Genealogia dell’identità
europea
di
Francesco Ricci
(da Nuovo Areopago, 1982, 1, pp. 19 e ss.)
Francesco Ricci (1930-1991) è stato un
saggista, autore di numerosi e importanti interventi su problemi di
attualità, ma soprattutto un sacerdote che ha portato il Vangelo in ogni
parte del mondo con zelo instancabile. Lo scritto di cui risproduciamo
qui alcune parti, pubblicato sul primo numero della rivista Nuovo
Areopago, propone alcune importanti riflessioni sul problema
dell'identità europea e della sua genesi.
Ci
chiamano, e noi stessi ci chiamiamo, Europei, tuttavia forse neppure
confusamente avvertiamo che la nostra appartenenza all’Europa è ben
diversa dall’appartenenza di qualunque uomo e di qualunque popolo a uno
qualunque degli altri continenti i cui nomi abbiamo cominciato ad
apprendere già dall’infanzia. Quando diciamo di un uomo che è africano,
possiamo mostrare di non conoscere pressoché nulla circa la sua razza,
la sua lingua, la sua cultura e la sua tribù, ma almeno è certo che cosa
vuol dire Africa, quanto meno è certa la sua geografia fisica, a cui
quell’uomo appartiene. Lo stesso vale per l’America e per l’Australia,
ed in un certo senso anche per l’Asia.
Solo in un certo senso, però, perché da un punto di vista strettamente
geografico, ciò che noi chiamiamo Europa non è altro che un
subcontinente asiatico, l’appendice occidentale dell’Asia, un sistema di
penisole e di isole alla sua periferia ovest di proporzioni oltretutto
piuttosto modeste in rapporto all’estensione globale del continente. Nei
testi scolastici lo denominano anche Eurasia, e questa espressione non
giova a chiarire le idee che vengono ulteriormente confuse quando si
apprende che le nostre razze sono di origine indo-europea e che anche le
nostre lingue appartengono al ceppo indo-europeo. Nel momento in cui ci
chiediamo cosa sia l’Europa, subito appare l’Asia. Perché allora non
siamo asiatici come lo sono ad esempio i giapponesi? Cosa è accaduto
perché si verificasse questo caso unico ed irregolare che una regione
riuscisse a guadagnare una tale autonomia nei confronti del continente
cui appartiene, per struttura geografica e per radici remotissime di
razze, lingue e culture, da acquisire il diritto di esistere come fosse
essa stessa un vero e proprio continente? Cristopher Dawson comincia il
suo fondamentale saggio intitolato «La nascita dell’Europa» appunto con
questa osservazione: «Noi siamo talmente avvezzi a fondare la nostra
visione del mondo e l’intera nostra concezione della storia sull’idea
dell’Europa che ci riesce difficile renderci conto dell’esatta natura di
questa idea. L’Europa non è una unità naturale, come l’Australia e
l’Africa; essa è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica
e di sviluppo spirituale. Dal punto di vista geografico l’Europa è
semplicemente il prolungamento nord-occidentale dell’Asia, e possiede
una minore unità fisica dell’India, della Cina o della Siberia;
antropologicamente, è un miscuglio di razze, e il tipo dell’uomo europeo
rappresenta una unità piuttosto sociale che razziale. E anche nella
cultura l’unità dell’Europa non è la base e il punto di partenza della
storia europea, ma il fine ultimo e irraggiungibile verso cui questa ha
mirato per più di mille anni».
Dunque l’Europa non esiste da sempre: essa ha cominciato ad esistere non
per un fenomeno naturale che ne ha modificato l’aspetto fisico, ma per
altre cause, non tanto direttamente legate ai processi della natura,
quanto piuttosto a taluni avvenimenti della storia e della cultura.
Questo «inizio» dell’Europa costituisce una peculiarità che determinerà
per sempre il destino dell’uomo europeo. Il modo europeo di essere uomo
è e resta segnato proprio dal fatto che esso ha un inizio. Ciò che segue
non solo viene dopo, ma ne è lo sviluppo e la crescita, oppure il
rifiuto o il tradimento, ma è pur sempre qualcosa di relativo a ciò che
sta all’inizio. La memoria dell’inizio appare qui come il primo e
fondamentale contenuto della coscienza dell’uomo europeo o, più ancora,
la prima caratteristica antropologica dell’ethos europeo. L’ethos
dell’europeità nasce nel passaggio dalla natura alla cultura, ma più che
di nascita sarebbe esatto parlare di concepimento; lunga sarà infatti la
gestazione che porterà alla nascita di ciò che noi chiamiamo Europa.
(...)
Se è vero che dobbiamo il nostro nome di europei a degli asiatici quali
furono i Fenici, che ce lo imposero ancora prima che esistessimo, è
ugualmente vero che dobbiamo la nostra esistenza - l’esistenza
dell’Europa come continente a sé e dell’uomo europeo - ad un paradosso
della storia che vede ancora degli asiatici come protagonisti, anzi
addirittura il più grande impero asiatico mai esistito. Senza questo
paradosso noi avremmo oggi uno statuto geopolitico e culturale non
diverso da quello del Giappone, saremmo la regione occidentale del
continente Asia, il suo Far West; il modo europeo di essere uomo non
sarebbe mai nato, saremmo solo una delle varianti del mondo indoeuropeo.
Indoeuropei
infatti erano quei Persiani che nel corso del VI secolo a.C. avevano
costruito un impero che occupava pressoché tutto lo spazio allora
conosciuto come mondo civile che si estendeva dall’Oceano indiano al
Golfo Persico, al Mar Caspio, al Mar Nero, fino al Mediterraneo. Il
potere politico e militare dell’Impero persiano era tale che il progetto
di una egemonia universale indoeuropea avrebbe potuto essere realizzato
senza incontrare sostanziali ostacoli. E tale fu infatti il progetto
dell’imperatore Dario, che spinse i confini dell’impero verso oriente e
si accingeva ad estenderli anche ad occidente, dove puntava a
sottomettere Grecia, Tracia, regione Danubiana, e poi le coste
occidentali dell’Africa con Cartagine e di lì la Spagna.
(...)
L’uomo che ha incontrato l’uomo e che ha scoperto in sé la dimora del
Logos quale dimora interiore della verità di cui il cosmo e ogni
frammento dell’essere trattiene il seme nella propria intelligibile
razionalità, quest’uomo, liberato dalle ombre della paura e della
illusoria libertà del mito, può ora correre tutta l’avventura umana del
pensiero nell’intero spazio dell’essere e dell’esistere, nel cielo di
Dio e nella terra degli uomini. Dei discepoli di Socrate, Platone
percorre fino in fondo la via etica ed estetica del Logos, inseguendo il
fascino del Bene e della Bellezza, poiché vede nella razionalità
dell’essere il manifestarsi di un ordine e di un’armonia in cui si
rivela l’intelligenza e l’amore di un Logos supremo che è all’origine
del mistero dell’essere; Aristotele invece scandaglia le strutture della
razionalità del reale, ne cataloga quelle fisiche, ne arguisce quelle
metafisiche, paragona le analogie, decifra le leggi logiche e
ontologiche, scioglie gli enigmi fino allora indecifrati e rivela
l’organicità dell’essere nel singolo esistente e degli esseri nella
totalità del cosmo.
Come il pensiero e la testimonianza di Socrate avevano sorretto l’uomo
greco nel tormentato travaglio della formazione dell’unità del mondo
greco, fallita sulla via politica e militare e conseguita solo sulla via
della cultura; così Platone e Aristotele offrono al mondo greco lo
slancio culturale che, più della potenza e della genialità politica di
Filippo il Macedone e di Alessandro Magno, renderà possibile la
dilatazione universale dell’ethos della grecità, che fu chiamata
ellenismo e che aprì alla cultura del Logos popoli e razze che fino ad
allora erano rimaste assoggettate alla cultura del mito.
Ma fu un trionfo effimero. L’uomo greco sulla via del pensiero che
conduce all’incontro con il Logos della razionalità si era liberato
dalla paura e dal mito, aveva fatto l’esperienza di un nuovo rapporto
con la realtà, aveva incontrato l’uomo nell’uomo e scoperto la dimora
interiore del senso dell’essere; ma aveva toccato il limite invalicabile
della razionalità attingibile per la via del pensiero. Oltre le
«colonne d’Ercole» della conoscenza e della vita, l’uomo greco intuiva
un orizzonte di realtà e di significato che sfuggiva alle misure del
Logos theoretikòs, pareva ripiombare nel buio dell’irrazionalità,
ricadere nel mito, riportare la coscienza alle antiche paure, risolvere
in un fiasco incalcolabile l’avventura del pensiero.
Platone stesso già ricade nel mito, già vacilla sulla via del Logos e
ethos dell’incontro, per concedere ancora dignità culturale alle ombre
del mito sulla coscienza dell’uomo. È solo un appiglio, ma sarà su
questo spunto che più lavorerà l’ellenismo, fino ad arrivare con i
neoplatonici a tentare una nuova, impossibile sintesi tra l’ethos del
Logos e l’ethos del mito, tra le immagini illusorie del mondo delle
antiche teogonie asiatiche e la saggezza della conoscenza razionale
inaugurata da Talete e svolta in chiave antropologica e antropocentrica
da Socrate.
Non è un caso che il progetto imperiale dei Macedoni si sia orientato
anziché verso le terre settentrionali e occidentali, verso le stesse
regioni meridionali dell’impero dei Persiani, dall’Anatolia all’Egitto,
dalla Mesopotamia alle rive dell’Indo e alla Battriana. Più che una
sfida politica e militare, era la terribile tentazione di ricondurre ciò
che era nato da una esperienza originale che aveva generato un tipo
diverso di uomo e di ethos, staccandolo dalla sua naturale matrice
asiatica e dotandolo di una propria autonoma forma di coscienza e di
cultura - l’uomo greco, antenato e capostipite dell’uomo europeo - di
ricondurlo, dicevamo, all’antica appartenenza asiatica, nuovamente in
balia dell’irrazionalità, cui era rimedio solo la esile protezione del
mito.
È vero che Aristotele aveva consegnato la razionalità del Logos a prove
e certezze che avrebbero superato il ritorno a qualunque barbarie, ma è
anche vero che la parte sostanziale del suo argomento a favore del Logos
restò al suo tempo praticamente incompresa o disattesa, privilegiando
del suo discorso organico la ricerca sulla natura e soprattutto
l’argomentazione etico-politica. Il grande Aristotele delle ragioni
supreme dell’essere e del vivere dovrà attendere il medioevo cristiano
per essere portato in piena luce e diventare il fondamento dell’ethos
cristiano dell’uomo. Intanto tra il IV e il III secolo a.C., l’ellenismo
costruisce la sua oikoumene con una ambiguità che già ne prepara la
rovina, diffondendo nel mondo la grande conquista della grecità, e nello
stesso tempo riconsegnando la grecità a un’appartenenza equivoca e
incontrollabile all’Asia antica. Nella coscienza dell’uomo della koinè,
la memoria dell’esperienza della bellezza e della verità del Logos
s’aggrovigliava ai riti misterici e orgiastici dei culti orientali che
conoscevano una nuova efflorescenza. Quando la potenza nascente di Roma
si sostituì, nel tramonto dei Macedoni, alla gestione del quarto impero
della storia antica, fu questa civiltà ambigua e intrinsecamente minata
che venne presa a carico e adottata come contenuto della romanità. È
vero che nell’assumerla i Romani le impressero l’equilibrio del diritto
e la rozzezza del pragmatismo contadino, ma nessuno di loro avrebbe
saputo o potuto salvare l’ethos umano della razionalità, dell’incontro
dell’uomo con il Logos, dalla sua totale distruzione. Virgilio, Orazio,
Seneca o Cicerone avrebbero potuto sì garantire l’eutanasia, la dolce
morte dell’uomo nato nel VI secolo a.C. sulle rive dell’Egeo e condotto
all’incontro con se stesso da Socrate nell’Atene liberata del IV secolo,
ma non avrebbero potuto assicurargli né vita né futuro.
A differenza dell’impero dei Macedoni, quello dei Romani si estese anche
in gran parte delle regioni che oggi noi chiamiamo Europa. Distruggendo
Cartagine e resistendo alle seduzioni di Cleopatra, Roma finì col non
cedere alla tentazione di scivolare ancora una volta nell’appartenenza
alla grande madre asiatica. Se ciò fosse invece avvenuto, ogni
possibilità di esistenza autonoma e indipendente di un continente Europa
sarebbe rimasta preclusa per sempre: Roma infatti avrebbe trascinato con
sé tutta la vasta area di popoli e di tribù che aveva integrato
nell’orbita politica e culturale dell’Impero romano. Ma al tempo della
pace d’Augusto, l’Europa ancora non esisteva. Esistevano i fattori
costitutivi di una forma d’uomo e di cultura che già delineavano
l’immagine di una originalità antropologica nuova e diversa dall’antica.
Esistevano soprattutto le esperienze di una cultura dell’incontro che
avevano segnato la svolta antropologica della grecità, ma l’ethos
dell’incontro era sospeso in un pauroso pendolo tra la luminosa
chiarezza del Logos e l’oscura minaccia della caverna dei miti.
Il pensiero, impaurito dai suoi stessi limiti, s’era fermato alle
«colonne d’Ercole» della conoscenza e della ragione. La razionalità
della teoria non bastava più per attraversarle, occorreva un’altra
razionalità, non quella del pensiero raziocinante che produce la teoria,
la nozione astratta, il concetto universale e la legge logica o morale o
giuridica. Quando si accorse di non possedere altra ragione che quella,
l’uomo ebbe di nuovo paura e corse ancora una volta nei suoi
nascondigli. Mentre le sue armate occupavano il mondo, anche quello
sconosciuto, nei sotterranei di Roma si scavavano grotte per le orge
mistiche. Socrate non parlava più all’uomo dell’uomo sulla piazza di
Atene illuminata dal sole. Divino Logos, dove eri?
«En arché en ho Logos... kai ho Logos sarx egeneto»: In principio era il
Logos... e il Logos divenne carne. Delle molte esegesi possibili della
mirabile pericope del prologo del vangelo di Giovanni è lecito scegliere
quella che la legge nel punto di inserzione della novità dell’annuncio
cristiano dentro l’ethos umano dell’incontro con il Logos, in cui
consiste l’apporto della grecità alla costruzione del mondo umano
dell’uomo. L’annuncio cristiano è notizia di un evento: l’incarnazione,
la morte e la risurrezione di Cristo. Il Dio-fatto-uomo è l’avvenimento
che costituisce un nuovo principio di razionalità del reale, il nuovo
Logos. Con la sua morte e la sua risurrezione, Cristo assume in sé la
contraddizione in cui si era arenato il cammino umano dell’uomo, e la
assume nella forma radicale del conflitto vita-morte, in cui si
sintetizzano tutti i conflitti dell’esistenza: bene e male, verità e
menzogna, schiavitù e libertà, tenebre e luce, carne e spirito. Con la
sua morte distrugge la morte e con la sua risurrezione restaura la vita,
consegnandola ad una forma definitiva di libertà ed a una nuova
possibilità di pienezza.
L’evento di Cristo, la sua persona e la sua storia, diventa così il
nuovo principio di intelligibilità dell’essere, il nuovo senso della
realtà, il Logos seminato in ogni frammento del reale e presente nella
totalità del cosmo. La via del cammino umano si riapre su una nuova
direzione: è la via della fede, della nuova conoscenza, che nasce
dall’incontro con la persona di Cristo e dalla metanoia, dal cambiamento
della mente, cioè della forma del pensiero. La metanoia è l’inizio del
nuovo ethos della fede, così radicale nella sua novità da essere
paragonabile a una nuova nascita. All’apprenderlo, Nicodemo ebbe timore:
com’è possibile nascere di nuovo?
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