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I rifacimenti euripidei di Lodovico Dolce
di Marina Perego

 
(da Zetesis 1988-3)

Oggetto della relazione è l’analisi di quattro rifacimenti euripidei in volgare di Lodovico Dolce (1508-1568), nome importante della cultura veneziana del primo ‘500.
Tali drammi (Hecuba, Giocasta, Ifigenia, Medea) rivestono interesse e una loro importanza in relazione alla generale discussione teorica sul genere tragico iniziatasi verso la metà del XVI sec., al problema dell’influenza esercitata dal teatro tragico greco su quello rinascimentale italiano, attraverso soprattutto le opere di Euripide; infine, all’inizio delle rappresentazioni tragiche sulle scene rinascimentali. Tutti questi motivi, a cui si deve aggiungere l’ambiente culturale in cui il Dolce operò, influirono sul particolare carattere di rifacimento assunto dai quattro volgarizzamenti in esame.
 
Lodovico Dolce1. Ludovico Dolce (1) rientra in quella particolare schiera di scrittori che gli studiosi di questo periodo raccolgono sotto la qualifica di poligrafi (2). Sono essi tra gli esponenti più rappresentativi del nuovo corso che la letteratura rinascimentale assume negli anni centrali del secolo XVI, dal 1540 al 1560 circa (3). In questi anni, la società letteraria italiana si allarga notevolmente rispetto a quella del secolo precedente e dei primi decenni del ’500, ed essa appare caratterizzata più dal numero di coloro che vi partecipano e dalla qualità media delle opere prodotte in gran numero, che dalla presenza di singoli capolavori. Infatti il prevalere del volgare sul latino che si osserva in questa età in campo letterario e in altri campi della cultura, ribalta per la prima volta il rapporto esistente fra quelle che da sempre erano le due lingue della letteratura italiana. Di conseguenza, l’improvvisa disponibilità del nuovo strumento linguistico dilata da una parte il numero degli scrittori, dall’altra quello del pubblico che può accostarsi alla produzione letteraria. In questa nuova situazione non diviene più indispensabile una sperimentata abilità umanistica per essere accolti nella cerchia dei letterati, a sua volta non più ristretta ed esclusiva. In ogni caso i nuovi letterati, anche coloro che sono esperti e rispettosi della tradizione umanistica latina, sono decisi a produrre nel solco della tradizione volgare italiana e a rendersi più indipendenti dai modelli antichi. Uno dei segni del mutamento in atto è la diminuzione delle edizioni dei testi classici, a cui corrisponde il moltiplicarsi dei volgarizzamenti, che permettono, da una parte, un’appropriazione senz’altro meno approfondita del mondo classico, ma, dall’altra, celano la pretesa di sperimentare le possibilità della nuova lingua letteraria in settori fino ad allora appannaggio della tradizione classica e delle lingua antiche.
C. Dionisotti individua così in un empirismo stilistico-linguistico la caratteristica di questa produzione (4). Ciò che concorre a far trionfare la letteratura in volgare (e che a sua volta è imposto da essa) è la nascita di una grande industria, l’editoria, che soppianta le vecchie tipografie di tipo familiare. Essa diventa il tramite necessario tra i letterati ed il pubblico, visto il dilatarsi del numero degli uni e dell’altro. All’interno di queste tipografie, soprattutto veneziane, nasce appunto la nuova professione dei poligrafi, assunti e stipendiati come volgarizzatori, curatori di edizioni di autori moderni, scrittori in proprio su qualsiasi argomento.
Anche la maggior parte dell’ingente produzione del Dolce va intesa nel quadro della sua attività di letterato al servizio di un editore (5). Impiegato presso la stamperia di Gabriele Giolito, forse la maggiore di Venezia nel decennio 1545-1555 (6), egli tradusse le opere di autori classici come Orazio, Catullo, Cicerone, Cassiodoro, Ovidio, Appiano, Niceforo Gregora; curò le edizioni dei maggiori scrittori della letteratura in volgare da Dante al Boccaccio, corredandole di annotazioni e spiegazioni; pubblicò, secondo il gusto dell’epoca, varie collezioni di rime e di lettere; scrisse dialoghi; si occupò della lingua volgare; scrisse vite di principi e di imperatori; fece un riassunto della filosofia di Aristotele (Fisica - Dialettica - Etica) e, infine, tradusse commedie e tragedie antiche e ne scrisse di proprie. Una produzione, a quanto si può vedere, che copriva pressoché tutti i campi dela cultura letteraria e che era caratterizzata, a giudizio dei critici, più da pratica “artigianale” che da perfezione formale o da originalità.
 
2. Un clima di aperta e vivace discussione e, come si è detto, di sperimentazione accompagna, attorno alla metà del ’500, lo sviluppo della letteratura in volgare. Se, da una parte, l’ansia di novità spinge i letterati a rendersi più indipendenti dai modelli della tradizione umanistica, dall’a1tra la pretesa di acquistare alla nuova letteratura tutti i generi classici li porta a poco a poco al recupero dei testi latini e greci su cui dibattere e, spesso, polemizzare. In quest’ottica si devono intendere sia le prime imitazioni dirette dei tragici greci, sia la riscoperta verso il 1540, da parte della cultura rinascimentale, della Poetica di Aristotele (7). Tramite le une e l’altra si tentò di individuare1’essenza della tragedia classica, in particolare greca, e di riproporla nell’ambito della cultura rinascimentale, a cui mancava ancora un genere tragico ben definito (8). In questo stesso periodo si colloca l’opera tragica del Dolce, che si estende per più di un ventennio (dal 1543 al 1566). L’elenco delle sue tragedie comprende otto titoli: nel 1543, 1’Hecuba, un volgarizzamento euripideo, e il Thieste, una versione da Seneca; nel 1547, la Didone, liberamente adattata dal noto episodio dell’Eneide; nel 1549, la Giocasta, rifacimento delle Fenicie di Euripide, cosi come la Medea, nel 1557; nel 1565, la Marianna, una tragedia originale, e nel 1566, le Troiane, tratte da Seneca.
Queste tragedie furono più volte ristampate, anche fino al secolo scorso, a testimonianza del favore da esse incontrato presso il pubblico. Alcune di queste sono tra le prime sicuramente rappresentate sulle scene rinascimentali, dove riscossero un immediato successo: per cinque di esse (Didone, Giocasta, Ifigenia, Marianna e Troiane) abbiamo notizie relative alla loro messa in scena, a partire dal 1547 quando la Didone fu la prima tragedia “regolare” ad essere presentata al pubblico a Venezia (9).
Accanto a questo motivo di interesse, l’opera tragica del Dolce nella sua globalità ne riveste altri: essa si pone all’interno di una ben determinata concezione del genere tragico; esprime inoltre le diverse tendenze della tragedia cinquecentesca, accogliendo motivi del teatro classico, greco e latino, e della tragedia contemporanee, ed è infine un esempio del tutto particolare della fortuna di Euripide nel ’500.
Contrariamente ad altri drammaturghi prima di lui, come il Trissino, il Giraldi e lo Speroni, il Dolce non lasciò nessuno scritto specifico sul genere tragico. Ma si possono considerare legittimamente come tali, nonostante la loro brevità e la sede accademicamente meno qualificata, quelle composizioni premesse alle tragedie che sotto forme diverse (lettere dedicatorie, prologhi, prefazioni, ecc.), contengono, da una parte, notizie relative alla loro rappresentazione, dall’altra, vere e proprie indicazioni sulla concezione drammatica dell’autore. Attraverso il loro esame e il confronto con le più ampie trattazioni teoriche del tempo, è possibile pertanto inquadrare l’opera tragica del Dolce all’interno di una ben precisa teoria sulla tragedia, che venne elaborata a Padova e a Ferrara verso la metà del secolo XVI.
Al centro di questa teoria si trova l’enunciazione del fine altamente educativo della Tragedia. Infatti, nell’ambito del recupero della Poetica di Aristotele all’attenzione degli uomini del Rinascimento, si pose anche il problema della definizione del fine dell’opera artistica, nei termini di una scelta o di una conciliazione, alla luce del testo greco e dell’Arte Poetica di Orazio, tra il prodesse e il delectare (10).
Questa disputa teorica viene risolta dal Dolce col privilegiare, fin dall’inizio della sua produzione, l’elemento educativo:
... [la Tragedia] fu trovata dall’ingegno degli uomini prudenti solamente a utile della vita umana; ... (11)
non rinunciando tuttavia, o meglio, limitando il delectare al piacere che può dare un’opera ben composta:
Sotto il piacevole velo di cotali avvenimenti... insegnando... (12).
Nelle sue prime tragedie, però, il Dolce sembra ridurre la loro “utilità” ad una generica consolazione di fronte agli esempi delle altrui sventure. Nel prologo dell’Ifigenia, invece, il fine educativo si configura come la purificazione morale degli animi da passioni ingiuste in vista del conseguimento della virtù, ottenuta attraverso la rappresentazione di casi tragici che suscitano spavento:
           
[è la Tragedia che parla]
            Co i tristi e sanguinosi avvenimenti,
            Ch’io soglio appresentar...
            Di far per opra mia s’affaticaro,
            Che poscia non potea ragione e amore
            Ritrovar la virtù ne i petti ingiusti,
            La destasse spavento. (13)
 
DolceA questo punto ci si trova subito al centro di uno dei più vivi problemi de1l’interpretazione aristotelica, quello della catarsi. Il Dolce non entra nell’analisi diretta e specifica del passo della Poetica, ma si limita ad accoglierne una determinata interpretazione, quella che vede appunto nella catarsi una purificazione morale delle passioni.
Ritroviamo la medesima interpretazione in un altro drammaturgo cinquecentesco, G.B. Giraldi Cinzio, che formula il fine della Tragedia in un modo molto simile a quello del Dolce:
            [La Tragedia]
            Purga da vitij gli animi mortali,
            E lor face bramnr sol la virtute ... (14)
 
Il ferrarese G.B. Giraldi (15), esponente di spicco della cultura medio-cinquecentesca e termine di confronto obbligato, come drammaturgo, per il Dolce, è l’autore della prima tragedia regolare del ’500 ad essere portata, nel 1541, sulle scene, 1’Orbecche, pubblicata poi nel 1543. A questo stesso anno risale anche la composizione del Discorso... intorno al comporre delle Comedie e delle Tragedie, che il Giraldi pubblicò ne 1554: in esso l’autore sviluppa in modo coerente una sua teoria sulla Tragedia, concepita in ambito chiaramente aristotelico. Per questo motivo il Ferrarese ci appare come uno dei primi lettori e interpreti della Poetica di Aristotele, attento a trarne quei principi utili alla sistemazione di un genere, quello tragico, che intorno agli anni ’40 era ancora molto impreciso. Infatti le tragedie del Trissino, del Rucellai o dell’Alamanni, anche se precedono cronologicamente quelle del Giraldi, furono composte direttamente sull’esempio delle tragedie greche, che volevano filologicamente imitare, ancora al di fuori però della problematica della Poetica e dell’esigenza di una codificazione.
Nella sede più qualificata del Discorso è espressa la medesima concezione moralistica della catarsi, che diventa il nucleo del pensiero del Giraldi
...e la Tragedia... col miserabile, e col terribile purga gli animi da vizj, e    gl’induce a buoni costumi. (16)
Sul piano dell’esegesi diretta del testo di Aristotele, questa intepretazione della catarsi nasce ad opera di uno dei primi traduttori ed interpreti del trattato greco, Vincenzo Maggi (17).
Come è noto, Aristotele aveva definito la tragedia imitazione di un’azione di carattere elevato, che, suscitando terrore e compassione, perviene alla qarsin κάθαρσιν τῶν τοιούτων παθημάτων (18). Ora l’aggettivo τοιοῦτος può avere o il valore di semplice dimostrativo (per cui ne risulterebbe che la tragedia, attraverso il terrore e la com-passione, perviene alla purificazione “di questi sentimenti”, cioè del terrore e della compassione), oppure può significare “simile” (e allora avremmo: la tragedia perviene alla purificazione di “sentimenti simili a questi” come l’avarizia, l’ira e così via e quindi, generalizzando, la tragedia perviene alla purificazione dei vizi).
L’aggettivo τοιοῦτος sarà reso in latino, a cominciare dal Pazzi, con il corrispondente aggettivo latino huiusmodi, altrettanto ambiguo, e la sua interpretazione verrà quindi lasciata ai singoli commentatori. Anche per il Maggi la catarsi è purgazione per misericordiam atqpe terrorem di perturbationes huiusmodi, ma subito nella explanatio introduce la novità della sua interpretazione:

            hoc est animum liberans a pèrturbationibus, misericordiae et terrori similibus
e poi spiega:
Cum igitur Aristotelis verba ita se habeant: PER MISERICORDIAM VERO ATQUE TERROREM PERTURBATIONES HUIUSMODI PURGANS: non de terrore et misericordia purgandis, sed de perturbationibus huiusmodi, hoc est iis similibus (...) intelligenda sunt. (19)
 
Ιl Maggi pubblicò il suo commento nel 1550, ma ilIuo lavoro sulla Poetica durava almeno da un decennio. E’ tuttora incerto se il Giraldi, che pubblicò il Discorso nel 1554, ma lo scrisse nel ’43, fu direttamente debitore al commento del filosofo bresciano della sua concezione della catarsi. In ogni caso, sia che ad essa giungessero indipendentemente o per influenza l’uno su1l’altro, il Maggi e il Giraldi ne furono i primi e maggiori rappresentanti a Padova e Ferrara, le due città in cui essa nacque.
Ma da quanto abbiamo potuto vedere, si può porre accanto a Padova e a Ferrara, per questo aspetto, anche Venezia, dal momento che, nello stesso giro di ani, e nell’opera del suo drammaturgo maggiore, viene espressa la medesima concezione, che il Dolce non si limita ad affermare teoricamente: ad essa infatti, come già il Giraldi, uniforma i contenuti e il tono complessivo della sua produzione drammatica.
Il Giraldi, come si è detto, è uno dei primi interpreti della Poetica, ma, di fronte al trattato greco, egli si pone, in conformità con la tendenza del suo tempo, in un atteggiamento di spregiudicata libertà:
Non voglio però di rimanere di raccordarvi, ... che non sono così ferme queste leggi delle scene, che tutte debbano essere osservate da buon poeta, perché molte volte avviene, che se l’autore stesse tra così stretti termini, farebbe le cose storpiate e men leggiadre. E per questo ci diede licenza Aristotile di partirci alquanto dall’arte ch’egli c’insegnava, quando il richieda la leggiadria dalla cosa che si ha per le mani (20).
 
Se, in apparenza, il suo Discorso in alcuni luoghi sembra una parafrasi della Poetica, in realtà, come abbiamo visto per la catarsi, presenta delle modificazioni rilevanti del pensiero aristotelico.
Si è voluto sottolineare questo aspetto, perché il Dolce rivendica nei confronti non solo dei testi critici della tradizione antica, ma anche delle interpretazioni dei contemporanei la medesima autonomia di giudizio. Un esempio di ciò può essere la diversa soluzione che il Dolce e il Giraldi adottano circa la possibilità di portare sulla scena e rendere visibili le uccisioni dei protagonisti. Il Giraldi giustifica questo espediente e infatti lo introduce nella Orbecche. Come drammaturgo ritiene che ciò possa essere un modo efficacissimo per provocare il processo catartico nello spettatore:
Dicendo massimamente Aristotele che le morti, i tormenti, le ferite che tra congiunti di sangue per errore venivano, se si facevano palesi, erano molto atte alla tragica compassione... (21).
 
Per avvalorare il suo pensiero non esita quindi ad interpretare, con sottili argomentazioni e secondo il suo punto di vista, l’espressione aristotelica ἐν τῷ φανερῷ θάνατοι ponendola a confronto con il precetto di Orazio (22), che egli rifiuta o meglio interpreta anch’esso secondo la sua opinione.
 
A tale proposito, il Dolce invece scrive nel prologo della Marianna:
                       
[è la Tragedia che parla]
                        Né però mi ricorda unqua, fra Greci
                        Né fra Latin, ch’alcun de’ miei seguaci
                        Consentisse, ch’innanzi a riguardanti
                        Omicidio d’altrui si commettesse:
                       
                        Onde colui che qui condotta m’have,
                        Dietro la scorta di sì chiari Duci
                        In questo al Venusin volle accostarsi,
                       
                        E non al gran discepol di Platone,
                        Il qual ha di me scritto ordini e leggi
                        Che se ben fu Filosofo di tanto
                        Sonoro grido, egli non fu Poeta. (23)
 
In questi versi c’è un esplicito rifiuto delle morti sulla scena e non è difficile capire che esso era rivolto al Giraldi, che se ne era fatto appunto l’assertore. L’opposizione tra i due scrittori è netta: il Dolce rifiuta l’autorità di Aristotele, non accetta il passo della Poetica nell’interpretazione che ne aveva dato il Giraldi e ritorna invece alla lettera del precetto oraziano. L’importante, al di là dell’esempio particolare, è che il Dolce, nel sostenere la sua posizione, dimostra la stessa autonomia nei con-fronti della Poetica che abbiamo visto nel Giral-di. Così come questi era giunto alla sua conclusione sull’argomento partendo dalla propria espe-rienza di uomo di teatro, che aveva intuito la potenza drammatica delle morti sulla scena, il Dolce giunge alla conclusione opposta, partendo dalla sua sensibilità di poeta, capace, come tale, di scegliersi i modelli alla cui autorità affidarsi.
La libertà nei confronti dei modelli da emulare vale anche, e soprattutto, per ciò che concerne la struttura esteriore delle tragedie del Dolce, identica a quella proposta dal Giraldi. Infatti il Dolce accoglie tutte le innovazioni più vistose che il Ferrarese aveva portato nella struttura della tragedia: il prologo separato, la divisione in cinque atti, una nuova funzione attribuita al Coro. Da questo punto di vista, infatti, l’Orbecche rappresenta una novità e una frattura rispetto alle tragedie precedenti, mentre influenzerà quelle che verranno dopo.
Il fatto che le prime tragedie cinquecentesche fossero sorte al di fuori di ogni preoccupazione di rappresentazione, come semplice tentativo erudito, poteva permettere agli autori di proporre la forma nella sua antica purezza. Così in esse non c’era divisione di atti e la disposizione della materia seguiva il modo proprio della tragedia greca.
Quando il Giraldi inizia a comporre le sue tragedie, poiché egli invece mira alla loro rappresentazione, deve essere in grado di offrire al suo pubblico una struttura che, da una parte ne soddisfi il gusto e le preferenze, dall’altra,sappia reggere il confronto con la scena. Ora l’ambiente letterario, accademico e cortigiano ferrarese, in cui il Giraldi operava, era fortemente influenzato dalla cultura latina (24) e da tempo abituato alla rappresentazione di commedie latine (soprattutto di Plauto e Terenzio) o volgari modellate su quelle, per cui la struttura del teatro latino gli era ben nota e familiare. Egli adotta quindi elementi del teatro latino che, introdotti nella tragedia, ne decretano il successo. Sceglie la divisione in cinque atti, in quanto meglio risponde ai fini della rappresentazione; introduce il Coro con la medesima funzione che esso riveste nelle tragedie di Seneca:
 ... gli episodi devono nondimeno terminare nelle cose della favola, come anco fanno i cori di Seneca, i quali giudico io (come già fe’ Erasmo, e giudiciosamente) molto più degni di lode che quelli di tutti i Greci; perché ove questi molte volte si stendono in novelluccie, quelli di Seneca con discorsi morali e naturali, tolti tutti dal-l’universale, ritornano maravigliocamente alle cose della favola. (25)
 
Infine trae esplicitamente l’uso del prologo separato dalla commedia latina, preferendolo a quello della tragedia sia greca che latina.
Tali innovazioni si ritrovano puntualmente nel Dolce, per cui tutte le sue tragedie ci appaiono divise in cinque atti con l’intervento del Coro alla fine di ogni atto. Ad esso il Dolce attribuisce la medesima funzione già attribuitagli dal Giraldi e ciò è tanto più evidente in quanto per le tragedie tratte da Euripide (tranne l’Hecuba) egli non esita a tralasciare il testo greco, rifacendo completamente i cori ed esprimendo in essi meditazioni generali sulla Fortuna, sull’amore, sul potere...
Quattro tragedie del Dolce, infine, Giocasta, Ifigenia, Medea e Marianna, presentano un prologo separato, modellato su quelli delGiraldi.
Da quanto fin qui si è detto, emerge che ilGiraldi e con lui il Dolce tendono a una tragedia che, da una parte, vuole uniformarsi al modello e alle norme classiche, ma che dall’altra risulta diversa dalla tragedia antica, in quanto non rinuncia ad utilizzare qualsiasi suggerimento possa servirle, sia che le derivi dalla tradizione classica, greca o latina, sia che le derivi dalla tradizione volgare. Teoricamente, Aristotele (e in misura minore Orazio) è visto come colui che ha dato le regole necessarie per una composizione delle tragedie che sia accettabile. In effetti la ricerca sul genere tragico avviene in ambito aristotelico e sono i principi della Poetica a guidarne la discussione. Eppure il riferimento ad Aristotele non è un obbligo, così come non viene assolutizzato nessun modello. Invece la diversità di tempi e di situazioni e il desiderio di una “nuova via” (26) verso cui indirizzare la propria opera giustificano le scelte del Giraldi:
                       

[è la Tragedia che parla]
                                   ... Che ben pazzo fora
                        Colui il qual per non por cosa in uso
                        Che non fusse in costume appo gli antichi
                        Lasciasse quel, ch’el loco, e’l tempo chiede
                        Senza disnor. E s’io non sono in tutto
                        Simile a quelle antiche, è ch’io son nata
                        Testé da padre giovane, e non posso
                        Comparir se non giovane... (27)
 
e del Dolce:
                        V’appresentiamo una Tragedia nova,
                        Nova dico, per esser novamente
                        Con nuovi panni da colui vestita,
                        Che già vi diede...  (28)
 
Anche Euripide, da cui trae direttamente i suoi drammi, non è un modello esclusivo per il Dolce:
          
[è la Tragedia che parla]
                        Ma non è dato il seguitarmi a tutti:
                        Ond’io ricorsi a Euripide; e togliendo
                        Il bel che mi fe’ nobile e honorata
                        Lo diedi a un vostro cittadino e servo
                        Perché con l’altra lingua, et altra forma,
                        Com’egli suol, l’appresentasse a voi. (29)
 
Conscio della difficoltà del genere tragico, per non incorrere in errori e prima di avventurarsi a comporre una tragedia da sé, il Dolce ricorre al modello classico che però non accetta integralmente, ma da cui trae qual valido impianto sul quale egli possa costruire un’opera dai toni originali e destinata alla rappresentazione.
 
Dolce3. Le quattro tragedie euripidee del Dolce presentano caratteri diversi l’una rispetto all’altra e anche all’interno di ciascuna di essa, in quanto passano da una traduzione abbastanza fedele del testo di Euripide ad un rifacimento sempre più indipendente da esso.
Così il lavoro del Dolce risulta del tutto particolare rispetto alle precedenti versioni dal tragico ateniese.
Parafrasando l’espressione ciceroniana, nec converti, ut interpres, sed ut orator, citata ad esempio dal Maggi (30) come contributo all’interno del dibattito sul metodo del tradurre, ancora ben vivo nel corso del secolo XVI, si può dire che il Dolce ricorra ad Euripide non tanto come “traduttore”, ma come “tragico”: ciò gli concede grande libertà di fronte al testo greco, di cui arriva a tralasciare brani, o mutare scene e in cui introduce nuovi personaggi, secondo quelle che gli sembrano le necessità della rappresentalione.
Ma anche laddove è vicino al testo greco, tende, per usare una sua espressione, “a rappresentare più il senso che le parole” (31).
Possiamo citare un esempio dalla Giocasta, per mostrare come egli si comporta quando segue Euripide, traducendolo. Come diremo più avanti, il Dolce non lavora direttamente sull’opera greca, ma su traduzioni latine e, nel caso di questa tragedia, sulla versione delle Fenicie euripidee di R. Collinus:

    ΠΟ.
     μῆτερ, φρονῶν εὖ κοὐ φρονῶν ἀφικόμην
     ἐχθροὺς ἐς ἄνδρας· ἀλλ' ἀναγκαίως ἔχει
     πατρίδος ἐρᾶν ἅπαντας· ὃς δ’ ἄλλως λέγει
     λόγοισι χαίρει, τὸν δὲ νοῦν ἐκεῖσ’ ἔχει. 
     οὕτω δ᾿ ἐτάρβουν ἐς φόβον τ᾿ ἀφικόμην
     μή τις δόλος με πρὸς κασιγνήτου κτάνῃ,
     ὥστε ξιφήρη χεῖρ᾿ ἔχων δι᾿ ἄστεως
     κυκλῶν πρόσωπον ἦλθον. Ἓν δέ μ᾿ ὠφελεῖ,
     σπονδαί τε καὶ σὴ πίστις, ἥ μ᾿ ἐσήγαγεν
     τείχη πατρῷα· πολύδακρυς δ᾿ ἀφικόμην,
     χρόνιος ἰδὼν μέλαθρα καὶ βωμοὺς θεῶν
     γυμνάσιά θ᾿ οἷσιν ἐνετράφην Δίρκης θ᾿ ὕδωρ·
     ὧν οὐ δικαίως ἀπελαθεὶς ξένην πόλιν
     ναίω, δι᾿ ὄσσων νᾶμ᾿ ἔχων δακρύρροον.  (32)
 
Ο mea mater, consulte faciens et inconsulte faciens veni

Hostiles ad viros. Sed necesse est
Patriam amare omnes. quicunque aliter dicit,
Semonibus gaudet, coeterum animum illic habet.
Sic vero ad terrores metumque deveni,
Ne quis dolus me a fratre interficeret,
Ita ut insertam gladio manum habens, per urbem
Versans vultum iverim: unim me solatur,
Foederaque et tua fides, quae me introduxit
Intra muros paternos. lacrymabilis autem deveni
Tandem videns atria, et aras deorum,
Et gymnasia, quibus innutritus sum, Dircesque aquam,
A quibus non iuste abactus, externam civitatem
Habito ...  (33)
 
Madre io non so, se d’haver lode io merto;
Che per piacer a voi, cui piacer debbo,
Mi sia condotto in man de miei nemici.
Ma sforzato è ciascun (voglia o non voglia)
La patria amar. et s’altrimenti dice,
Ben con la lingua, il cor non è conforme.
Questo me dopo l’obligo di figlio,
Ha indotto madre a non prezzar la vita;
Perché dal mio fratel sperar non posso
Altro, ch’insidie, e tradimenti, e forza.
Con tutto ciò ritrar non m’ha potuto
Né pericol presente, né futuro,
Ch’io rimanessi d’ubedire a voi.
Ma non posso veder senza mia doglia
I paterni Palazzi, e i santi Altari,
E i cari alberghi, ove nudrito i fui;
Da quai spinto, e cacciato indegnamente,
Ne le case d’altrui faccio dimora. (34)
 
Il testo latino, secondo il puro metodo ad sententiam, riprende tutte le idee espresse da Euripide, è attento ai valori lessicali e, per quanto è possibile, mantiene anche lo stesso ordine verbale del testo greco.
Il Dolce invece unisce la parafrasi amplificata del testo latino (vv. 357-358) alla traduzione, tralascia i versi 361-366 (ma si richiama a Ne quis dolus me a fratre interficeret il Perchè dal mio fratel sperar non posso | Altro ch’insidie... inserito nell’accenno all’obbedienza dovuta alla madre, aggiunto da lui) e riprende poi la traduzione, dove quel ove nudrito i fui riproduce esattamente il quibus innutritus sum della traduzione del Collinus.
Pur in pochi versi è già possibile riconoscere la tendenza, che caratterizza le quattrø tragedie, alla dilatazione espressiva rispetto al testo latino e alla formulazione secondo il lessico lirico cinquecentesco, anche a scapito della precisione di resa.
I rifacimenti euripidei del Dolce non sono stati condotti direttamente sul testo greco, ma su intermediari latini, la dipendenza dai quali, come emerge inequivocabilmente dal confronto, risulta soprattutto provata dal fatto che l’autore veneziano in nessun caso presenta particolari del testo greco che siano stati tralasciati o diversamente riportati dalle traduzioni latine, mentre accoglie l’eventuale interpretazione personale data ai versi di Euripide dal traduttore.
In particolare, l’Hecuba e l’Ifigenia inAulide dipendono dalla traduzione latina delle due tragedie di Erasmo da Rotterdam; l’intermediario latino della Giocasta è la traduzione di R. Collinus; infine, per la Medea, è ancora utilizzata come intermediario base la traduzione delCollinus, ma non mancano, nella tragedia, punti di contatto che fanno sospettare, se non proprio una dipendenza, almeno una conoscenza, da parte del Dolce, di altre traduzioni.
Dei quattro rifacimenti, l’Hecuba, pur essendo essa stessa una parafrasi amplificata della traduzione di Erasmo, è quella più fedele allo svolgersi della tragedia greca. Ma già nella Giocasta, e poi nelle tragedie successive, l’autore, rispetto al testo greco, introduce nuove vicende e nuove scene, anche se lo svolgersi complessivo dell’azione rimane sempre quello dell’originale.
Dolce, HecubaLa natura delle parti introdotte – ad es. il racconto per esteso delle vicende di Edipo nella Giocasta (35), e di Giasone nella Medea (36), oppure la scena del sacrificio a Bacco sempre nella Giocasta, che spezza il lungo monologo di Tiresia corrispondente ai vv, 865-895 del testo greco (37) – sembra mostrare la ricerca, da una parte, di quello che potremmo chiamare l’elemento “romanzesco”, dall’altra, di elementi d’effetto scenico e spettacolare. Ma l’analisi di queste parti ci permette di rilevare anche un altro particolare interessante: il Dolce, nel momento in cui compone le sue tragedie, si serve di tutto il materiale che ha a disposizione, contaminando ad es. il testo di Euripide con quanto gli possono suggerire le tragedie corrispondenti di Seneca (tutta la scena del sacrificio a Bacco è modelta sui vv. 293-384 dell’Edipo di Seneca) o addirittura copiando, in modo quasi letterale, dalla propria traduzione delle Metamorfosi di Ovidio nelle vicende di Giasone (facendo così emergere la natura di artigiano e mestierante della penna).
Quanto ai contenuti, bisogna innanzitutto dire che l’intonazione complessiva, accentuata dalla continua sentenziosità, è moraleggiante.
In questo contesto, i nuclei di significato delle tragedie greche passano al vaglio di una nuova mentalità e il Dolce tende a sovrapporre la propria cultura a quanto dice Euripide.
I suoi protagonisti soffrono anch’essi la precarietà della vita umana sulla terra e per questo invocano con insistenza valori etici come la solidarietà, la pietà, la comprensione, l’obbedienza, e valori politico-sociali come la giustizia e il rispetto delle leggi. Anche la morale cristiana filtra i contenuti classici e vi introduce i concetti di peccato e di merito e un lessico mutato dalla preghiera e dalla liturgia.
Ma, più in profondità, i nodi problematici delle tragedie euripidee rimangono lontani dalla riflessione del Dolce. In lui, come in altri tragediografi cinquecenteschi, il vero modella tragedia si riduce ad essere la Fortuna intesa come caso: è lei la responsabile principale del capovolgimento che avviene nel dramma col passaggio dalla felicità all’infelicità di personaggi, che, in tal modo, salvaguardano, nella sventura, la loro grandezza moralefino alla conclusione.
 
Nelle immagini; Ritratto di Ludovico Dolce da Le prime imprese del Conte Orlando, Venezia 1572; Frontespizio dell'edizione delle Tragedie di L. Dolce, Venezia 1560; Pagina dall'Hecuba di L. Dolce (Venezia, 1562).
 
NOTE
 
(1) Per i dati biografici, cfr. E. A. Cicogna, Memoria intorno la vita e gli scritti di Messer Lodovico Dolce Letterato veneziano del sec. XVI, Venezia, Antonelli, 1862 (Estratto dalle Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze, lettere ed arti, XI, 93-200)
(2) Cfr. ad es., E. Bonora, ll Classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della Letteratura italiana, IV, Milano 1966, 434; l’introduzione di V. Bramanti e A.F. Doni La libraria, Milano 1972, 11-43.
(3) Cfr. a questo proposito lo studio di C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, 221-254.
(4) Ibidem, 248.
(5) Per le opere del Dolce, cfr.: E. Cicogna, Memoria..., 114 sgg.; S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Torino di Monferrato Stampatore in Venezia, I, Roma 1890,V-LXXXIV (per le opere pubblicate presso ilGiolito, che sono la maggior parte). Sono state contate una settantina di opere scritte dal Dolce. Di esse esistono manoscritte solo alcune rime e lettere in raccolte sparse un po’ nelle Biblioteche d’Italia. Tutte le altre sue opere furono invece pubblicate e gli originali manoscritti dovettero servire solo come bozze per la stampa, per cui andarono persi del tutto.
(6) Cfr. S. Bongi, Annali...
(7) Le prime tragedie cosiddette regolari, cioè composte emulando direttamente i modelli classici, sono, nel corso del ’500 e anteriormente a quelle del Dolce: la Sofonisba del Trissino (1524); la Rosmunda del Rucellai (composta immediatamente dopo la Sofonisba);l’Antigone dell’Alamanni (1533); l’Orbecche del Giraldi (1541) e la Canace dello Speroni (1542). Prima della metà del ’500, erano apparse, della Poetica, solo la traduzione in latino quattrocentesca di Giorgio Valla e quella, edita postuma nel 1536, del fiorentino Alessandro de’Pazzi.
(8) Su questo argomento cfr., M. Apollonio, Storia del teatro italiano, I. Il teatro del Rinascimento: commedia, tragedia, melodramma, Firenze 1958, 477 sgg.; E. Bertana, La tragedia, Milano 1905; F. Neri, La tragedia italiana del Cinquecento, Firenze 1904; G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano 1941, 445 sgg; M.T.Herrick, Italian Tragedy in the Renaissance, Urbana 1965; C. Musumarra, La poesia tragica italiana nel Rinascimento, Firenze1972. Sull’influsso del teatro euripideo in particolare cfr. E. Schapira, Der Einfluss des Euripides auf die Tragödie des Cinquecento, Würzburg 1935.
(9) Prima del 1547, solo l’Orbecche del Giraldi, tra le tragedie regolari, era stata rappresentata davanti alla Corte estense nel 1541.
(10) Secondo quanto dicono i vv. 333-334 dell’Arte Poetica di Orazio: Aut prodesse volunt, aut delectare poetae | aut simul et iucundia et idonea dicere vitae
(11) L. Dolce, Didone, Venezia 1547, 2r. La sottolineatura è mia.
(12)
L. Dolce, Hecuba, Venezia 1566, 2r.
(13) L Dolce., Ifigenia, Venezia 1597, 2r,.
(14) G.B. Giraldi Cinzio, Cleopatra, Venezia 1583,2r.
(15) Il Giraldi nacque a Ferrara, da famiglia nobile nel 1504 e vi morì nel 1573. Compose nove tragedie e un dramma pastorale. Nel 1543 scrisse il Discorso intorno al comporre delle comedie e delle tragedie e nel 1549 il Discorso intorno al comporre dei romanzi. Nel 1565 pubblicò gli Hecatommiti, raccolta di novelle presto divenuta famosa. Una compiuta bibliografia sul Giraldi si trova in G.B.Giraldi Cinzio, Scritti critici, a cura di C. Guerrini Crocetti, Milano 1973, 33.
(16) Discorso ... intorno al comporre delle comedie e delle tragedie, in G.B. Giraldi Cinzio, Scritti critici..., 176 (da cui citerò).
(17) Vincenzo Maggi nacque a Brescia intorno al1498. Insegnò filosofia prima a Padova fino al 1542, poi a Ferrara, dove sembra che sia morto nel 1564. Cfr. P. Guerrini, Due amici bresciani di Erasmo, “Archivio storico lombardo, L (1923), 172-180; G. Bertoni, Nota su V. Maggi, “Giornale Storico della letteratura italiana”, XCVI (1930), 325-327; Nota sulle tragedie di G.B. Giraldi e su V. Maggi “Giornale storico della letteratura italiana” XCV1II (1931) 187-191; G. Toffanin, Pro Pio Madio,  “Cultura” X (1931), 239-245.
(18) Arist., Poet., VI. l449b, 24-28
(19) V. Maggi, De Poetica Communes explanationes,Venezia 1550, 96-98.
(20) G.B.Giraldi, Discorso... intorno... le com. e le trag..., 222-223
(21) Ibidem, 185~186
(22) Horat., Ars Poet., 185
(23) L. Dolce, Marianna, Venezia 1565, 4v
(24) Cfr. a questo riguardo P.R. Horne, The Tragedies of G.B.Cinthio Giraldi, Oxford 1962, 4-22.
(25) G.B. Giraldi, Discorso... intorno... le com. e le trag..., 205
(26) Cfr. C. Dionisotti, recensione a P.R. Horne,The Tragedies..., “Giornale storico della letteratura italiana”, CXL (1963), 119.
(27) La Tragedia a chi legge, in Le Tragedie di G.B. Giraldi, I, Venezia 1583 in fine della tragedia Orbecche.
(28) L. Dolce, Medea, Venezia, 1566, 5r (da cui citerò).
(29) L. Dolce, Ifigenia..., 5r
(30) V.Maggi, In Horatii Librum de Arte Poetica interpretatio, Venezia 1550, 344.
(31) L. Dolce, Il Dialogo dell’Oratore di Cicerone, tradotto per M. Lodovico Dolce, Vinegia 1547, 2.
(32)  Eur., Phoen., 357-370
(33) Phoenissae, in Euripidis Tragoediae XVII1 Per Dorotheum Camillum et Latio donatae et in lucem editae, Basileae, ex officina RobertiWinter, Anno MDXLI mense Augusto
(34) L. Dolce, Giocasta, Venezia 1549, 14v-l5r
(35) ibidem, 5v-6v
(36) L. Dolce, Medea..., 13-14.
(37) L. Dolce, Giocasta..., 28r-29r


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