Perché
la versione
serve a un fisico
Michael Hugo
Leiters è un tipo tosto. Di quelli che ti guardano diritto negli occhi,
senza sorridere. È tedesco, ed è un manager della Ferrari. È il
responsabile della tecnologia, uno dei settori più importanti per le
aziende che producono i costosissimi gioielli a quattro ruote. Leiters
ha lavorato per anni alla Porsche e conosce molto bene l’ambiente delle
supercars. Siamo a Maranello, nel palazzo della direzione. L’ edificio
segue un bel disegno pulito di Fuksas; ma ti stupisce appena sali una
rampa di scale e trovi il laghetto zen, una distesa di acqua e ciottoli
di fiume, che occupa tutto il primo piano. Mi dicono che è stato fatto
per favorire la meditazione e la visione strategica dei dirigenti
dell’azienda fondata dal burbero e visionario Enzo. A fianco la
galleria del vento disegnata da Renzo Piano, più avanti, fra i
vialetti, le avveniristiche linee di produzione da cui escono una
trentina di 8 o 12 cilindri al giorno.
Mi hanno chiamato qui, a fine
luglio, perché vogliono mettere a
confronto il lavoro di una scienziato del Cern con quello di un top
manager della compagnia. L’intervista doppia procede con fluidità. Man
mano che scorre la conversazione si scopre che i punti di contatto fra
le due attività sono molti, taluni davvero inaspettati. Gli scopi sono
assolutamente diversi. I nostri obiettivi sembrano talmente astratti da
rasentare la filosofia: scoprire l’ origine della materia oscura o
capire la fine che farà il nostro universo; i loro sono quanto di più
concreto si possa concepire: vendere macchine in un mercato altamente
competitivo. Ma per entrambi l’innovazione e la tecnologia sono
componenti essenziali, quelli che possono determinare quella sottile
differenza che ti può consegnare un successo clamoroso o far
precipitare nella peggiore delle catastrofi.
Lavoro di squadra, passione,
amore per il rischio, cura quasi paranoica
del più insignificante dei dettagli sono tutte cose che ci accomunano.
Si sente che facciamo parte di una pattuglia di gente che respira la
stessa aria sottile e pericolosa.
Alla fine l’ atmosfera è
talmente cordiale che passeggiando intorno al
laghetto zen, Leiters si scioglie e mi racconta della sua formazione ad
Aachen, al Fraunhofer Institute, uno dei centri di tecnologia più
avanzati della Germania. E qui scatta il miracolo. Mi basta citare
l’emozione che ho provato nel toccare il trono di Carlo Magno, tuttora
conservato nella Cappella Palatina della vecchia Aquisgrana, che gli
occhi del mio interlocutore si illuminano. E mi racconta con fervore
del Sacro Romano Impero, e della sua passione per il latino che ha
segnato indelebilmente la sua formazione classica. Ne nasce un’altra
ora di conversazione fuori dal protocollo, in cui discutiamo dei
Germani di Tacito, così diversi da quelli di Cesare del De bello
Gallico.
E solo l’ultimo, in ordine di
tempo, di una serie di esempi illustri.
Nel mondo della ricerca scientifica più avanzata conosco moltissimi
colleghi che hanno avuto una formazione classica. La mia amica Fabiola
Gianotti, tanto per citare un nome famoso. Ma si trovaun sacco di gente
che non ha dimenticato come si traduce dal greco e dal latino e che è a
capo di grandi aziende, o, come Leiters, a dirigere entinaia di
ingegneri impegnati nelle tecnologie più avanzate.
Mi viene spesso da sorridere
quando sento dire, da persone che
solitamente non capiscono nulla di scienza e di tecnologia, che per
imboccare con decisione la via dell’innovazione il nostro paese
dovrebbe ridurre il peso e l’importanza degli studi classici.
Con questa motivazione qualche
grigio funzionario del ministero
vorrebbe addirittura abolire le traduzioni dal greco e dal latino al
liceo classico. Follia pura.
Nel mondo della ricerca dura,
quella segnata dalla più feroce
competizione internazionale, lavorano moltissimi scienziati che hanno
scelto di fare fisica proprio perché hanno fatto studi classici.
Persone che non solo adorano greco e latino, ma spesso conoscono
l’italiano, amano discutere di storia o di filosofia e sono
appassionati d’arte. Come dice Semir Zeki, neuroscienziato
dell’University College di Londra: «Il cervello non distingue tra
cultura umanistica e scientifica».
Cos’è che rende gli studi
classici così adatti a formare la base per
una preparazione scientifica d’eccellenza. Non è solo il rigore che
richiedono e neanche l’ampiezza della formazione culturale che ti
danno. Tutti ingredienti essenziali per attività che ti spingono ad
allargare lo sguardo per esplorare sentieri mai battuti.
Prendiamo proprio la traduzione
dal greco e dal latino. Sei lì che
combatti con il vocabolario per cercare di dare un senso compiuto ad un
gruppo di frasi e ti sembra di avere trovato la chiave. Soltanto che
non riesci a sistemare un piccolo, infimo dettaglio. Ed ecco che di
colpo, per risolvere l’incongruenza, dovrai capovolgere tutto e
abbandonare definitivamente quella che un istante prima ti sembrava
un’ipotesi molto ragionevole. È la logica, bellezza, è tutto soltanto
questione di logica. Non saprei trovare un’attività più vicina al
lavoro scientifico concreto che viviamo quotidianamente. Capita molto
spesso, in fisica, che per accomodare un piccolo particolare,
apparentemente insignificante, siamo costretti ad abbandonare la
congettura che ci aveva guidato fino a quel momento. E ogni tanto,
questo stesso meccanismo apre le porte ad un nuovo paradigma.
Una ragione in più per studiare
in profondità il mondo classico, greco
e latino, per conoscere le civiltà che sono alla base del nostro mondo
e capirne le dinamiche che tutt’oggi lo attraversano.
(Da Il Sole 24 ore, 15 ottobre
2017)
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