agli errori”) (77): ma a certe condizioni il saggio ne è immune: “L’animo deve richiamarsi a sé distogliendosi dalle cose esterne: abbia fiducia in sé, provi gioia per sé, guardi ai suoi beni, si distacchi, per quanto può, da quelli fuori di lui, si occupi di se stesso; non senta i danni, interpreti favorevolmente anche le avversità” (78).

       Qualche significativo esempio: Zenone, quando gli fu annunciato che aveva perduto ogni suo bene in un naufragio, disse: “La fortuna mi ordina di filosofare con meno impacci (expeditius)” (79). Giulio Cano, condannato a morte da Caligola, gioca a scacchi in prigione. Viene il centurione per portarlo al supplizio; gli chiede un amico: “A cosa pensi?” Cano risponde: “Mi sono proposto di badare in quel momento rapidissimo se l’animo s’accorga di stare uscendo” (80). E promette di raccontarlo agli amici, per riferire loro sulla condizione delle anime: “Ecco un animo degno dell’eternità, che chiama il suo fato a dare prova della verità...” (81).

       Di fronte allo spettacolo talora odioso dell’umanità (82), gioca ridere piuttosto che piangere; e se è vero che godere dei mali altrui è piacere disumano, conviene evitare sia il riso sia il pianto. Diffondendosi, poi, sulla simulazione del dolore e sull’ansia che può provocare la sorte toccata a Socrate, Seneca perviene a elogiare la semplicità e la schiettezza; infine un saggio invito al gioco, al ludico: “bisogna mescolare queste condizioni e alternarle, la solitudine e la frequentazione degli altri. La prima ci farà desiderare la compagnia degli uomini, la seconda la compagnia di noi stessi; e l’una sarà rimedio all’altra: la solitudine guarirà l’odio della folla e la folla il tedio della solitudine. Né la mente deve essere tenuta costantemente nel medesimo stato di tensione, ma bisogna talora divertirla col gioco...” (83).

       2. L’esserci, cioè l’uomo - scrive Heidegger - (84) talora fugge dinanzi a se stesso e alla sua autenticità. Allontanandosi da sé e disperdendosi nelle cose (man = si), scade lontano dall’esserci. Dunque fugge scadendo nel mondo di cui si prende cura (Sorge). Se il sentimento che prova è talora paura, può essere più globalmente angoscia (Angst) quando si pone di fronte alla morte. Il davanti-a-che dell’angoscia è l’essere-nel-mondo come tale. Non è un ente intramondano ciò per cui si prova angoscia, è qualcosa di indeterminato, è l’orizzonte del mondo. L’angoscia rivela nell’esserci l’essere-per: l’angoscia isola e dischiude l’esserci come solus ipse. Di qui l’essere-libero per la libertà di scegliere e possedere se stesso. Emotivamente spaesato (unheimlich) non a “casa propria”, l’esserci è a disagio con sé e col mondo. La quotidianità media de “si” porta la tranquillizzante sicurezza di sé e l’ovvietà del sentirsi a casa propria. L’angoscia, al contrario, va a riprendere l’esserci dalla sua immedesimazione scadente col mondo. L’intimità quotidiana si dissolve.

     L’angoscia pervade latentemente già da sempre l’essere-nel-mondo; l’uomo, dunque, in quanto essere-presso-il-mondo, prendendo­sene cura, in una situazione emotiva, può aver paura. La paura - precisa Heidegger - è una angoscia scaduta al livello del mondo, inautentica e dissimulata in se stessa.

       L’esistenza inautentica e anonima può avere delle paure, ma non il coraggio dell’angoscia di fronte al mondo e alla morte; tende a rimuovere il male e la morte e quindi il problema del mondo. Si ha paura sempre di qualcosa; mentre ci si angoscia di niente, Soprattutto la morte, come possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci, propone all’uomo la condizione di essere-per-la-morte. Di fronte al nulla potenziale del suo esistere e al non senso dei suoi progetti, l’uomo, minacciato nelle sue false sicurezze, può aprirsi all’esistere autentico che richiede il coraggio di guardare in faccia la possibilità di non essere. L’esistenza banale risolve questo sentimento globale nella cura del mondo e nella paura di fronte agli eventi contrari. La vita autentica è un essere nel mondo che è essere con gli altri (Mit-sein); è cura delle cose e cura degli altri: il coesistere autentico consiste nell’aiutare gli altri ad acquistare la libertà di assumersi le loro cure.

       Anche da queste poche righe balzano chiare le posizioni di Heidegger, alle cui spalle c’è una lunga tradizione (da Agostino a Lutero a Kierkegaard) di meditazione sui problemi della fede, del peccato, dell’amore e del pentimento: quindi problematiche più ampie e complesse di quelle sottese dall’opuscolo di Seneca.

       L’angoscia è schiusura privilegiata dell’esserci e consente di cogliere la totalità unitaria della struttura dell’esserci. Nella medietà del “si”, l’uomo è in fuga davanti a sé (si veda quanto dicono Seneca e Lucrezio); la paura davanti a un ente intramondano che rappresenta una minaccia è paura per l’essere-presso dell’esserci (cioè per i legami del mondo: vita, salute, beni, ecc.). La diversione dell’esserci da sé porta al rifugio nel mondo: le cose attraggono e sembrano il porto sperato. Nell’angoscia, che è di chi vuol essere saggio, si fugge dal mondo: gli enti sono divenuti insignificanti e l’uomo che riflette avverte la vanità delle cose e il destino di morte. Conseguono oscillazioni, fluttuazioni, senso di oppressione, ansia di liberazione: la nausea del nulla. L’uomo avverte il suo isolamento, ma con ciò la possibilità di scegliersi e di conquistarsi.

       Heidegger - osserva Marini - scopre una dinamica emotiva che può fondare quello che in Husserl era un procedimento artificiale (quello dell’epoché): l’angoscia crea un solipsismo che interrompe i legami col mondo e insieme rivela all’esserci la propria correlazione al mondo.

       Seneca non conosce l’analitica esistenziale né si propone mete ontologico-esistenziali pari a quelle heideggeriane; ci propone, partendo dal caso concreto di Sereno (85), una fenomenologia della fluttuazione, dell’inquietudine, dell’accidia, dell’errare di chi vive secondo un’esistenza (heideggerianamente) inautentica o non completamente autentica.

       La dinamica psicologica che Seneca sviluppa, anzi interpreta e rappresenta con grande penetrazione psicologica, non prevede espressamente una terapia di epoché o di ribaltamento dello stile naturale di vita, come è certo il caso di Epitteto (86), ma la capacità di persuadersi a distaccarsi dal mondo per stabilizzarsi e rendere omogenei pensieri e sentimenti al fine di conseguire quella che Cicerone chiama securitas. E ciò non solipsisticamente, ma in sintonia col prossimo. La prospettiva della morte (e il problema del mondo), che apre in Heidegger la strada della risolutezza e fonde su nuove basi l’uomo, è, sì, avvertita in Seneca, ma non è tematizzata (cfr. la tematica del Sein zum Tod) al punto di costituire il referente privilegiato del peso esistenziale che è il tedio stesso. Questo è piuttosto ricondotto al non sapere e all’incoerenza (anhomologìa) e quindi al prevalere (heideggerianamente) della cura del mondo: ciò che porta a perplessità sul senso del mondo (mal utilizzato com’è) e alla perdita di sé.

       Seneca è abilissimo nel descrivere, con stile affabile e penetrante, incisivo e levigato, il groviglio psicologico, una vera selva oscura, che produce il tedio e anzi è il tedio stesso; messi da parte in modo considerevole l’intellettualismo e il tecnicismo (quest’ultimo ben presente in Heidegger) propri della tradizione greca, il merito maggiore dell’opuscolo è nella fine introspezione. Limite o semplicemente caratteristica comune a tutta la produzione di Seneca l’attenzione prestata meno alla struttura generale dell’opera (e ideologicamente ai ‘fondamenti’) che alle specifiche situazioni psicologico-esistenziali. In Heidegger l’angoscia dischiude l’accettazione del tempo, del proprio tempo in una specie di amor fati (87). Il filosofo è colui che ha fatto l’esperienza precorritrice della morte (la filosofia è da sempre meditatio mortis: morti natus es...). Non preoccupato del successo (nell’accettare di buon animo ogni evento è la felicità (88)), nel tempo autentico l’uomo, pur calato nella temporalità, si pone sopra le cose, stoicamente sopra la fortuna (89).

                                          

Nelle immagini: 1. Busto di Seneca a Cordoba; 2. Heidegger.

 

1) L’opuscolo di carattere spiccatamente letterario, non particolarmente denso filosoficamente, non presenta pertanto uno svolgimento dialettico e organico. Questa la struttura ravvisabile: capp. 1-3: la vita è positiva se la si usa bene; 4-6 gli esempi di Augusto, Cicerone, Livio Druso; 7-8: gli ‘occupati’; 9: condanna del tempo ‘programmato’; 10-11: gli occupati perdono il tempo e il passato; 12: l’occupazione dei falsi oziosi; 13: l’erudizione; 14-15: il vero ozio; 16: l’inquietudine degli occupati; 17-20: ancora sugli occupati e l’ozio.

2) ‘O bíoj bracúj, Ó dè técnh makrÔ (Hippocr., Aforismi I 1).

3) De brev. vitae 2, 1; cfr. Sen., ep. 93: la vita è perfecta (a prescindere dalla sua lunghezza) se è pienamente realizzata.

4) De brev. vitae 2, 3.

5) De brev. vitae 2, 4.

6) De brev. vitae 8, 2.

7) De brev. vitae 3, 5.

8) Capp. 4-6.

9) De brev. vitae 7, 3.

10) De brev. vitae 7, 8.

11) De brev. vitae 7, 9.

12) Ibid.

13) De brev. vitae 8, 1.

14) Fortuna è etimologicamente connessa a fero e a fur (‘ladro’): cfr. V. Pisani, Glottologia indeuropea, Torino 19704, pag. 30.

15) De brev. vitae 10, 3.

16) De brev. vitae 10, 4.

17) Cfr. particolarmente Seneca, de otio, 5-6. L’ozio non è contemplazione inattiva.

18) De brev. vitae 14, 1.

19) De brev. vitae 14, 2.

20) De brev. vitae 15, 1.

21) De brev. vitae 15, 4.

22) De brev. vitae 16, 3.

23) De brev. vitae 17, 3.

24) De brev. vitae 18, 2.

25) De brev. vitae 19, 2.

26) De brev. vitae , cap. 20.

27) Sen., de vita beata, 1, 3. Si veda sopra la vanità di ciò che è fondato sul vano De brev. vitae 17, 3.

28) Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Bari 1987, pp. 23 e ss.

29) Ibid., pp. 37 ss.

30) Cfr. M. Heidegger, Il senso dell’essere e la “svolta”, a cura di A. Marini, Firenze, La Nuova Italia, p. 84.

31) Scadimento e deiezione: cfr. ibid., pp. 96 ss. La chiamata della coscienza, pp. 118 ss.

32) Sorge vale ‘assunzione di responsabilità’.

33) Cfr. Il senso dell’essere, cit., p. LXXIV e passim.

34) Cfr. Vattimo, op. cit. , p. 43.

35) Quid autem ad rem pertinet, quam diu vites quod evitare non possis? ... Quaeris quod sit amplissimum vitae spatium? Usque ad sapientiam vivere (ep. 93). Per Seneca la vita è: aut finis aut transitus (M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1978, v. II, p. 96).

36) Cfr. Il senso dell’essere, cit., p. 117.

37) Ibid., p. LXXIV.

38) U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Milano, Mursia, p. 45.

39) De tranq. an. 1, 1: Inquirenti mihi in me quaedam vitia apparebant, Seneca, in aperto posita ... quaedam obscura et in recessu, quaedam non continua sed ex intervallis redeuntia.

40) De tranq. an. 2, 10: hinc illud est taedium et displicentia sui et nusquam residentis animi volutatio.

41) Lucr. , de rer. nat. III 1066: emistichio citato a memoria.

42) De tranq. an. 2, 15: quod proposita saepe mutando in eadem revolvebantur et non reliquerant novitati locum, fastidio esse illis copeit vita et ipse mundus, et subiit illud tabidarum deliciarum “Quousque eadem?”

43) De tranq. an. 1, 14.

44) Cic., De fin. V 23: Democriti autem securitas quae est animi tamquam tranquillitas, quam appellant eu;qumi[an ... est ipsa vita beata. E più avanti (V 87): Democrito, secondo una leggenda, si sarebbe strappato gli occhi per potersi concentrare più a fondo nella meditazione (ut quam minime a cogitationibus abduceretur). Pur ponendo nel sapere (in rerum cognitione) la felicità, tuttavia voleva conseguire con la sua indagine l’equilibrio dell’animo (bonus animus): id enim ille suum bonum eu;qumi[an et saepe a;qambi[an appellat, id est animum terrore liberum.

45) De tranq. an. 2, 4: ergo quaerimus quomodo animus semper aequali secondoque cursu eat propitiusque sibi et sua laetus aspiciat et hoc gaudium non interrumpat, sed placido statu maneat nec attollens se umquam nec deprimens. L’eu;qumi[a di Democrito si fonde con la homologia di Zenone (M. Pohlenz, La Stoa, cit.., I, p. 419 e nota; II, p. 69).

46) Diels-Kranz, 68 B 171; 68 B 40.

47) Diogene Laerzio IX 7, 45.

48) Pohlenz, La Stoa, cit., I, p. 418. Anche Panezio si era occupato dell’euthymia e aveva scritto un’opera con questo titolo (ibid., p. 419 e nota). Aveva trasformato l’apatia stoica in gioia di vivere; Seneca ne dipende (De tranq. an. 2, 63). Il finale de De tranq. an. (l’allusione al gioco) rimanda anch’esso all’opera paneziana, cfr. Plutarco, Peri{ eu;qumi[aj, in fine (Pohlenz, op. cit., II, p. 77, nota 35).

49) Diogene Laerzio, cit. supra. Uno dei principi della fisica epicurea, ben presente in Lucrezio: ou;de{n gi[netai e;k tou} mh{ o#ntoj (ep. ad Her. 38; Lucr. I 146 ss.).

50) Cfr. Parmenide, fr. 8; G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano 1976, I, pp. 120 ss.; III, pp. 196 ss.: il tutto (p^an) di cui parla Epicuro fatto di atomi e di vuoto.

51) Diels-Kranz, 28 B 8, vv. 26-33.

52) Reale, op. cit., I, p. 128.

53) Aristotele, De generat. et corrupt., A 8, 324 b 35 ss.; Reale, op. cit, I, pp. 174 ss.

54) Ibid.

55) Lucr. III 1068 ss.

56) Lucr. III 1053 ss.:       si possent homines, proinde ac sentire videntur
                                         pondus inesse animo quod se gravitate fatiget,
                                        e quibus id fiat causis quoque noscere et unde
                                        tanta mali tamquam moles in pectore constet,
                                        haud ita vitam agerent.

57) Ibid. II 7 ss.

58) De tranq. an. 2, 2.

59) Lucr. V 174: quidve mali fuerat nobis non esse creatis?; Reale, op. cit., III, p. 294 ss.

60) Diogene Laerzio X 22.

61) De tranq. an. 15, 2.

62) Ibid.

63) Il mondo (e quindi gli atomi e il vuoto) esiste dall’eternità: ep. ad Herodot. 44.

64) De tranq. an. 3, 6.

65) De tranq. an. 3, 8.

66) De tranq. an. 3, 3.

67) De tranq. an. 5, 5.

68) Cfr. M. Yourcenar, Mémoires d’Hadrien, Paris, Gallimard, 1974, p. 316: Tâchons d’entrer dans la mort les yeux ouverts.

69) De tranq. an. 10, 3.

70) De tranq. an. 10, 4.

71) Ibidem.

72) De tranq. an. 10, 5.

73) De tranq. an. 11, 4: Reverti unde veneris quid grave est? Male vivet quisquis nesciet bene mori.. De tranq. an. 11, 6: Qui mortem timebit, nihil umquam pro homine vivo faciet; at qui sciet hoc sibi cum conciperetur statim condictum, vivet ad formulam.

74) De tranq. an. 11, 8.

75) De tranq. an. 12, 5.

76) De tranq. an. 13, 1 ss.

77) De tranq. an. 13, 3.

78) De tranq. an. 14, 2.

79) De tranq. an. 14, 3.

80) De tranq. an. 14, 9.

81) De tranq. an. 14, 10.

82) De tranq. an. 15, 1: occupat nonnumquam animum odium generis humani.

83) De tranq. an. 17, 3-4.

84) M. Heidegger, Essere e tempo, in M. H., Il senso dell’essere e la ‘svolta’, cit., pp. 99 ss. e passim.

85) Il caso di Sereno è quello di un convalescente, secondo la diagnosi stessa di Seneca (De tranq. an. 2, 1); nec aegroto nec valeo (De tranq. an. 1, 2).

86) Cfr. Epitteto, Opere, Milano, Rusconi, 1982, Introduzione e passim: la diairesis tra proairetikà e aproaiìeta.

87) G. Reale, op. cit. III, pp. 451 e ss.

88) Cfr. p.es. Epitteto, fr. 3.

89) Allora la verità si dis-vela, a-letheia, (particolarmente nella poesia): l’uomo risponde con la Gelassenheit (l’abbandono). Si pensi alla ‘rivelazione’ parmenidea.

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