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Andrea Marcolongo, La lingua geniale – 9 ragioni per amare il greco, ed. Laterza, 2016

 

Fa piacere incontrare un elogio del greco, dopo tante apologie, pur necessarie e significative,  del latino. Il libro è questo ed altro: una dichiarazione d’amore (tale da far accettare all’autrice perfino  il nome “maschile”), un’inconsueta grammatica con esempi classici, una sorta di ribellione per modalità d’insegnamento che spaventano invece di attrarre, una breve storia della lingua… Il tutto mediato dalla propria esperienza di liceale prima, laureata in lettere classiche poi e, aggiungiamo, impegni internazionali, politici e aziendali, che non hanno sopito gli antichi interessi e le antiche questioni aperte.

Ci soffermiamo solo sulla prima questione, la più rilevante. Giustamente l’autrice indica come caratteristica fondamentale del greco l’importanza dell’aspetto verbale, in genere disatteso sia dalle grammatiche (da zero a mezza pagina, nota l’autrice, a fronte delle centinaia di tavole di verbi) sia dagli insegnanti, del biennio ma anche del triennio. Ricordo lo stupore di un mio ex-allievo iscritto a lettere classiche, quando la prima lezione universitaria si aprì con l’aspetto verbale: me lo raccontò con l’aria di dire: ma allora non era una fissa solo sua! Ben venga quindi l’accento posto sulla modalità di osservare e comunicare l’azione propria dei greci.

Tuttavia ho qualche obiezione. Anzitutto di principio: che la categoria dell’aspetto sia superiore a quella del tempo, vale a dire che la logica greca sia superiore a quella prevalsa in latino e nell’area romanza è discutibile. Il come non rende più liberi del quando, è anch’esso una porzione del tutto, una visione e una comunicazione che salta qualcosa: l’architettura latino/romanza, che oltre al quando considera il prima e il prima del prima e il dopo e il dopo del dopo e il dopo del prima e il durante, pone le cose in una gerarchia e in uno spessore, mettendo le premesse anche del rapporto causa/effetto. In questo il latino (e noi suoi figli) è unico, e le lingue germaniche o altre lingue europee hanno sistemi verbali con un accentuato interesse per il tempo solo perché hanno ripreso e imitato strutture sintattiche del latino: le lingue slave o, al di fuori dell’indoeuropeo, ad esempio l’ebraico comunicano la relatività temporale in modo meno preciso. Forse è un essere prigionieri del tempo, ma nel tempo ci viviamo e comunichiamo. Inoltre il sistema greco possiede per l’aspetto durativo e per quello compiuto due indicativi (distinti dalle desinenze e in secondo tempo dall’aumento): quindi il tempo assoluto all’indicativo è rilevato accanto all’aspetto. Per l’aoristo l’indicativo è solo al passato, forse perché il presente è difficile da considerare senza durata: strano quindi che l’autrice intenda l’aoristo indicativo come una sorta di presente: in realtà è il perfetto, che ha in origine desinenze sue proprie e non ha l’aumento, ad essere sentito come un presente.

Resta comunque un punto importante. Interessanti e vivamente partecipati anche gli altri capitoli, sulla pronuncia, la metrica, il duale, l’ottativo, il sistema dei casi, i problemi di traduzione. Diremmo che è un libro che si legge volentieri.

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