Rileggendo
il libro VI di Livio
(capp.11.14-20)
In occasione del bimillenario
della morte di T.Livio ripubblichiamo la relazione tenuta dal prof.
Alfredo Valvo al Convegno
di Zetesis del 15/12/1985
Nel raccogliere il materiale per le Storie
Tito Livio
poteva attingere a numerose fonti – tutte annalistiche – narravano gli
eventi
del passato con sorprendente dovizia di particolari. Esse ci sono note:
Q.
Claudio Quadrigario, Valerio Anziete, G. Licinio Mauro, Q. Elio
Tuberone sono
gli annalisti del I secolo a.C. esplicitamente citati da Livio nei
primi libri (1). Con l’eccezione
degli Annali di Quadrigario, le loro opere iniziavano
delle fondazione di Roma e dovevano presentare una ricostruzione della
storia
più antica della Città certamente ampia e a loro modo organica, ma
anche incerta
e poco attendibile, come attesta implicitamente Livio stesso al
principio del
VI libro: qui lo storico introduce il racconto della ‘seconda
fondazione’ di Roma
ad opera di Camillo promettendo maggior chiarezza ( clariora) e
maggior
sicurezza ( certiora). Va nonotato che ciò è concomitante con la
possibilità di attingere all’opera di Quadrigario, che iniziava con il
386 a.C.,
anno dell’invasione gallica.
Degli
annalisti citati da Livio siamo in
grado di ricostruire
il caratteristico modo di procedere, o tecnica narrativa; una indagine
approfondita conferma pienamente il giudizio di quanti considerano gli
esponenti della storiografia romana, soprattutto di età repubblicana, e
primi
fra tutti gli annalisti, uomini di parte, impegnati e continuare con
altri mezzi
le battaglie iniziate nel Foro.
La base documentaria dell’annalistica in questione (che si
suole denominare ‘seconda annalistica’: la ‘prima annalistica’ – quasi
solo dei
puri nomi se si eccettua Fabio Pittore, che è il primo a noi noto, e i
frammenti
di pochi altri autori – ha come limite inferiore l’epoca graccana o, al
più, la
fine del II secolo a.C.) era sicuramente costituita delle notizie
contenute
negli Annales Maximi, raccolti da Scevola nel corso del suo
pontificato
(a partire dal 130 a.C.; si comprende, dunque, il perché di una
distinzione tra
le fasi dell’annalistica che altrimenti può apparire arbitraria o
dettata solo
da motivazioni politiche). Tali notizie provengono certamente degli
archivi dei
pontefici, che le avevano raccolte anno per anno nel corso dei secoli
(non si sa,
tuttavia, e partire da quando), ma anche da archivi gentilizi, da
elenchi non
ufficiali di magistrati ed anche dalla tradizione orale, in particolare
da saghe
popolari; il tutto infiorato e corrotto da portenta, che dovevano
pur
essere spiegati. Se dunque la base era in certo modo comune, ciascun
annalista elaborava
il materiale a sua disposizione non con criteri che diremmo oggi
‘scientifici’
o che comunque fossero di ‘ricerca del vero’, ma secondo un criterio
suo
proprio, per lo più politico (la passione politica cresce e si
radicalizza dopo
le vicende graccane e ancor più dopo la guerra Sociale e le esplosioni
di
violenze intestina), ma spesso e volentieri anche di orgoglio
gentilizio (in questo
‘brilla’ per spregiudicatezza Valerio Assiste: le gens Valeria
è tra le
più numerose dell’età repubblicana non solo per proprio merito ma,
assai
probabilmente, anche per avere avuto un annalista come l’Anziate tra i
propri rampolli)
o per altri motivi ancora, nessuno dei quali, tuttavia, contribuiva ad
incrementare la percentuale dei racconti annalistici. Va da sé che uno
dei
procedimenti annalistici che rispondevano meglio all’utilizzazione
politica
(cioè alla strumentalizzazione) del passato era la trasposizione di
motivi
politici, di tensioni sociali, di lotte civili o tre i protagonisti di
esse,
nel passato, del quale, non conoscendosi che poche notizie o dovendosi
d’altra
parte riempire i vuoti abbondanti, si leggevano in chiave di storia
contemporanea episodi che col presente avevano qualche somiglianza (e a
distanza
di tre, quattro secoli non poteva esservi più di questo). Accadeva.
così che
episodi o personaggi dei quali si avevano scarne notizie uscissero dai
racconti
degli annalisti rivestiti di panni ‘aggiornati’ e fossero per i lettori
contemporanei
(del I secolo a.C.) facilmente interpretabili come exempla: il
passato sembrava
aver già conosciuto ciò che accadeva allora, e non era senza
importanza, per
une retta interpretazione del messaggio politico, sapere ‘come andava a
finire’.
Esemplare in questo senso era il giudizio formulato da ambienti
oligarchici in
merito all’uccisione dei responsabili di sedizioni interne del passato,
talvolta eliminati senza essere stati prima sottoposti a regolare
processo: iure
caesi: tale espressione era divenuta attuale al tempo della morte
di
Tiberio Gracco e tendeva ad assolvere moralmente i responsabili.
Tito Livio raccoglie nella sua opera, come un vero e proprio
‘bacino collettore’, gran parte delle alterazioni, falsificazioni e
invenzioni
dell’annalistica; il suo modo di procedere è, ciononostante, sicuro
(sceglie
una fonte secondo criteri di ampiezza e chiarezza, in base alle propria
esperienza di affidabilità, e la segue per un tratto più o meno lungo)
ma anche
prudente (riferisce spesso versioni discordanti dalla principale o
esprime un
giudizio personale sulla attendibilità della tradizione) (2).
Quanto è stato detto fin qui, se da une parte dimostra quanta
prudenza sia necessaria per affrontare una lettura critica del
materiale
storico di provenienza annalistica (soprattutto le narrazioni di Tito
Livio e
di Dionigi d’Alicarnasso, ma anche di altri autori come Plutarco e
Cassio Dione,
quest’ultimo per la parte iniziale, frammentaria) – mentre accade
spesso che
chi legge gli storici di Roma arcaica non si ponga sufficienti domande
di
fronte al loro contenuto storico (è la tendenza dell’ipocriticismo) –
dall’altra
non giustifica neppure un atteggiamento di scetticismo sistematico –
sempre
distruttivo – verso di essi (il cosiddetto ipercriticismo, del quale
non mancano
esempi e che talvolta – non di rado – genera interpretazioni
ingiustificate, ad
esempio ‘mitiche, di episodi del passato). Per leggere Livio e gli
altri autori
che presentano problemi di interpretazione analoghi occorre vagliare
attentamente
le notizie riferite, dimostrando prima che esse sono infondate
storicamente e
poi cercando eventuali spiegazioni di esse, che possono trovarsi
nelle
cause alle quali sopra si è fatto cenno; lavoro, questo, non facile per
più di
una regione: il materiale di confronto non è ampio, è anch’esso di
difficile
interpretazione, spesso non consente che labili raffronti e,
soprattutto nella
fase attuale di intensa ricerca archeologica, si presenta in certo modo
in
fieri (solo raramente i risultati possono dirsi consolidati e
definitivi). Tra
quanti negli ultimi anni hanno affrontato il ‘pianeta’ Livio – si passi
questa concessione
ai mores publicitarii – emerge per singolare conoscenza e
rigore critico,
ma soprattutto per buon senso ed equilibrio, l’opera di R. M. Ogilvie,
al quale
si devono un commento ai primi cinque libri dell’opera liviana (3), una nuova
edizione critica di essi per i tipi della Bibliotheca Oxoniensis e,
tra le
altre cose, una sintesi ora in traduzione italiana Le origini di
Roma (4).
Detto questo, veniamo al libro VI delle Storie liviane:
esso, per i temi che vi sono trattati – soprattutto la sedizione di
Manlio
Capitolino, che occupa i capp. 11 e 14-20, e che costituisce l’oggetto
precipuo
di questa indagine – si rivela, ad una lettura condotta secondo i
criteri
esposti sopra, paradigmatico sia della tecnica compositiva liviana che,
soprattutto,
di quelle. dell’annalistica del I secolo a.C. L’ampiezza e le
trasparenza del
racconto permettono di riconoscere la temperie politica scelta come
modello per
le narrazione, i protagonisti che vi sono adombrati e, dal modo usato
per descriverli,
anche l’orientamento ideologico delle fonti (o utilizzato dalle fonti)
di
Livio. Vi si riconosce altresì una consistente unità, ma – è da
osservare – ‘duplice’:
è unitario il cap. 11, nel quale è anticipato lo svolgimento
dell’intera vicenda
di Manlio e sono esposti sinteticamente i temi portanti di esse – adfectatio
regni, transitio ad plebem, magna vis aeris alieni –
ma sono sostanzialmente
unitari nel loro sviluppo e nella loro complessità di tesi e di
tendenze anche
i capp. 14-20.
Come si osserva per altri episodi del periodo arcaico (5),
l’elaborazione ‘aggiornata’ delle vicende di Manlio ad opera
dell’annalistica
del I secolo sec., alla quale l’episodio offriva vasto campo d’azione,
contribuì a cristallizzarne il contenuto, cosicché la narrazione
liviana
rispecchia la versione definitiva: quanto essa si discosti dal nucleo
originale
della Manliana seditio si può misurare facilmente considerando
che Diodoro,
il quale nonostante le carenze imputategli della critica moderna
conserverebbe,
secondo il Mommsen ed altri dopo di lui, la tradizione più antica (a
noi nota) relativa
a numerosi episodi dell’età arcaica, di M. Manlio (XV 35, 3) ricorda
soltanto
che ἐπιβαλόμενος τυραννίδι καὶ κρατηθεὶς ἀνῃρέθη. Per evitare di dilungarmi su aspetti non
trascurabili ma meno evidenti, mi liniterò a trattare quelli che ei
prestano meglio
a rappresentare un paradigma d’indagine; anche la discussione in merito
ad essi
è sintetica e fa riferimento, nel caso, a trattazioni più ampie e
particolareggiate (6). Dopo aver
inquadrato brevemente l’episodio e descritto
alcuni particolari relativi alle origini di Manlio (patriciae gentis
vir et
inclitae famae: 11, 2) e al suo carattere (nimius animi: 11,
3; vitio
quoque ingenii vehemens et impotens: 11, 6), Livio racconta che primus
omnium ex patribus popularis factus [Manlius] cum
plebeiis
magistratibus consilia communicare; ... non contentus agrariis legibus,
quae
materia semper tribunis plebi seditionum fuisset, fidem moliri coepit
... Et
erat aeris alieni magna vis (11, 7-9). Se alcuni particolari del
racconto –
espressioni come allicere ad se plebem, aura (sott. popularis),
fameque
malae malle quam bonae esse (11.7) – sono da coneidorere
‘political clichés
of the late Republic’ (7) e
sortiscono
l’effetto di ambientare ‘ideologioenente’
gli eventi nel clima del I secolo, altri – come l’ostilità di Manlio
verso i principes,
termine la cui connotazione anti-popularis non ammette eccezioni
(8) – non
sono casuali ma contribuiscono e suggerire la figura di Catilina come
il modello
più probabile della descrizione di Manlio. Ancor più significativa al
proposito
è l’affermazione di Livio che Manlio sarebbe stato il primo fra i patres
a passare dalla parte dei populares (vd. sopra): dunque, un
patrizio – come
in realtà patrizia era la gens Manlia – orgoglioso e di natura
violenta,
che lascia i patres per passare ai populares. Popularis
è
termine non equivocabile: esso riconduce ancora al I secolo a.C. e
comunque a
non molto tempo prima di Mario. Sebbene un iter politico di
questo tipo
sia stato, a prima vista, comune a diversi esponenti populares
(ad es., Gaio
Gracco e Apuleio Saturnino), l’appartenenza di Manlio al patriziato
comporta
con tutta probabilità che il passaggio ai populares, per
risultare
politicamente utile, fosse preceduto da una transitio ad plebem,
cioè da
un cambiamento di stato: questo avrebbe consentito di rivestire il
tribunato
della plebe, e ciò dava. significato, cioè rendeva politicamente utile,
un
passaggio ai populares di un esponente del patriziato,
tradizionalmente
conservatore e attestato su posizioni di resistenza ed oltranza alle
mene dei populares.
Prima della vicenda sediziosa imperniata su M. Manlio la tradizione
liviana – pressoché l’unica in merito – riferisce di tre casi di transitio
ad plebem: nel 448-7 (Sp. Tarpeius e A. Aternius),
nel 439 (L.
Minucius) e nel 401 (C. Lacerius e M. Acutius).
Tutti e tre
si dimostrano, per motivi diversi, non attendibili: essi appartengono
alle
pseudo-storia e sono probabilmente da collegare al desiderio di
motivare o di valorizzare
la lex Trebonia, che disponeva che l’elezione dei tribuni delle
plebe continuasse
finché fosse completato il collegio con dieci membri eletti; oppure
all’orgoglio
gentilizio della gens Minucia (nel caso del 439). Ma il primo
caso di transitio
ad plebem accertato e che coincise col passaggio alle parte dei populares
è quello di Sulpicio Rufo, tr. pl. nell’88 a.C.; in seguito si
ha notizia
della transitio ad plebem di P. Clodio Pulcro e di P. Cornelio
Dolabella:
sia Sulpicio che gli altri due rivestirono il tribunato subito dopo
essere
entrati a far parte della plebe.
Gli avvenimenti dell’88 a. C. dei quali Sulpicio Rufo fu
protagonista furono di una gravità senza precedenti: i suoi
provvedimenti
legislativi provocarono disordini intestini, e la marcia su Roma di
Silla alle
testa delle truppe che si apprestavano a partire per l’Oriente si
concluse con
una repressione durissima (tra l’altro il Senato deliberò che Sulpicio
e altri
undici fossero dichiarati hostes). Il ricordo di questi
avvenimenti
dovette pesare sul ricordo dei contemporanei e aiuta a comprendere lo
sviluppo partigiano
dato dell’annalistica del tempo, pressoché tutta di orientamento
filo-oligarchico,
a episodi remoti di sedizione, già noti e perciò più facilmente
assimilabili.
Sebbene Sulpicio Rufo non facesse parte del Senato (ne avrebbe
fatto parte, in virtù del plebiscito Atinio, dopo essere uscito di
carica), ciò
che Cicerone racconta di lui nel de har. resp. 20, 43: Sulpiciun
ab
optima causa profectun Gaioque Iulio consulatum contra leges petenti
resistentem...,
lo indica come un genuino rappresentante dell’oligarchia, di coloro
cioè che si
consideravano i veri esponenti della classe senatoria, dei patres,
e ciò
spiega a sufficienza l’espressione liviana ex patribus.
Resta ancora da aggiungere che l’episodio di Sulpicio Rufo dovette
rappresentare il precedente di
una transitio ad plebem finalizzata ad una manovra
anti-oligarchica: di
qui l’invidia che da allora avrebbe accompagnato una simile
scelta.
E’ possibile avanzare l’ipotesi che l’annalista al quale è
da attribuire l’anticipazione degli eventi dell’88 nella vicenda di M.
Manlio –
si parla naturalmente della presunta allusione alla transitio ad
plebem di
Sulpicio Rufo che si può riconoscere nel cap. 11 – sia Claudio
Quadrigario: così
induce a ritenere l’analogia col fr. 8 Peter di Quadrigario (relativo a
M. Manlio)
nel quale sembra ancora Sulpicio Rufo ed essere richiamato (9).
Se le ragioni sin qui addotte possono giustificare il
rifiuto della notizia liviana ex patribus popularis factus, non
si può
dire altrettanto per un motivo presente nel cap. 11, che assume
importanza ancora
maggiore nei capp. 14-20: la vis aeris alieni. Il problema dei
debiti
arrivò ad un punto di gravità mai raggiunto prima al tempo del
consolato di Cicerone,
tanto che lo slogan politico più sfruttato da Catilina fu la
cancellazione dei
debiti (tabulae novae): Catilina era sicuro in tal modo di
andare
incontro alle speranze dei più. In effetti, come si preciserà anche più
avanti,
la componente ‘catilinaria’ è presuntissima nella svolgimento dei capp.
14-20 così
da rappresentare l’elemento unitario di essi e richiamando – ritengo –
in modo
lampante l’opera di Sallustio (non solamente la Congiura, ma
anche le Historiae; non solo l’intonazione e il
contenuto, ma
anche l’impianto narrativo e il succedersi degli avvenimenti).
Tuttavia, la questione
dei debiti è molto sentita anche in età arcaica e non è solamente
un problema romano: il nexum (la prigionia per debiti) è
contemplato dalle
leggi delle XII Tavole (tab. III) (10);
inoltre, anche le circostanze storiche,
come la necessità di ricostruire la città dopo la distruzione ad opera
dei
Celti (cf.: re damnosissima etiam divitibus aedificando contracta:
11, 9),
possono spiegare la vis aeris alieni al temo di Manlio;
problemi
analoghi sono noti alla Costituzione soloniana. La legge Postelia
Papiria provvide
(tra il 326 e il 313 varroniani) ad abolire o almeno ad attenuare di
molto la
schiavitù per debiti.
Questo problema può aver costituito un trait-d’union assai forte
tra il malato storico nel quale la tradizione collocava la Manliana
seditio e
l’anno 63, quando, secondo Cic., de off. II 24, 84: numquam
vehementius actum est ... ne solveretur.
Nei capp. 14-20, prendendo l’avvio dalla questione dei
debiti – l’episodio del centurione iudicatus e addictus
è comunque
un topos letterario – subentra lo schema narrativo dell’adfectatio
regni, modellata sull’esempio più noto di essa: il tentativo di
Catilina
(e, naturalmente, sul racconto più celebre: quello di Sallustio); se i
debiti
possono aver rappresentato uno sfondo storico comune alle vicende sia
di Manlio
che di Catilina, l’adfectatio regni era l’unica accusa mossa a
Manlio – secondo
la. tradizione più antica, come si è detto – per la quale egli fu
condannato e
ucciso. Seguendo questa direttrice – aes alienum e adfectatio
regni
– la narrazione di Livio si arricchisce di particolari che precisano
ancor più l’identificazione
del modello sia storico (Catilina) che narrativo (Sallustio) per
l’episodio di Manlio.
Così la superbia patrum, la crudelitas feneratorum,
le miseriae
plebis (14, 3) richiamano termini ed espressioni pressoché identici
di Sall. Cat. 33, 1; 33, 3; 40, 3; 35, 3; cf. Hist.
III 48; sia Manlio che
Catilina sono presentati entrambi accompagnati da guardie del corpo
(Liv. VI
14, 3 e Sall. Cat. 14, 1; cf. Plut. Mor. 35, 2
relativamente a Sulpicio
Rufo, e Cat. 26, 4 relativamente a Cicerone); l’opposizione
plebea e la sua
lotta per le libertà richiamano da vicino i temi della oratio
Lepidi e della oratio Macri (Hist. I 55; III 48
Maurenbrecher). Perfino la successione
degli eventi nelle ultime fasi preparatorie della seditio di
Manlio è la
stessa del racconto di Sallustio relativo alle riunione dei congiurati
catilinari
nell’imminenza dell’esecuzione del piano eversivo.
Nel cap. 14 compaiono anche motivi ‘cesariani’: liberator di
14, 5 richiama inequivocabilmente Cesare (che se lo
attribuì dopo il 49)
e le propaganda cesariana, in particolare il tema popolare della vindicatio
in libertatem (cf. Imp. Aug. Res Gestae I 1).
I capp. 15 e 16 presentano ancora richiamo al fenus (15,
8) che evocano ancora reminiscenze ciceroniane; vi si colgono anche
frammentari
richiami catilinari (arbitrio inimicorum: 16, 1; cf. Sall., Cat.
31, 9; 34. 2) frammisti a brani di polemica anti-sillana (16, 5), a
testimoniare il carattere assai composito di questa parte delle
narrazione liviana.
Il cap. 17 richiama più da vicino temi presenti nelle Historiae
sallustiane, in particolare nella oratio Macri, come l’ignavia
della
plebe, e netta è l’intonazione filo-popularis; tutto
questo sembra
logicamente riferibile a fonte anti-oligarchica e si potrebbe avanzare
l’ipotesi
che essa sia da identificare con Licinio Macro.
Col cap. 18 le somiglianze tra il racconto liviano e la sallustiana Congiura,
in particolare il cap. 20 di queste,
divengono più numerose e
sensibili. Lo stato d’animo di Manlio (iram accenderat ignominia
recens in
animo ad contumeliam inexperto: 18,4) è lo stesso di Catilina in
seguito alla
dichiarazione di indignitas dell’a. 63 in Sall., Cat.
35, 3; cf. 31,
7. Anche l’esordio della lunga esortazione rivolta da Manlio alla plebe
è
inconfondibile: quousque tandem di 18,5 richiama Sall. Cat.
20, 9
ed entrambi i passi riproduoeno l’inizio delle I Catilinaria
ciceroniana, e testimoniano,
probabilmente, come l’espressione avesse avuto diffusione popolare.
L’esortazione di Manlio svolge il tema della libertà,
imperniato sull’antitesi libertas ~ dominatio, prevalente –
ancora una
volta – tra i temi sallustiani nei passi di maggior impegno civile sia
della Congiura
(20, 6; 20, 14; 58, 11) che delle Historiae (I 55, 6; 26 sg.;
III 48, 3;
4; anche 48, 12; 19; 28): dominatio e libertas sono le
due facce
di un altro tema propagandistico di parte popolare, la vindicatio
in
libertatem. Altri ancora sono i punti di contatto fra il racconto
di Livio
e quello di Sallustio. Si pone, naturalmente, anche un problema di
dipendenza: se,
come pare, in Livio sono confluiti anche temi ed espressioni provenienti
dalle Historiae
sallustiane, bisogna considerare il 35 a.C., anno della morte di
Sallustio –
che alle Historiae lavorò fino alla fine della vita – come il
termine post
quem per datare la fonte intermedia utilizzata. da Livio per
l’episodio di
Manlio; come si vede, essendo la composizione del libro VI databile fra
il 25 e
il 20 a.C., resta un margine di tempo assai ridotto entro il quale
collocare l’opera
annalistica dalla quale Livio ha tratto il suo materiale e ciò deve
essere avvenuto
poco tempo dopo che essa era stata scritta; l’unico annalista che
‘risponde’ a
tali indicazioni cronologiche è Elio Tuberone, di certo il più giovare
tra
quelli nominati da Livio, e del quale si è gia ipotizzato, sulla base
della
probabile attribuzione di frammenti adespoti, che abbia scritto negli
anni ‘trenta’
prima di Cristo.
La conclusione del cap. 18 introduce l’adfectatio regni
di Manlio, che sarà svolta nel capitolo seguente, ma con un corredo di
notizie
palesemente anacronistiche – Senatus consultum ultimum e
dichiarazione
di hostis per Manlio: tipici elementi di I secolo – sebbene
essa.
rappresenti l’unica accusa sicura, almeno tradizionalmente, mossa a
Manlio e
per la quale fu giudicato e ucciso. (Livio, a 20, 4, esprimerà comunque
la sue.
perplessità non trovando alcuna prova. del crimen regni tra le
accuse
rivolte a Manlio dei suoi accusatori).
Nel cap. 19, accanto a motivi già noti, è presente il tema dei iure
caesi, di cittadini, cioè, cagione di mali per
l’intera
cittadinanza ed eliminati in modo sommario: Magna pars vociferantur
‘Servilio Ahala opus esse, qui non in vincla duci iubendo inritet
pòublicum
hostem, sed unius iactura civis finiat intestinum bellum’ (19, 2).
Il collegamento con le vicenda di Catilina è trasparente: Servilio
Ahala evoca l’episodio di Spurio Melio,
al quale Catilina fu avvicinato; ma, indirettamente, vengono richiamate
anche
le conseguenze subite da Cicerone, ad opera di Clodio, per aver
eliminato
alcuni congiurati privandoli arbitrariamente del diritto di provocatio
(come
aveva fatto Servilio Ahala con Sp. Melio).
Il collegamento con gli eventi dell’anno 63, costantemente osservato,
indica che accanto e quelli del 133 (anno del tribunato di Tiberio
Gracco) e dell’88
(tribunato di Sulpicio Rufo), l’annalistica ebbe presenti i fatti del
63: è
questo m criterio non secondario per stabilire il termine post quem
– in
questo come in altri casi di narrazione di provenienza annalistica –
almeno per
escludere certe possibili attribuzioni se non per individuare quella
giusta.
Inoltre, la. presenza di certi temi apre uno spiraglio su alcune
problematiche d’attualità
che l’annalistica involontariamente ci fa conoscere attraverso la
(pseudo)
storia arcaica: così., ad esempio, è per i iure caesi, come si
è visto,
e anche per il Senatus consultum ultimum, presentato
positivamente nel cap. 19, che è senz’altro di intonazione
filo-ottimate e
quasi ‘ciceroniano’. Nell’anno 63 era scoppiata una polemica. intorno
al S.C.U. orchestrata ed arte da Cesare, che ne contestava la
legittimità e quindi la
validità. Fu incriminato un anziano cavaliere romano, G. Rabirio, che
trentasette anni prima avrebbe concorso nell’uccisione di Apuleio
Saturnino
dopo che il Senato aveva proclamato il Senatus consultum ultimum.
L’evidente
pretestuosità non impedì che si cogliesse il bersaglio, cioè il Senato.
Di
tutto questo siamo ben ragguagliati dell’orazione pro C.
Rabirio perduellionis
reo, che Cicerone pronunziò in quell’occasione.
Per concludere veniamo al cap. 20. Esso appare meno
elaborato alle luce della vicenda catilinaria ma contiene due notizie
che si
rivelano, per altre vie, del tutto attendibili. La prima, di carattere
pubblico,
riguarda il divieto fatto ai petrizi di abitare sul colle capitolino (arx
et
Capitolium). Grazie alla conoscenza dell’onomastica romena è
dimostrabile
che a, partire della metà del IV secolo a.C. Capitolium che,
nonostante
quanto credeva lo stesso Livio (V 31,2), non è cognomen
ex virtute bensì ‘geografico’ – non
compare praticamente
più: ciò conferma che nessun patrizio (e nemmeno plebeo) abitò più sul
colle
capitolino. Questo tuttavia non sarebbe seguito alle Manliana
seditio, ma
sarebbe conseguenza di un provvedimento urbanistico che aveva le
funzione di liberare
dalle abitazioni civili quel luogo, destinato ad area sacra.
Con la seconda, di carattere gentilizio, fu deliberato dalla gens
Manlia che più nessun membro di quella gens
avesse come praenomen Marco e, in effetti, non ci è noto più
alcun Manlio che
portasse quel praenomen (11).
Nell'immagine: Marco
Manlio fatto precipitare dal Campidoglio, affresco di Domenico
Beccafumi,
1529-1535, Palazzo
Pubblico (Siena).
NOTE
(1)
Vd. H. Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, I2,
Leipzig 1914 = 1967, pp. cclxxv-ccciv, 205-237 (Quadrigario);
cccv-cccxxxii;
248-275 (Anziate); cccl-ccclxv;
298-301 (Licinio Macro); ccclxvi-ccclxxiii;
308-312 (Elio Tuberone);
P. O. Walsh, Livy. His Historical Aim and Method, Cambridge
1961, pp. 110-137;
R. M. Ogilvie, A Comentary on Livy, Books 1-5, Oxford
1978 =
1970, pp. 5-17.
(2)
Walsh, Liv., cit., pp. 138-190. La bibliografia
generale e specifica in proposito è vastissima: per un orientamento si
vedano:
H. Kissel, Livius 1933-1978: Eine Gesamtbibliographie, in
«A.N.R.W.» II
30,2, Berlin-New York 1982, pp. 899-997; J. E. Phillips, Current
Research in
Livy’s First Decade: 1959-1979, ibid., pp. 998-1057. Tra i più noti
lavori
sulla storiografia classica si vedano i saggi contenuti nei Contributi
alla
storia degli studi classici e delmondo antico, Roma 1955 (I) - 1984
(VII),
di A. Momigliano. Inoltre E. Gabba, True History and False History
in
Antiquity «JRS» LXXI (1981), pp. 50-62; Id., Letteratura,
in AA.VV., Le basi documentarie della storia antica, Bologna
1984, pp. 11-83.
(3)
Vd
nota. 1.
(4)
Bologna, Il Mulino, 1984.
(5)
Ad
esempio, quello di Sp. Cassio, Sp. Melio, Appio
Erdonio, ecc.: riferimenti in Valvo, op. cit. (nella n. 6),
passim.
(6)
Per
questo o ciò che segue vd. A. Valvo, La sedizione
di Manlio Capitolino in Tito Livio, «MIL», Cl. Lettere-Sc. Mor. e
Stor.,
XXXVIII 1, Milano 1983, pp. 5-64.
(7)
Ogilvie, Commentary, cit., p. 457.
(8)
Sulla terminologia caratteristica delle fazioni in Roma in
età repubblicana. vd. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des
relations et
des partis politiques sous la République, Paris 1972.
(9)
A.
Valvo, Manlio Capitolino in Claudio Quadrigario
(fr. 8 Peter), «MGR» VII, Roma 1980, pp. 311-324.
(10)
Fontes
Iuris Romani Antiqui, edd. 7
Bruns-Gradenwitz, pp. 20 sg.
(11)
A. Valvo, Il cognomen Capitølinus in età repubblicana
e il sorgere del1’area sacra sull’arce e il Campidoglio, «CISA» X,
Milano
1984, pp. 92-106.
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