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Due scienziati romani: Seneca e Plinio

 

(Zetesis 97/1) 

 Articolo dedicato al bimillenario di Seneca

I. Il problema della scienza romana: tra eredità greca e Medioevo

L’interpretazione del carattere specifico della conoscenza scientifica è venuta mutando in rapporto all’evoluzione della filosofia e della scienza. Dal modello aristotelico, ancora presente in Newton, della scienza (nell’accezione corrente del termine) come filosofia naturale, si è passati negli ultimi due secoli al modello positivistico, per cui la scienza è descrizione del ‘come’ dei fenomeni ed esclusivamente del ‘come’ (così per esempio nel neopositivismo).

In generale, alla base del metodo scientifico si pone l’esigenza di positività (l’attenersi ai fatti); ciò implica l’adozione del principio di reversibilità, di quello di dualità (interdi­pen­den­za tra osservazione dei fenomeni, sperimentazione ed elaborazione razionale dei dati), del prin­cipio di tecnicità (l’uso di strumentazione). Si procede in sintesi come segue: si ha in partenza una situazione problematica (cioè si ha un fatto che non rientra tra quelli già spiegati); si enuncia un’ipotesi; si verifica l’ipotesi; si integra l’ipotesi, verificata, nella situazione di partenza.

Quanto sopra detto rientra nella concezione corrente della scienza e della metodologia scientifica. Ma la realtà del discorso scientifico è più complessa. L’epistemologia (sviluppatasi a partire dal secolo scorso distinguendosi dalla gnoseologia filosofica) si è posta il problema della demarcazione tra scienza e non scienza o pseudoscienza: la conclusione è che, in sede teorica, a molti non sembra sia possibile tracciare una netta linea di confine tra discorso scientifico e pseudoscientifico, per esempio, tra scienza e metafisica. Interessante inoltre il dibattito in atto da fine secolo scorso sul rapporto tra ‘scienze naturali’ e ‘scienze dello spirito’ (Geisteswissenschaften): è stato più volte ribadito (innanzitutto da Windelband, poi da Rickert, Croce, dalla fenomenologia, dalle correnti ermeneutiche) la scientificità peculiare delle scienze storico-spirituali, il cui rigore è indipendente dal riduzionismo positivistico. E quanto al valore delle conoscenze scientifiche, è viva positivistico. E quanto al valore delle conoscenze scientifiche, è viva la disputa fra coloro che asseriscono il valore oggettivo, assoluto e sovrastorico della verità scientifica e coloro che asseriscono la natura relativa e storicamente condizionata delle valutazioni circa la validità delle ipotesi e delle teorie scientifiche.

           Appare, dunque, problematico e nient’affatto univoco il concetto di scienza e di metodo scientifico (1).

Il problema del sapere, di che cosa significhi sapere, scienza (la parola greca è episteme) è antico; è il problema da cui muove Aristotele nella Metafisica. Egli ritiene che sapere significhi conoscere le cause e i principi. Il sapere sommo coincide con la metafisica, che è la filosofia prima e scienza assoluta. Le scienze sono o teoretiche o pratiche o poietiche (concernenti la produzione di oggetti: libro V, 1 segg.). Tra le scienze teoretiche, la matematica studia i principi dell’essere inteso come quantità; la fisica (o filosofia seconda) studia l’essere in quanto mutamento; la metafisica l’essere in quanto essere (e infine coincide con la teologia: libro XII). La fisica dunque si occupa del mondo del movimento: l’universo, sferico, incorruttibile, ha al suo centro la terra, immota; nella regione sublunare si verificano i fenomeni oggetto di studio della fisica: essi sono dominati da nascita e morte (è il regno della corruttibilità, del divenire). La fisica aristotelica è una filosofia della natura (2) che, in pratica, non si differenzia dalla metafisica che per l’oggetto.

              Aristotele, che, per esempio negli scritti biologici (3), si rivela attento osservatore e capace di acute induzioni, non seppe, secondo alcuni (4), dare alla istanza empiristica presente nei suoi studi un’adeguata base logico-metodologica. Il dualismo si approfondirà nel Medioevo; da cui le dispute tra nominalisti e realisti, idealisti ed empiristi, ma sempre nell’ambito della medesima logica e senza che mai si intravedessero diverse forme di conoscere – ciò che avverrà in seguito, a partire dal Rinascimento, specie per influsso del platonismo, richiamandosi all’esperienza.

              Solo con la scienza sperimentale di Galileo fu fondato un sapere autonomo rispetto a quello filosofico (grazie alla matematizzazione della natura). Ma ancora in Newton la filosofia mantenne un ruolo privilegiato; per cui non si parlava tanto di fisica e di astronomia quanto di filosofia naturale (cfr. Philosophiae Naturalis mathematica, 1687). In Aristotele dunque la scienza è sempre e solo dell’universale (sia in senso ontologico sia logico). Per i Presocratici era la dottrina dell’arché; in Platone è espressamente indicata come la conoscenza ultimativa dell’essere, ossia delle Idee (Resp. V, 477b); coincide con la dialettica e si oppone al mondo sensibile dominato dall’opinione (doxa). Presso gli Stoici, certi di poter raggiungere la verità e quindi la scienza, quest’ultima "è comprensiva, stabile, immutabile" (S.V.F., I, fr. 68). La scienza è progressivamente (dall’antica Stoà al neostoicismo) subordinata all’etica; appartiene comunque solo al saggio che domina pienamente le rappresentazioni (5).

La cosiddetta scienza alessandrina (6) (fiorita a partire dalla fine del IV secolo a.C. fin verso il 200 d.C. (7)), caratterizzata dalla specializzazione degli studi (contro la sistematicità di Accademia e Peripato), attenuò i legami con la filosofia o li ruppe, e produsse grandi risultati specialmente nella matematica (Archimede, Euclide), nell’astronomia (Ipparco di Nicea, Eratostene) e nella medicina, che rimase legata alla filosofia (8).

Ma non si pervenne a una scienza sperimentale quale la galileiana e newtoniana: sia motivi economici – lo schiavismo (9) –. sia il clima culturale antico e la forma mentis antica, incline a coltivare la teoria a scapito della prassi o contro di essa, impedirono che idee come quelle esposte da Archimede (morto nel 212 a.C.) nel Metodo e le scoperte, per esempio, di Erone di Alessandria (si vedano i suoi Pneumatica e Mechanica) portassero frutti teorici e pratici, suscitassero discussioni metodologiche e ripercussioni consistenti a livello tecnologico (con ricadute sul piano teorico).

Nel tardo periodo alessandrino o periodo alessandrino-romano (10), l’ispirazione declina progressivamente. Le filosofie ellenistiche, volte tutte all’etica, non favoriscono la ricerca teorica: le grandi problematiche platonico-aristoteliche sembrano dimenticate. Se la ricerca teorica perdura (è il casodella logica stoica), essa è comunque speculativa; tanto più che la filosofia tende progressivamente a volgersi in religione: si pensi al risorgere in età romana del pitagorismo e del platonismo e al neostoicismo.

Inoltre, in Roma prevalgono decisamente le preoccupazioni pratiche: scarso è l’interesse per la matematica, praticamente nullo quello per la metafisica; di un certo rilievo l’interesse per lo studio dei fenomeni naturali. Ma si trattò di compilazioni spesso ad opera di non specialisti, di epitomi, di sintesi enciclopediche. E ciò prelude al Medioevo. “I romani si sono per lo più limitati a ripetere, esporre, compilare” e, dunque, “il contributo di Roma alla scienza greca alessandrina è stato pressoché nullo” (11). Sembra dunque azzardato o problematico parlare di una scienza romana.

Comunque sia, gli autori di cose tecnico-scientifiche sono noti: Vitruvio, il celebre autore del De Architectura, mostra ossequio per la filosofia, anche per l’esigenza di conferire all’architetto il prestigio sociale e culturale che la società antica, anche quella romana, era restia a concedere ai rappresentanti delle discipline tecniche. Di Celso, primo secolo d.C., autore, sulle orme di Varrone Reatino, l’erudito dell’età di Cicerone, di un’enciclopedia che trattava di sei artes (agricoltura, medicina, arte militare, oratoria, filosofia, giurisprudenza (12)), rimane solo il De Medicina: l’autore evita di impegnarsi nelle questioni teoriche dibattute dai Greci (empirismo o razionalismo in medicina). Se si tralasciano Columella (De Agricultura) e i geografi Agrippa e Pomponio Mela (Chorographia) del primo secolo, nonché Frontino (De Aquis Urbis Romae), più tecnico che scienziato, rimangono Seneca (13) e Plinio, che svettano su tutti e si impongono alla nostra attenzione.

Se la scienza greca fu spesso filosofica (si pensi ad Aristotele e al grande Posidonio di Apamea), quella romana o coincide con la tecnica e, quindi, è ben poco scienza, o è retorica (14), come è in gran parte il caso di Seneca, e per di più c’è ben poco di originale rispetto all’eredità greca.

Mentre il pensiero scientifico greco, con Tolomeo e Galeno, dà i suoi ultimi frutti, si fanno strada le religioni, il sincretismo neoplatonico e atteggiamenti pseudoscientifici: si sviluppano così l’astrologia e l’alchimia. Impoverendosi sempre più, il pensiero scientifico acquista simbolismo e misticismo (15). Nel tardo periodo imperiale restano in circolazione, accanto a numerose compilazioni manualistiche, soprattutto la Naturalis Historia di Plinio. Se ne traggono riduzioni (la cosiddetta Medicina Plinii, IV secolo, ampiamente diffusa nel Medioevo) e antologie (Collectanea rerum memorabilium di Giulio Solino, III-IV sec. (16)).

Solo nel VI secolo, in età teodoriciana, con Cassiodoro e Boezio, c’è una rinascita di studi: anche qui commenti, traduzioni e centoni. Già Marziano Capella, nel V secolo, col De Nuptiis Mercurii et Philologiae aveva composto una sintesi delle sette arti liberali (sulla falsariga di Varrone). Cassiodoro fece lo stesso componendo i sette libri delle Institutiones. Lo seguirono, almeno per lo spirito enciclopedico dei loro scritti, Isidoro di Siviglia (Etymologiae), Beda il Venerabile (De rerum natura), Rabano Mauro (VIII-IX secolo), autore del De Clericorum institutione, sulle sette arti liberali, e del De universo, che sono rimaneggiamenti di quanto scritto precedentemente (17).

 

             II. Le Naturales Quaestiones di Seneca

                1. Carattere dell’opera e contenuto

Le Questioni Naturali, l’opera di Seneca – tra le sue ultime – che si occupa dei problemi posti allo spirito umano dalla natura, ha come destinatario Lucilio, lo stesso delle Lettere. Seneca, ormai vecchio (18), dovette scrivere l’opera negli anni immediatamente precedenti il suo involontario suicidio del 65 (19).

 L’opera, tradizionalmente divisa in sette libri (otto secondo l’edizione di Oltramare) è stata scritta probabilmente senza che l’autore ne avesse fatto un piano preciso. Ogni libro si occupa di un problema o di problemi connessi: l’uno risulta indipendente dall’altro. Quanto all’ordine dei libri, in rapporto alla loro stesura e anche in relazione ai manoscritti che ce li conservano, sembra certo che, per esempio, il VII (sulle comete) sia anteriore al I, il IV B anteriore al II ecc. (20); di conseguenza tutta la materia dell’opera andrebbe ridistribuita. Ma dato il carattere dell’opera e l’aleatorietà di una ridistribuzione, conviene fare riferimento all’ordine tradizionale.

I tre libri I, III, IV A sono preceduti da prefazioni indipendenti dal contenuto dei libri stessi. Il II (cap. 1-2) tratta una questione di fondo: lo studio dell’universo e delle sue diverse parti. Ciò che accomuna queste introduzioni è la preoccupazione da parte di Seneca di sottolineare il valore, la grandezza, il significato della ricerca fisica in rapporto all’etica e alla dimensione esistenziale dell’uomo.

Esaminiamo in particolare le tre prefazioni. Il primo libro si apre con la distinzione tra studio dell’uomo (antropologia ed etica) e studio della natura e di Dio (fisica o teologia): “Ringrazio la natura quando la considero non per quello che è agli occhi di tutti, ma quando penetro nei suoi più intimi recessi, quando apprendo quale sia la materia dell’universo, quale ne sia l’autore e il custode, che cosa sia Dio, se sia tutto concentrato in sé o talvolta guardi a noi... se sia parte del mondo o il mondo” (21). Che senso avrebbe vivere se non si cercasse di conoscere queste realtà? “Che spregevole realtà è l’uomo se non si solleva sopra le cose umane!” (22); “La virtù che noi ricerchiamo è magnifica, non perché sia per sé felicità l’assenza di mali, ma perché allarga l’animo e lo predispone alla cognizione delle realtà celesti e lo rende degno di partecipare della stessa sorte di Dio” (23).

Conseguita tale perfezione, l’uomo che ha visto il mondo e le sue realtà getta dal cielo uno sguardo sdegnoso sull’angusta terra ed esclama: “Questo è il punto che le genti si dividono col ferro e col fuoco? Come sono risibili i confini dei mortali!” (24).

Non è che un punto il mondo su cui gli uomini navigano, guerreggiano, regnano. Liberatosi il più possibile dei fardelli terreni – prosegue Seneca – l’animo si eleva al cielo: torna così all’origine sua (velut vinculis liberatus in originem redit). Lì finalmente conosce Dio, la mens universi (25). Mentre l’anima dell’uomo è solo una sua parte costitutiva, Dio è solamente animo e ragione). Ma sia la gente comune sia anche i filosofi, credendo spesso che il mondo sia a caso, si lasciano sviare dalla molteplicità degli eventi, ne dimenticano l’ordine intrinseco. Si capisce, dunque, quanto vale acquisire le conoscenze che consentono di cogliere l’armonia universale; e questo è quasi un ‘trasumanare’ (mortalitatem transilire et in meliorem transcribi sortem) sapendo che tutto è angusto, in rapporto alla dimensione di Dio una volta che uno l’ha conosciuta (mensus Deum).

Seneca si dichiara però vecchio e in qualche modo debole e impari a raggiungere tali obiettivi (libro III, prefazione). Ma si propone con forza: sibi totus animus vacet et ad contemplationem sui saltem in ipso fine respiciat. Piuttosto che raccontare le vicende storiche e i vizi e le violenze dei loro protagonisti, quanto è meglio cercare di extinguere sua mala, cioè correggere le proprie imperfezioni. È peggio che mai servire se stessi, cioè essere schiavi delle proprie debolezze. Ciò che conta – si chiede più volte: quid est praecipuum? – è in sintesi saper sopportare e resistere, di fronte a sé come di fronte agli altri e alle cose, e affermarsi nonostante tutto, nobilmente. Lo studio della natura serve molto a questo scopo (ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam): ci toglierà da ciò che è basso, ci allontanerà dal corpo, ci farà più penetranti, nelle cose quotidiane ed ordinarie.

E nel IV A: Lucilio è uomo capace di esercitare misuratamente il suo ruolo di procuratore in Sicilia e soprattutto sa stare con se stesso diversamente dagli altri agitati da tante spesso contrastanti passioni. Messo in guardia Lucilio dalle insidiose frasi degli adulatori, abilissimi a volte a suscitare le reazioni da loro volute anche negli uomini più forti e agguerriti (ed è una vera lotta quella che si conduce contro di loro), elogia il fratello Gallione proponen­dolo come esempio a Lucilio. Il mondo degli uomini è naturalmente inclinato al male: nusquam tuta fides dice, citando Virgilio; e, ricordando Menandro: tutti indistintamente bambini, donne, vecchi peccano, non da soli né in piccolo numero ma sono come associati dal crimine. Bisogna dunque volgersi a sé, anzi salvarsi anche da se stessi (fugiendum ergo et in se recedendum est; immo etiam a se recedendum) (26).

Seneca offrirà dunque i suoi consigli a Lucilio.

Già da queste righe si comprendono le intenzioni di Seneca e il taglio che egli diede allo studio dei fenomeni naturali. Moralista qual era, subordinava il sapere fisico all’etica, considerando lo studio della natura soprattutto un mezzo di elevazione e di umanizzazione (27).

Ma vediamo quali sono i temi affrontati nei singoli libri.

I. Si tratta in verità del quinto libro (cfr. n. 20): è intitolato da qualche manoscritto De discurrentibus (ignibus), De ignibus coelestibus. Ma l’argomento suggerirebbe un titolo come De ignibus luminibusque in aere existentibus. Si tratta di fenomeni che riguardano la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco; non sono periodici e sono innocui. Si distinguono dunque dalle comete e dalle folgori. La fonte cui Seneca si ispira è Aristotele (Meteorologica); ma il confronto col testo aristotelico ci fa capire che Seneca non lo ha consultato direttamente (d’altronde Aristotele a Roma non era molto noto, come ci attesta Cicerone (28)), ma attraverso un intermediario.

II. Si può intitolare De fulminibus et tonitribus seguendo gli editori (ci è pervenuto senza titolo). Dopo una serie di considerazioni sull’aria, Seneca passa ad occuparsi del lampo, del tuono e della folgore, fenomeni che nascono nell’aria dall’urto delle nubi. Si occupa anche del significato che il fulmine può avere. Cita varie fonti, da Anassimene a Eraclito. Una parte del libro è dedicata alla paura della morte. Quanto alla mantica e all’aruspicina, cui si fa cenno, Seneca non ne nega la legittimità, come del resto aveva fatto Cicerone nel De divinatione (mai citato, probabilmente perché Cicerone si dichiara accademico e critica lo stoico Posidonio).

III. Il libro, intitolato dal Gercke De aquis terrestribus, si occupa delle acque sulla superficie terrestre, della loro origine, distribuzione e mutamento. La parte centrale del libro si occupa delle caratteristiche delle acque. Alla fine parla di un nuovo diluvio che porrà termine alla civiltà: periodicamente si alternerebbero exustiones (ekpyroseis: cfr. infra n. 85 e 86) ed eluviones. Fonte del libro è Posidonio. 

IV A. Il libro, così definito dopo l’edizione di Haase (1852), è indicato dai manoscritti come il VII, l’VIII o il X dell’opera. Probabilmente era l’ultimo delle Naturales Quaestiones. Intitolato dal Gercke De Nilo, si occupa delle sorgenti del fiume egiziano e della sua piena annuale. Ci resta del libro circa la metà: dopo un’introduzione (cui ho già accennato), Seneca afferma che la crescita fertilizzante del Nilo non è dovuta alla caduta delle piogge in Etiopia (e respinge così la tesi di Callistene); poi si occupa del corso del fiume, della sua fauna, ed espone le diverse spiegazioni date da vari studiosi (come Anassagora e Diogene di Apollonia) intorno ai fenomeni del Nilo. Peraltro, poiché il libro manca della fine, non si è ben certi delle conclusioni di Seneca; però lavorando sulla testimonianza di Giovanni Lido (VI secolo), si può arguire che Seneca probabilmente mettesse la piena del Nilo in relazione con le grandi riserve sotterranee di acqua, di cui aveva già parlato nel libro terzo.

IV B. Del libro, il primo delle N. Q. (cfr. n. 20), ci rimane meno di un terzo (gli ultimi capitoli). Il libro si occupava della grandine e delle nubi (De nubibus et grandine): per noi solo della grandine. Essa si forma negli strati alti dell’atmosfera da nubi gelate, diversamente dalla neve che si forma nelle regioni basse dell’atmosfera, dove l’aria è più calda.

V. Il libro, intitolato, in genere, De ventis, definisce il vento, poi ne studia l’origine: l’alternarsi delle esalazioni umide e secche del suolo e il movimento dell’aria ne sono le cause. Ci sono venti di superficie (regolari e irregolari) e venti sotterranei. Il libro si distingue per l’assenza di elementi dossografici: è citato solo Democrito, che viene confutato. Probabilmente Seneca si è servito di una sola fonte, greca, verosimilmente Posidonio. Seneca comunque evita i ragionamenti geometrici: alla dialettica preferisce la retorica (i discorsi persuasivi ed accessibili).

VI. Ben ordinato (come il terzo e il quinto), il libro (De terrae motu) si apre con la catastrofe che colpì la Campania nel 63 e gettò nel terrore la popolazione. Seneca vuol rassicurare che simili eventi hanno cause naturali. Poi passa ad esporre le cause che i diversi autori (da Talete a Epicuro) hanno indicato, secondo la prevalenza accordata all’uno o all’altro dei quattro elementi 'primordiali': il fuoco secondo Anassagora, l’aria secondo i Peripatetici ed Epicuro ecc. Distinti i sismi dalle vibrazioni e dalle oscillazioni, Seneca si occupa dei gas e dei vari fenomeni connessi coi terremoti. Seguendo Posidonio, attribuisce molto peso allo ‘spirito vitale’ (lo pneuma posidoniano (29)) e meno spazio dà al fuoco e al connesso vulcanesimo. Ci sono comunque molti punti in comune con l’Aetna, poemetto adespoto dell’Appendix Vergiliana: se il suo autore fosse Seneca, si spiegherebbe perché il filosofo non si è occupato dei vulcani avendo riservato la sua attenzione al problema in quella sede. L’opinione moderna riguardo ai sismi risulta anticipata da Anassimene (VI, 10). Mentre Plinio (N.H. II, 191) ricorderà la teoria babilonese degli influssi astrali, Seneca a buon diritto non la cita; già Lucrezio del resto aveva escluso un intervento divino (De rerum natura VI, 535-607).

VII. L’originario quarto libro (cfr. nota 20), De cometis, il solo ad occuparsi di eventi celesti, è avvicinabile per contenuto al secondo. Seneca sostiene che le comete rientrano nella categoria dei pianeti e che, come questi, hanno un corso regolare e prevedibile. In questo luogo accenna al dibattuto problema dei rapporti tra sole e terra (geocentrismo e eliocentrismo?). Rifiuta le posizioni di Aristotele e di Democrito sulle comete e, seguendo Apollonio di Mindo, afferma la sua posizione, che si allontana esplicitamente anche da quella di Posidonio (le comete frutto della condensazione dell’aria). Seneca rivela in questo libro spirito critico e indipendenza di giudizio al punto di rifiutare tutte le posizioni più illustri, eccetto quella sopra indicata, di origine pitagorica. Non sappiamo chi siano Apollonio di Mindo ed Epigene, che Seneca cita; forse dei contemporanei di Seneca. È certo che, avendo Tolomeo preferito le tesi peripatetiche, le più diffuse (30), la scienza dovette aspettare parecchi secoli prima che l’opinione di Seneca tornasse a prevalere.

Se dunque il mondo per Seneca è razionale, retto com’è dalla Mente divina, i fenomeni hanno loro cause e non dipendono dalla volontà degli dèi (31). Finché si studiano i fenomeni naturali non si prende in considerazione direttamente il divino; o meglio al divino si sostituisce il concetto di natura e naturale: “Tra gli elementi ci sono reciproci ritorni; qualunque cosa viene meno all’uno passa all’altro; e la natura pone le parti ond’è costituita come su una bilancia (partes suas velut in ponderibus constitutas examinat) per evitare che il mondo si squilibri a causa del turbato equilibrio dei componenti. Tutto è in tutto... (32)”. La natura è una realtà armonica la cui concordia è discorde (Tota haec mundi concordia ex discordibus constat: VII, 27, 4).

Tutti gli esseri del mondo sono interscambiabili e in continuo, dinamico movimento (33). Sono tenuti insieme dalla vis vitalis (dúnamij zwtikÔ), una sorta di volontà (34), per cui ogni singolo essere tende ad esplicare la sua specifica attività in armonia con tutti gli altri. È lo spiritus (35), assimilabile in Seneca al vento, all’aria in movimento, il veicolo energetico capace di comunicare la sua tensione ad ogni sostanza, generando movimento. In opposizione alla dottrina atomistica, lo spirito è il principio cardine della filosofia naturale di Seneca (36). Spiritus, che corrisponde, come si è detto, al greco pneuma, era già in Aristotele la forza vitale che si esplica in tutti i viventi: Aristotele lo identifica per alcuni esseri col cuore ed osserva: “È chiaro che esso è per natura ben adatto a muovere e ad esplicare energia. Le funzioni del movimento sono spingere e tirare, di modo che è necessario che l’organo possa espandersi e contrarsi (37)”. Per la dottrina stoica tradizionale è il soffio infuocato che, distendendosi per l’universo con intensità differente, genera le varie cose; coincide pertanto col Dio-physis-logos e col Fuoco artefice. Tale dottrina ontologico-fisica si connette all’organicismo della Stoa, spe­cie di Posidonio, per cui la natura del cosmo è assimilata ad un organismo vivente (38), ed è dunque considerato provvisto di forza vitale (39). Dice Seneca: “L’aria (aer) ha naturalmente la capacità di muoversi senza ricevere da fuori il movimenti; l’ha in sé... Il soffio vitale (spiritus) mantiene la sua coesione e unisce le parti di cui è costituito; è il soffio vitale e attivo che tutto alimenta (40)”. Esso alimenta le piante e le loro radici e anche i corpi celesti che ricevono nutrimento dalla terra (alla quale recano poi i loro influssi: palindromia).

Inserito nel contesto del cosmo, dominato dalla catena delle cause, l’uomo è dichiarato nondimeno libero. Dio è il Fatum (41), la natura, il mondo, o meglio la Mente che lo governa: l’uomo non deve far altro che adeguarsi all’ordine universale e compiere i suoi doveri: in ciò è la sua libertà.

 

                2. Il metodo di Seneca nello studio dei fenomeni naturali. L’esempio del libro VII.

L’opera, come già si è detto sopra, ha carattere più letterario che scientifico; predomina la preoccupazione morale: come se si trattasse di una lunga lettera a Lucilio (42). Nello Stoicismo romano, del resto, l’etica prevalse sulla fisica (e sulla logica) al punto che l’interesse per i problemi fisici e teologici (la teologia era parte della fisica, che era presso la Stoa antica una sorta di ontologia o metafisica dell’immanenza) si restrinse notevolmente (43): interessava sapere cosa dovesse fare l’uomo e quale fosse il suo destino, il suo posto nel mondo.

Abile nelle descrizioni, accurato nel riportare le opinioni dei predecessori (44), Seneca non manca di spirito critico e di interesse per la ricerca pura (45): “Cerchiamo dunque che cosa faccia scuotere la terra dal profondo... che cosa più forte di essa la agiti, massa considerevole qual è, perché ora tremi, ora riposi, ora si spacchi dividendosi... Mi chiedi quale sarà il vantaggio di questa ricerca? Il più grande di tutti: conoscere la natura. E tale studio è utile soprattutto perché attira l’uomo con la sua grandezza e si coltiva non per interesse ma per la meraviglia che suscita (quod hominem magnificentia sui detinet nec mercede sed miraculo colitur) (46). Vediamo dunque qual è la causa per la quale accadono questi fenomeni (inspiciamus ergo quid sit propter quod haec accidant)” (47).

Citato frequentemente da Ruggero Bacone, nel suo Opus Magnum (48), non ebbe fortuna nell’antichità soppiantato dal ciceronianesimo imperante e dalla cosmologia tolemaica: di più a partire dal XII secolo. Quello che oggi interessa è il legame stretto che Seneca stabilisce, da grande rappresentante dell’humanitas classica, tra scienza e uomo: la scienza deve servire ad elevare l’uomo e ad umanizzarlo.

Si è detto che Seneca soprattutto descrive e riporta le opinioni dei predecessori: il metodo dossografico domina in particolare nei libri VI e VII. È prevalente il ricorso all’autorità più che all’osservazione diretta: cita Talete, Democrito, Teofrasto, Anassimandro, Anassimene, Posidonio, il suo discepolo Asclepiodoto, Aristotele, ecc. Secondo Oltramare, Seneca è in gran parte debitore a Posidonio d’Apamea della sua dottrina e del suo metodo (49). Libero nel seguire lo Stoicismo (50), la sua autonomia è però limitata; è scarsamente osservatore e sperimentatore; preferisce l’analogia alla dimostrazione e la retorica alla dialettica: “Perché qualcosa ci è insolito? Perché percepiamo la natura con gli occhi, non con la ragione e non pensiamo a che cosa essa possa fare ma solo a che cosa abbia fatto (51)” “Osserviamo – dice – come il fuoco nasce sotto i nostri occhi: quello che è vero del fuoco domestico lo sarà anche di quello celeste” (52).

        Quanto al metodo espositivo, ad esempio nel libro quinto comincia con una definizione, poi parla dei venti in generale; poi li classifica secondo il tempo e i luoghi; vi prevale l’affronto sistematico. Ma l’opera non manca di disordine e di negligenza, in gran parte imputabili a copisti, in parte al metodo compositivo di Seneca, al suo stile diatribico.

 

               Il libro VII.

“Nessuno è a tal punto lento, ebete e chino a terra da non sollevarsi alle realtà divine (= celesti) e farne oggetto di riflessione; almeno quando in cielo rifulse qualche evento prodigioso (53)”. Certo solitamente non si guarda al consueto: lo spettacolo del cielo passa inosservato. Per quanto alcuni grandi uomini abbiano indagato il cielo e si siano chiesti che cosa siano gli astri: globi di fiamme o realtà materiali simili a quelle terrestri... Però la fiamma si perderebbe nello spazio se non avesse un sostrato capace di alimentarla e conservarla.

E le comete? Spettacolo insolito e terribile, se sono astri sono realtà simili a quelle terrestri; e sembrano essere tali per la regolarità del loro corso. Se pure le comete fossero fuoco, analogamente lo sarebbero gli astri. E vi è connesso – dice, senza specificare il motivo della connessione – un altro problema: è l’universo che gira attorno alla terra ferma o la terra che si volge mentre l’universo sta fermo? (utrum mundus terra stante circumeat an mundo stante terra vertatur). Alcuni – prosegue – sostennero che è la terra a levarsi e tramontare: Seneca si riferisce senza nominarlo ad Aristarco di Samo (capp. I-II). Tornando alle comete (dopo aver abbandonato il problema geocentrico senza commenti ulteriori): bisognerebbe avere l’elenco di tutte le apparizioni per conoscerne il corso; ma l’osservazione delle medesime in Grecia è recente, soprattutto suscitata dal contatto con gli astronomi egizi (cap. III). Dopo aver studiato presso i Caldei, Apollonio di Mindo ed Epigene hanno manifestato in merito opinioni diverse: Apollonio considera le comete pianeti; l’altro fenomeni assimilabili a fuochi, meteore luminose (cap. IV). Seneca procede quindi alla discissione delle due tesi; prima di arrivare alla teoria di Apollonio (cap. XVII), scartata quella di Epigene (che era poi quella aristotelica), presenta altre posizioni (di Democrito, di Artemidoro, di Eforo). Quella posidoniana, anch’essa confutata, è affrontata dopo la presentazione della tesi di Apollonio (capp. XVIII-XXIV). Le comete, secondo Apollonio, sono astri distinti, come il sole e la luna: non hanno forma di dischi, ma slanciata e allungata; la loro orbita non ci è nota né si può dire quante e quali somiglianze esistano tra quella apparsa alla morte di Cesare, quella apparsa sotto Augusto, sotto Nerone, ecc. Le comete sono comunque numerose e varie: talora bianche, a volte rosse come il sangue di cui sono spesso presagio (cap. XVII). Quanto agli Stoici (XIX segg.), ecco le loro opinioni in merito: secondo Zenone, sono pianeti che si avvicinano e confondono i loro raggi; dunque le comete non hanno esistenza reale: si tratta di effetti luminosi dovuti alla vicinanza di astri (così dicevano anche Anassagora e Democrito); secondo altri, hanno esistenza reale, ma non meritano il nome di stelle perché si dissolvono dopo un certo tempo (trattandosi praticamente di gas, come diceva Aristotele). Questa tesi – dice Seneca – è la più seguita. Fenomeni come le comete e altri decisamente irregolari e, pertanto, tali da attirare l’attenzione (come l’apparizione di torce, scudi ardenti, colonne, travi, ecc.: cap. XX, 2 e passim) si formerebbero, secondo Posidonio, dalla condensazione dell’aria, specie a nord, e si muoverebbero in direzioni diverse (mentre i pianeti procedono da ovest ad est). No – dice Seneca (cap. XXII) – non existimo cometen subitaneum ignem, sed inter aeterna opera naturae. In primo luogo, procede Seneca confutando, se fosse un fuoco non permarrebbe nell’aria così stabilmente; secondariamente, se fosse attaccata al suo alimento si muoverebbe verso il basso; ma nessuna cometa si è mai avvicinata al suolo o è tramontata (54); e ancora: il fuoco va verso l’alto; nessun fuoco ha andamento curvilineo (iter flexum), piuttosto i pianeti. E se è fuoco acceso da causa temporanea, si spegne presto (così le meteore – faces ardentes – le folgori, le stelle cadenti). Ma le comete sono fenomeni persistenti che mantengono costanti le loro caratteristiche: solo gli astri possono essere tali. Inoltre, i fuochi che si accendono repentinamente nell’aria non solo non sono durevoli ma neppure possono esserlo. La cometa habet sua sedem... nec extinguitur sed excedit (XXIII, 3). Poi, Seneca procede a confutare le possibili obiezioni (XXIX segg.): se la cometa fosse un pianeta si troverebbe nello zodiaco. Ma perché in angustum divina compellere?  Le comete possono ben avere loro orbite. Ma queste ultime non sono state osservate. Sì, però noi crediamo anche a ciò che non vediamo: per esempio, crediamo di avere un’anima, anche se nessuno sa dire che cosa esattamente sia (spiritus – gli Stoici –, concentus quidam – Platone, Dicearco, Aristosseno –, vis divina et dei pars – ancora gli Stoici –, tenuissimum animae – Epicuro –, incorporalis potentia – l’ente­lechia di Aristotele –, ecc.). Anche le comete, che appaiono ad intervalli (quorum ex ingentibus intervallis recursus est), possono avere leggi fisse: noi ancora non le conosciamo, ma in futuro saranno note (veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia). Sono solo quindici secoli – osserva – dacché si è cominciato a indagare il cielo e a dare nomi alle stelle; e solo da poco i Romani hanno conoscenze scientifiche. Ci vorranno molte generazioni e poi “tempo verrà che i posteri stupiranno che noi non sapevamo cose così manifeste (veniet tempus quo posteri tam aperta nos nescisse mirentur)”. Il mondo ha movimenti irrevocabili (opus hoc aeternum irrevocabiles habet motus): solo alcuni abbiamo imparato a conoscere. “verrà poi qualcuno a dimostrare in quali regioni del cielo corrano le comete, perché errino separatamente dagli altri corpi celesti, quale sia la loro grandezza e natura (erit qui demonstret aliquando in quibus partibus cometae currant, cur tam seducti a ceteris errent, quanti qualesque sint)”. E ci fu in effetti un uomo: Newton.

Dopo queste profetiche parole, prosegue Seneca (cap. XXVI): non è vero che, non apparendo di forma sferica,. le comete non possano essere stelle. Tanto più che è la loro luce che si sviluppa in lunghezza (fulgor extenditur), mentre il corpo è tondeggiante. Le stelle sono differenti, le diverse costellazioni si accompagnano a diversi fenomeni climatici: eppure sono tutti corpi celesti. Tota haec mundi concordia ex discordibus constat. Non c’è dunque da meravigliarsi che esistano corpi celesti così apparentemente irregolari come le comete.

Aristotele (55) dice che le comete significano qualcosa: brutto tempo, venti e piogge eccessive (cap. XXVIII), E perché non crede dunque che siano corpi celesti? Sono segni, sì, come l’equinozio indica che l’anno volge al caldo o al freddo (data la concezione organicistica degli Stoici, ovvero la teoria della simpatia universale). esse sono lente solo apparentemente; e del resto ciò che possiamo fare è solo “scrutare i fenomeni e cercare di penetrare nei segreti della natura con l’aiuto di ipotesi non con la certezza di trovare la verità ma neppure senza speranza (56)”. Infine, Seneca ribadisce che il progresso della conoscenza è senza fine e molto spetta alle età future (cap. XXX (57)). È il pensiero che ci deve guidare; con esso possiamo pensare le cose e Dio stesso che, dopo aver ‘fondato’ il mondo, effugit oculos (XXX, 3) e ci è nascosto. Aggiunge mirabilmente: Quid sit hoc sine quo nihil est, scire non possumus (58).

La conclusione (capp. XXXI-XXXII) del libro è drammatica: la corruzione dilaga, la mollezza dei sensi domina e con essa le pratiche più degradanti; ne consegue che le scuole filosofiche si estinguono, mentre vigoreggiano gli spettacoli più osceni, Ne deriva che “a tal punto non si scopre più niente nelle materie che gli antichi hanno insufficientemente studiato, che molte loro scoperte vengono dimenticate”, E sembra non solo uno sfogo personale o una tirata moralistica, ma la testimonianza sconvolgente di una decadenza che, sappiamo, fu fatale al mondo classici.

  

              III. La Naturalis historia di Plinio.

                1. Sguardo complessivo: contenuto, metodo e valore dell’opera

Più di duecento sono i manoscritti della Naturalis Historia, il che attesta il grande successo dell’opera dall’antichità in poi. Sul testo di Plinio si è lavorato molto: si sono fatti estratti, si sono fatte sintesi, anche per la mole rilevante dell’opera, che è l’unica rimastaci delle molte scritte da Plinio (59). Pur occupato come funzionario imperiale, di rango equestre, in molte procuratele e prefetture – e non è da dimenticare la sua attività di soldato in Germania e al seguito di Tito in Palestina – “si applicò talmente agli studi liberali che certo nessuno, stando in ozio, avrebbe potuto scrivere più libri (60)”. La verità, come ci informa Plinio il Giovane, è che aveva un ingegno vigoroso e grandissima capacità di vegliare. Spesso d’estate si stendeva al sole e chiedeva che gli si leggesse un libro, prendendo note e facendo estratti (annotabat excerpebatque); difatti, non leggeva niente senza prendere estratti (nihil enim legit quod non excerperet). E soleva dire che non c’è nessun libro tanto cattivo che non possa in qualche parte giovare. In campagna, solo il tempo del bagno era sottratto allo studio; ma mentre si asciugava e durante il massaggio, ascoltava sempre qualcosa o dettava; in viaggio, poi, attendeva alla sola occupazione della lettura; e gli era sempre accanto un amanuense con libro e tavolette (notarius cum libro et pugillaribus (61)). Come racconta Suetunio (62) “morì nel disastro della Campania: era capo della flotta a Miseno e, durante l’eruzione del Vesuvio, imbarcatosi per esplorarne le cause (ad explorandas causas), ma non potendo procedere a remi per i venti contrari, finì soffocato dalla polvere e dal materiale infuocato (vi pulveris ac favillae oppressus est) o, come alcuni sostengono, fu ucciso da un suo servo cui avrebbe chiesto di affrettargli la morte, giacché faticava a respirare”.

  Il racconto della sua morte, che ne ha fatto un personaggio esemplare, quasi un martire della scienza, è ben più ricco e articolato in una celebre lettera di Plinio il Giovane a Tacito, da cui emerge lo spirito di servizio che animava Plinio il Vecchio non meno della sua ansia di sapere: Plinio stava studiando – racconta il nipote: erano circa le due pomeridiane del 29 agosto, 79 d.C. – e la sorella gli indica una strana nuvola apparsa all’orizzonte, a forma di pino. Plinio giudica che il fenomeno vada osservato da vicino. “Mi chiese se volessi andare con lui – racconta Plinio il Giovane –; risposi che preferivo studiare e occuparmi di quel che mi aveva dato da scrivere”. Saputo del pericolo che sovrastava la villa di Casco, che non poteva fuggire se non per mare, fa allestire una nave, col proposito di portare soccorso non solo a Rectina (moglie di Casco), ma anche a tutti gli altri. Volge dunque il timone là donde tutti fuggono. Punta poi sulla casa di Pomponiano a Stabia: ancora non c’era pericolo. Riposò lì la notte e russava, corpulento com’era. In cortile però cominciarono a piovere lapilli. Allora con Pomponiano lasciò la casa, scossa dal terremoto e colpita sempre più fittamente da materiale eruttivo. Sul lido, a vedere da vicino che cosa permettesse il mare, cominciò a respirare male – aveva sempre avuto problemi respiratori – e così finì soffocato (63). Fu poi ritrovato alcuni giorni dopo quasi con l’aspetto di un dormiente.

Solo qualche anno prima, verso il 77-78, Plinio aveva concluso la colossale fatica della Naturalis Historia (il titolo non vale Storia naturale quanto ‘descrizione, scienza della natura’ (64)).

Nella lettera dedicatoria all’amico Tito (65), non ancora imperatore, Plinio chiarisce le motivazioni e il carattere del suo lavoro. L’opera sua è destinata ai tecnici e agli studiosi; con essa l’autore vuol essere utile, giovare al popolo romano. Si narra della natura – dice – cioè della vita (66); ed è un’opera enciclopedica (omnia attingenda quae Graeci τῆς ἐγκυκλίου παιδείας vocant (67)), una summa programmaticamente non originale del sapere. Egli ha anteposto la preoccupazione di giovare a quella di piacere. Afferma di aver consultato circa duemila volumi, di circa cento autori: il tutto in trentasei libri. “Sono un uomo occupato; nei ritagli di tempo (subsicivis temporibus) mi sono dedicato a questa materia, di notte, perché nessuno di voi, principi, pensi che io non faccia niente in queste ore (68)”.

Colto, aperto, affabile, Plinio dice di voler indicare esplicitamente le sue fonti, ponendole in capo ai libri, per non contrabbandare per suo quello che non è. I Greci che ha consultato ricorrono a strani titoli (“Muse”, “Fiori”, “Pandette”, ecc.); i Romani, come Varrone, più rozzamente hanno “Antichità”, “Esempli”, “Arti”, ecc. Egli ha scelto quel titolo semplice. Ha premesso all’opera un primo libro di indici (che seguono l’epistola/prefazione), perchè ciascuno possa agevolmente consultare l’opera (ut quisque desiderabit aliquid, id tantum quaerat et sciat quo loco inveniat (69)).

Ecco in breve il contenuto dell’opera, come si desume dal catalogo premesso dallo stesso Plinio (libro I, che reca l’indicazione delle numerosissime fonti greche e latine):

Libro II. Astronomia e cosmografia, prevalentemente secondo la concezione stoica dell’universo.

Libri III-VI. Geografia. Esattamente: “Situazioni, popolazioni, mari, città, porti, montagne, fiumi, dimensioni, popoli che tuttora esistono o esistettero di...” segue l’elenco delle regioni considerate: Spagna, Italia, isole mediterranee (l. III, capp. 6 segg.), Norico, Pannonia, Grecia, Germania (l. IV, capp. 28-29), Britannia (l. IV, cap. 30), Gallia, Lusitania, Mauretania, Siria, India... Fonti (ex auctoribus) latine: Varrone, Agrippa, Augusto, Pomponio Mela, Ateio Capitone, ecc.; greche: Artemidoro, Alessandro Poliistore, Teofrasto, Teopompo, Eforo, Eratostene, Aristotele, ecc.

Libro VII. Antropologia e fisiologia. La generazione dell’uomo; tipi fisici eccezionali e mostruosi; qualità intellettuali e morali. Le arti: astronomia, grammatica, medicina, geometria, architettura, pittura, scultura. Sulla morte e sull’anima. In totale 747 fatti, storie, osservazioni (res et historiae et observationes), Fonti (soprattutto greche): Ippocrate medico, Asclepiade medico, Eforo, Senofonte, Eraclide Pontico, ecc.

Libri VIII-XI. Zoologia: elefanti (come nascono, caratteri, come si domano ecc.); serpenti; leoni (nascita, indole, ecc.); pantere, animali anfibi, cani, cavalli, pecore, cinghiali, animali acquatici, delfini, tartarughe, polipi, crostacei, perle, murici, ecc.; gli uccelli: aquile, sparvieri, palmipedi...; insetti, api, ragni...

Libri XII-XIX. Botanica. Gli alberi, le piante dell’India, la regione dell’incenso, la mirra; gli unguenti; le palme, gli alberi dell’Egitto, il papiro, gli alberi di Asia e di Grecia, gli alberi fruttiferi (sul vino quasi tutto il libro XIV); l’olio (l. XV, capp. 1 segg.); sui frutti, il mirto, gli alberi selvatici, gli alberi che danno legno prezioso (l. XVI, capp. 24 segg.), gli alberi coltivati; sulle biade, i cereali, i legumi; le stagioni della semina, i pronostici meteorologici (XVIII, cap. LVIII segg.); natura del lino e fatti meravigliosi, piante da giardino.

Libri XX-XXXII. Erboristica, farmacologia naturalistica, medicina (70). Sulle erbe (ll. XX-XXII): rimedi tratti dalle piante coltivate, natura dei fiori, piante spinose, descrizione delle erbe; ancora rimedi tratti da erbe, piante (ll. XXIII-XXVII) e dagli animali (ll. XXVIII-XXXII).

Libri XXXIII-XXXVII. Il regno minerale. Metallurgia; le pietre; natura dei metalli in scultura e pittura. Sul bronzo (l. XXXIV): statue e ornamenti bronzei; sul ferro e sul piombo. L. XXXV: la pittura (sua storia); preparazione dei colori, varietà delle terre. L. XXXVI: natura delle pietre, gli obelischi, le meraviglie del mondo, pavimentazioni e rivestimenti. L. XXXVII: cristalli, ambra, pietre preziose.

Rivolto com’è alla realtà pratica e sollecitato da esigenze tecniche, il mondo romano è avido di conoscenze scientifico-tecnologiche. In particolare, l’età imperiale è tesa a sistemare il sapere, a inventariare le conoscenze acquisite: di qui enciclopedie come la Naturalis Historia. Crescenti capacità tecniche sono richieste alla classe dirigente romana; ecco dunque la divulgazione scientifica. E in pari tempo la curiosità scientifica si afferma come forma di intrattenimento: è il momento dei ‘paradossografi’ (scrittori di mirabilia (71)), caratterizzati da dilettantismo e superficialità.

Tutto questo non porta né ad un reale approfondimento delle conoscenze acquisite – per lo più di origine greca – o ad un vero aumento di esse né ad alcuna sistemazione scientificamente e metodologicamente corretta e progressiva: i nuovi dati vengono semplicemente giustapposti a quelli degli autori ormai ‘classici’. È in questa prospettiva che si colloca Plinio (72). Benché lontano dal tipo dello scrittore di stranezze e alieno dal facile intrattenimento, Plinio manca di autonomo sperimentalismo e della capacità di inquadrare e classificare debitamente il materiale raccolto: la Naturalis Historia è opera in grandissima parte libresca che si offre come manuale di pronta e facile consultazione (73).

In genere eclettico, più che stoico (come appare soprattutto nel libro II), Plinio ricevette dallo Stoicismo la spinta ad un’opera complessiva sul mondo, sull’uomo, sullo scibile umano: “La concezione del mondo come complessa solidarietà, macchina cosmica che l’uomo deve conoscere per ripecchiarne dentro di sé le virtù, era un’idea atta a guidare un progetto di enciclopedia (74)”. Lontano dalla pensosità profonda di Seneca, Plinio rispecchia la forma mentis, stoicheggiante, della classe dirigente romana dell’epoca; romano tipico della schiatta dei Ciceroni e dei Varroni (75), dell’onesto funzionario porta nella sua opera lo spirito di servizio (praeferre utilitatem iuvandi gratiae placendi (76)).

Plinio certo non volle fare opera d’arte – e il suo stile così disuguale e sciatto ne è conferma. Con le sue carenze stilistiche, di rigore teorico e di analisi, la N. H. rimane un documento di grandissimo interesse e valore storico, soprattutto per quel che concerne la 'cultura materiale' antica (77). Del resto è grande e lodevole il suo interesse tutto umanistico per il sapere e la sua fede razionale e pratica nella scienza.

 
               2. La cosmografia di Plinio (libro II)

Il libro, uno dei più impegnati dell’opera, nonostante incongruenze nell’organiz­za­zione dei capitoli e nello sviluppo delle idee, risponde a uno schema che rimanda fondamentalmente all’antica divisione della materia in quattro elementi: fuoco, aria, terra e acqua.

La prima parte del libro (capp. 1-101) si occupa del mondo siderale (fuoco celeste): i pianeti e i loro fenomeni, comete e prodigi; la seconda parte (capp. 102-152) dei fenomeni atmosferici (venti e precipitazioni); la terza parte (capp. 154-211) della geografia del globo (la terra madre, la terra e le acque, geografia astronomica, sismi); la quarta (capp. 212-234) dell’idrografia (maree, azione del sole e della luna sulle acque, prodigi); una quinta parte si occupa dei prodigi del fuoco terrestre; infine la misura della terra (78).

Quasi tutta la materia del libro (astronomia, meteorologia, geografia) proviene da compilazione; le fonti sono molto numerose e non sempre esplicitamente dichiarate; a volte si sovrappongono dando luogo a una sorta di sincretismo (è il caso dell’esordio pitagorico-stoico): ci sono dottrine di Aristotele, di Eratostene, di Posidonio, di Varrone, per le antichità nazionali, di Mela, di Seneca. Complessivamente prevalgono le dottrine stoiche: è sostenuta la teoria della simpatia universale, l’idea del soffio vitale diffuso ovunque, l’interpretazione naturalistica del politeismo e della mitologia. È presente anche l’astrologia orientale, dei Caldei (l’influsso degli astri sulla terra, il colore dei pianeti, ecc.), spesso sotto il travestimento della dottrina stoica. Non mancano i temi canonici: l’unicità e la sfericità della terra, i quattro elementi, l’elogio della terra-madre, la vanità e la piccolezza dell’uomo di fronte al cosmo, la corruzione della scienza e l’avidità umana. Plinio non attinge in genere a fonti di prima mano, dipende preferibilmente da intermediari; per esempio, a proposito dei venti, non cita direttamente i Meteorologici di Aristotele: l’incipit dell’opera risale al Timeo platonico, ma si presenta all’incirca nella formulazione della Chorographia di Mela (79). Non mancano peraltro gli spunti e le riflessioni personali; per esempio, parlando dei venti, dà consigli ai marinai attingendoli certamente alla propria esperienza.

C’è una fonte privilegiata dietro il II libro? Si è parlato di Posidonio. Ma è certo che la critica gli ha attribuito in passato molto più di quanto abbia effettivamente detto (80). Dilatato a dismisura nei primi decenni del secolo, lo spazio che oggi si concede allo stoicismo orientalizzante di Posidonio è stato assolutamente ridimensionato. In Plinio c’è il pitagorismo o meglio il neopitagorismo, ci sono le tangenze con il De mundo di Aristotele (81) e le molte fonti intermedie... Ne consegue che va rivisto il peso di Posidonio nel II libro di Plinio. Si tratta innanzitutto di stabilire che cosa abbia detto il filosofo di Apamea, di tracciare preliminarmente i limiti della sua dottrina.

 Ma vediamo più da vicino il contenuto del libro cercando di cogliere la concezione del mondo che vi si esprime, nonché l’atteggiamento di Plinio nell’affrontare i fenomeni naturali.

Le prime pagine del libro sono pervase di fervore religioso. Plinio afferma la divinità del Tutto e la sua eternità con tono solenne; poi razionalisticamente si volge contro le credenze religiose mostrandone vanità e contraddittorietà, per concludere stoicamente che Dio e natura coincidono (declaratur haud dubie naturae potentia idque esse quod deum vocemus (82)). Sono pagine di grande efficacia il cui contenuto cosmologico-filosofico dipende in generale dalla Stoa, ma non solo: il mondo è eterno e infinito – dice – ma anche vicino al finito (infinitus ac finito similis (83)): con ciò esprime la tesi anche pitagorica per cui l’universo è nel contempo pereunte ed eterno, dato che l’organismo cosmico nel suo complesso (natura naturans, natura artifex e natura naturata (84)) è soggetto a periodici mutamenti (cfr. la teoria della conflagrazione universale (85)) (86).

 Il cosmo s’identifica col tutto (totus in toto, immo vero ipse totum): non c’è nulla al di là della sfera del cosmo, né ci sono più mondi. Uno ‘spirito’ regge le cose e la terra stessa che – Plinio non ne dubita – rimane sospesa e immobile al centro dell’universo (87). “Al mondo i Greci hanno dato il nome di ‘ornamento’ (kosmos); noi lo abbiamo chiamato così (mundus) per la sua perfetta e assoluta eleganza. Il cielo è così chiamato per il fatto di essere cesellato (caelum ~ caelatum) secondo la spiegazione di Marco Varrone; spiegazione confermata dall’or­­dine universale, con il cerchio detto zodiaco (signifer) diviso in dodici figure di esseri viventi e dalla regolarità costante in tanti secoli del corso del sole attraverso le costellazioni (88).

Pur respingendo tra le superstizioni religiose l’astrologia orientale, per cui “alcuni attribuiscono gli eventi della loro vita alla loro stella e alle leggi del loro nascere” (e aggiunge: “Questa concezione ha preso piede, e sia la gente istruita sia gli ignoranti vi si precipitano”), ritiene che la vita dell’universo sia retta dagli astri divini, alimentati dalle esalazioni umide che salgono dal nostro globo (89): il mondo terrestre, soggetto alla corruzione, riceverebbe tali influssi restandone condizionato.

Ecco, così procede Plinio: conversevole, onesto, pur fiero dell’intelligenza umana, non si sforza di ricercare il perché e il come delle cose né le leggi che regolano i fenomeni; risolve i problemi ricorrendo al soffio vitale, alla vis vitalis, alla simpatia, neanche cercando di vagliare, come Seneca, le diverse posizioni dottrinali al fine di formulare conclusioni plausibili.

Per esempio, a proposito delle comete (90): dopo aver studiato le stelle fisse e gli astri erranti, cioè i pianeti, Plinio termina passando in rivista i fuochi celesti effimeri a cominciare dalle comete: si diffonde sui loro diversi aspetti, sul modo del loro apparire e sul loro significato, ma dedica una sola frase alla loro natura: “Ci sono alcuni che credono che anche questi siano astri eterni e abbiano un loro corso, ma non si vedano se non quando il sole li abbia lasciati; altri che nascano da casuale umidità e da materiale igneo e che perciò si dissolvano” (91). Senza pronunciarsi sulla natura delle comete, Plinio crede che esse si iscrivano nel determinismo universale (92): “Per quanto mi concerne, questi fenomeni ritengo si verifichino periodica­mente, come tutti gli altri della natura... Certo furono preannuncio di grandi mali; ma questi ultimi non credo siano avvenuti perché tali fenomeni si erano manifestati: questi si manifestarono perché quelli stavano per avvenire; del resto a causa della loro rarità rimane occulta la legge che li governa e, insomma, non sono noti, come invece lo sono il sorgere degli astri, le eclissi e molti altri fenomeni”.

Dopo la cosmografia vera e propria, Plinio passa a studiare i fenomeni atmosferici, cioè la meteorologia: il mondo sublunare è in perpetuo movimento, comunque costantemente collegato al cielo (all’etere e all’aria). Poco oltre la metà del libro Plinio, abbordando la descrizione della terra, esordisce con un grande elogio, di sapore lucreziano, della terra-madre, che si conclude con la condanna degli uomini che, assetati di ricchezza, “strappano le sue viscere perché porti una gemma il dito che l’aggredisce”. Come dunque meravigliarsi se essa ha generato realtà anche nocive? Del resto la dea si placa perché sa che tutte queste ricchezze portano guerre e morte; e poi ricopre pietosa le nostre ossa e arriva a occultare i crimini dell’umanità (sanguine nostro rigamus (scil. eam) insepultisque ossibus tegimus, quibus tamen, velut exprobrato furore, tandem ipsa se obducit et scelera quoque mortalium occultat (93)).

Interessanti i capitoli in cui si sostiene la sfericità della terra (del resto nota ad Archimede, Strabone, Seneca, ecc., ma non condivisa dall’opinione comune, scettica sull’esi­stenza degli antipodi) (94). È certo che l’ecumene è circondata dall’Oceano: ne sono prova le numerose esplorazioni (Plinio cita Annone, Imilcone e il presunto periplo dell’Africa, Caio Cesare nipote e figlio adottivo di Augusto e altri) condotte nel corso dei secoli dal Caspio alla terra dei Cimbri alle Gallie a Cadice all’Etiopia all’India. Avendo già in precedenza parlato delle acque, si volge poi a trattare dei miracula acquatici: si occupa così delle maree, sulla falsariga di Strabone e di Posidonio, dando informazioni notevoli e superiori a quelle di altri autori antichi (c’entra anche l’esperienza del navigatore e ammiraglio quale fu Plinio).

Gli ultimi capitoli (Miracula maris e Ignium et aquarum iuncta miracula) sono di gusto paradossografico. Concludono il libro dati sulla misura della terra (capp. 242-246) che risalgono ad Artemidoro, geografo del II secolo a.C., ma anche ad Eratostene attraverso Ipparco.

 

Nelle immagini: Immagine di Seneca in un codice miniato del XIV sec. (Barcellona, Biblioteca Aragonese); Fotografia della Cometa Hale-Bopp realizzata nel 1995; Pagina di un codice della Naturalis Historia di Plinio del XIV sec. (Milano, Biblioteca Ambrosiana)

 

1) P. Feyerabend (celebre il suo Contro il metodo del 1970) arriva ad affermare l’inadeguatezza e l’insostenibilità di qualunque teoria del metodo scientifico che voglia imporre atteggiamenti predeterminati, induttivistici o meno. Sostenitore della relatività del metodo, anzi della pluralità degli ‘standards’, contrario ad ogni autorità, ritiene che solo la libertà dei comportamenti porti alla crescita del sapere.

2) Il senso della natura (fúsij), che significava presso i Presocratici la totalità del reale, viene a restringersi e ad indicare l’essere sensibile intrinsecamente condizionato dal movimento (cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano 1976, II, pp. 309 segg.).

3) I più significativi prima di Linneo (cfr. Enriques-De Santillana, Compendio di storia del pensiero scientifico, Bologna 1982, ristampa dell’edizione del 1936, pp. 138 segg.).

4) Cfr. Lessico Universale Italiano, XX, p.328, s.v. scienza. Reale contesta che la logica aristotelica sia divaricata rispetto alla realtà (op. cit. II, p. 424).

5) Reale, op. cit., V, s.v. scienza.

6) Tra i predecessori, si segnalano Anassagora e Ippocrate medico, i cui scritti rivelano l’applicazione del metodo induttivo.

7) Singer, Breve storia del pensiero scientifico, Torino 1961, pp. 67 segg.; Preti, Storia del pensiero scientifico, Milano 1975, pp. 68 segg.

8) Preti, op. cit., p. 87.

9) "La più profonda remora allo sviluppo del pensiero scientifico (Preti, op. cit., p. 92). Ma c’è anche il senso del sacro e il ‘ludico’, così radicati ed estesi nella mentalità antica.

10) Enriques-De Santillana, op. cit., p. 9: “I Romani ebbero tendenza all’eclettismo in filosofia e all’enciclopedismo nella scienza; il loro ruolo non fu creativo”.

11) Preti, op. cit., p. 91

12) Le arti liberali, tradizionalmente sette, sono: grammatica, dialettica, retorica (trivio); aritmetica, geometria, musica, astronomia (quadrivio). Per quanto sopra, cfr. G.B. Conte, Letteratura latina, Firenze 1987, pp. 294 segg.

13) Seneca è forse ad uno stadio più avanzato rispetto a Plinio (Enriques, op. cit., p. 213). La lettura delle Naturales Quaestiones conferma tale giudizio.

14) Non considero poemi scientifici come il De rerum natura di Lucrezio e gli Astronomica di Manilio.

15) Preti, op. cit., p. 97.

16) Plinio fu particolarmente apprezzato per i suoi indici e per l’indicazione delle fonti: gli auctores erano garanzia di verità. Su Plinio dal Medioevo all’età moderna: A. Roncoroni, L’eredità di Plinio nel passaggio dal Medioevo all’età moderna, in Plinio, i suoi luoghi, il suo tempo, Como 1984, pp. 23-39 (il volume raccoglie un ciclo di conferenze tenute a Como tra il 1979 e il 1980 in occasione del XIX centenario della morte di Plinio).

17) È il periodo della decadenza e dell’oscurantismo secondo l’opinione di Singer (op. cit., pp. 133 segg.).

18) N. Q., III, praef. 1.

19) Cfr. la prefazione di P. Oltramare all’edizione senecana de Les Belles Lettres, Parigi 1961, p. VII.

20) L’edizione di P. Oltramare si rifà agli studi di A. Gercke (a cavallo fra '800 e '900) che ha esaminato i più di 50 manoscritti delle Naturales Quaestiones (datati dalla fine del XII secolo al XV secolo) dividendoli in due famiglie, F e D, indicate come Grandinem e Quantum dalle parole iniziali, rispettivamente la prima di IV B e la prima del I libro. La prima famiglia ha perso la fine del libro sul Nilo (IV A) e l’inizio del libro sulla pioggia, la neve e la grandine (IV B). D manca di parte del III libro e di tutto il IV A. Sembra comunque certo che la serie Grandinem sia da porre prima di Quantum: si otterrebbe il seguente ordine: libri IV B, V, VI, VII, I, II, III, IV A. Per ulteriori indicazioni, vedi Oltramare, pp. XXX segg.

21) I, praef. 3.

22) praef. 5: O quam contempta res est homo nisi supra humana surrexerit.

23) praef. 6

24) praef. 9: Hoc est illud punctum quod inter totgentes ferro et igne dividitur? O quam ridiculi sunt mortalium termini!

25) praef. 13

26) IV A, praef. 20

27) I suoi prologhi, i suoi epiloghi e le digressioni servono a questo scopo: come Posidonio (Seneca ne parla nell’ep. 98, 65), si serve della suasio, della consolatio, dell’exhortatio (suasio negli epiloghi dei libri I e II; consolatio in quelli dei libri III e VI; exhortatio nel VII e IV B; inoltre l’obiurgatio nei libri I, V, VII).

28) Minime sum admiratus eum philosophum rhetori non esse cognitum qui ab ipsis philosophis praeter admodum paucos ignoraretur (Top. 3). Però, proprio in quei decenni, Andronico di Rodi pubblicò il Corpus Aristotelicum, opera immane che garantì la sopravvivenza di Aristotele nei secoli successivi (cfr. Reale, op. cit., IV, pp. 13 segg.).

29) Cfr. Diels, Doxographi graeci, p. 302, 22 segg.

30) Sull’aristotelismo in età imperiale cfr. Reale, op. cit., IV, pp. 30 segg..

31) Cfr. N. Q. VI, 3; III, praef. 1: Mundum circuire institui et causas secretaque eius eruere.

32) N. Q., III, 10, 3-4.

33) V, 6.

34) II, 24, 2 segg.

35) II, 8.

36) Oltramare, p. XXIII.

37) Arist. De motu animalium, 10, 703 a 9 (in Reale, op. cit. V, s. v. pneuma).

38) Cfr. M. Pohlenz, La Stoa, tr. it., Firenze 1967, pp. 438 segg.

39) A proposito delle tesi di Posidonio, cfr. Reale, op. cit., III, pp. 450 segg. Si vedano le osservazioni infra (a proposito del II libro della N. Q. di Plinio).

40) N. Q., V, 5, 1; VI, 16, 1 segg.

41) II, 45, 1 segg. Rimanda al problema del libero arbitrio: II, 38, 3.

42) Oltramare, p. XXV.

43) Reale, op. cit., III, pp. 350 segg.; IV, pp. 74 segg.

44) N. Q., VI, 5, 2 segg.

45) VI, 4, 2 segg.

46) Cfr. Aristotele, De Mundo, cap. 1: tale studio accresce la magnanimità dell’uomo; cfr. supra le prefazioni delle N. Q. citate.

47) VI, 4.

48) Oltramare, p. XXIX.

49) Oltramare, p. XVIII.

50) Inter nullos magis quam inter philosophos esse debet aequa libertas: IV B, 3, 6.

51) VI, 3, 2.

52) II, 22

53) VII, 1, 1

54) Cfr. Aristotele, Meteor., I, 6: #aneu dúsewj æfanísqhsan.

55) In realtà Aristotele diceva il contrario: le comete sarebbero apportatrici di siccità.

56) Nobis rimari illa et coniectura ire in occulta tantum licet, nec cum fiducia inveniendi nec sine spe: XXIX, 3.

57) Solo con la nascita della meccanica celeste, nel '600, e poi con l'introduzione dei metodi di indagine astrofisica, nel secolo scorso, si è riusciti a precisarne struttura e costituzione. La prova della loro natura celeste, dato il persistere nei secoli della spiegazione aristotelica, fu fornita solo nel '500 da Tycho Brahe. E. Halley, dopo l’enunciazione della legge di gravitazione universale di Newton, con i risultati tratti dallo studio di 14 comete osservate tra il 1337 e il 1698, poté stabilire che il moto delle comete, come quello dei pianeti, è governato dalla gravitazione solare e poté pertanto rappresentare matematicamente l’orbita della grande cometa apparsa nel 1682, la cometa periodica che da lui ebbe nome (cfr. Lessico Univ. Ital., s.v. cometa).

58) Cfr. il prologo del Vangelo di Giovanni (I, 4): “Senza di Lui (il Logos) non fu fatto nulla di ciò che esiste”.

59) Un elenco si può leggere nella lettera di Plinio il Giovane a Bebio Macro (III, 5).

60) Suetonio, De viris illustribus. De historicis, VI (fr. 80, ed. Reifferscheid).

61) Plinio il G., III, 5.

62) Suetonio, loc. cit.

63) Plinio il G., VI, 16: Innixus servulis duobus assurrexit et statim concidit, ut ego coniecto, crassiore caligine spiritu obstructo clausoque stomacho, qui illi natura invalidus, angustrus et frequenter interaestuans erat.

64) Historia nel senso greco (il significato primo della parola: ricerca, descrizione, cognizione).

65) Nobis quidem qualis in castrensi contubernio: praef. 3. Plinio ricorda (praef. 1) Catullo come conterraneus meus; ma Plinio è certamente Novocomensis, originario di Como (Histoire naturelle, ed. Les Belles Lettres, Parigi 1950, introduzione a cura di A. Ernout, p. VI, n. 1), non veronese. Conterraneus (parola del gergo militare) indica l’appartenenza a una stessa regione.

66) praef. 13.

67) ibid. 14.

68) ibid. 18.

69) ibid. 33. Cita il precedente di un Valerio Sorano (I sec. a.C.).

70) Cfr. F. Ricci, La medicina al tempo di Plinio, in Plinio... cit., pp. 227-251.

71) Cfr. Conte, op. cit., p. 376: cita Licinio Muciano, fautore di Vespasiano nella crisi del 69 d.C.

72) Il punto di vista di Conte (loc. cit.) è di notevole peso giacché Conte, con altri, ha curato per l’ed. Utet l’edizione della N. H. con traduzione e note (Torino 1982 segg.).

73) Praef. 6: Humili vulgo scripta sunt (haec), agricolarum, opificum turbae, denique studiorum otiosis.

74) Conte, op. cit., p. 377.

75) Enriques, op.cit., p.215.

76) Praef. 16

77) Importantissime le informazioni sull’arte antica; preziose tante testimonianze sulle conoscenze filosofico-scientifiche greche.

78) Cfr. introduzione al l. II a cura di J. Beaujeu (Les Belles Lettres, Parigi 1950).

79) Plinio: Mundum et hoc quodcumque nomine alio coelum appellare libuit, cuius circumflexu degunt cuncta, numen esse credi par est, aeternum. immensum, neque genitum neque interiturum umquam. Cfr. Cic. Timeo, 2, 4-5: Omne igitur coelum sive mundus sive quo alio vocabulo gaudet... E Pomponio Mela nel suo esordio: Omne igitur hoc, quidquid est, cui mundi coelique nomen indimus, unum id est, et uno ambitu se cunctaque amplectitur. Mondo e cielo sono fatti coincidere: così sosteneva anche Posidonio (Reale, op. cit., III, pp. 451 segg.).

80) Cfr. Beaujeu, op. cit., p. XV; Reale, op. cit., III, pp. 446 segg.: la ‘questione posidoniana’ a proposito degli eccessi interpretativi di K. Rheinhardt.

81) Beaujeu (p. V) cita i capp. II, 89 (sulle comete: cfr. De mundo, IV, 395 b 5), 102, 153, 212 (sulle maree determinate dalla luna: cfr. De mundo IV, 396 a 25) ecc. Il De mundo è stato nuovamente rivendicato ad Aristotele da Reale (Trattato sul cosmo per Alessandro, Napoli 1974, pp.IX segg.).

82) N. H., II, 27.

83) Finito e infinito (péraj ~ #apeiron), determinato e indeterminato (certum e incertum) sembrano mescolarsi pitagoricamente a produrre la realtà (cfr. il Filebo di Platone); ciò non contrasta con i principi stoici: infinito (per potenza) ed eterno è il logos o natura artifex, finito e pereunte il mondo, come realtà materiale. Sul neopitagorismo imperiale cfr. Reale, Storia della filosofia antica, cit., vol. IV, pp. 374 segg.: si fecero rimaneggiamenti del Timeo platonico.

84) N. H., II, 3.

85) Exustio = #ekpúrwsij: N. H. II, 236; VII, 16, 73.

86) Per gli Stoici il mondo è finito (Posidonio in Diogene Laerzio VII, 140), mentre è infinito il vuoto circostante e dunque anche l’universo, che è l’insieme del mondo e del vuoto. Gli Stoici distimguevano tra universo e tutto. Alla ekpyrosis succede la apokatastasis (Reale, Storia della filosofia antica, cit., vol. III, pp. 380 segg.).

87) N.H. II, 11-12.

88) II, 8-9. Mundus non significa solo ‘puro’; come sostantivo significa ‘ornamento’.

89) II, 102 segg.

90) II, 89 segg.

91) II, 94. Seneca vi dedica parecchi capitoli: VII, 3-27; v. supra la trattazione apposita.

92) II, 97. Interessante l’attegiamento verso la divinazione: egli si colloca a metà tra gli scettici e i creduli (che ritenevano la divinità si preoccupasse di preavvertire l’uomo), convinto assertore del determinismo stoico; cfr. Seneca, N. Q. II, 32, 2 (analoga posizione).

93) II, 158-159; cfr. Seneca, N. Q., V, 15, 2-4.

94) II, 160-166.

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