A proposito dell'insegnamento del latino
di Giorgio Israel
Giorgio Israel è professore di Matematiche complementari alla
Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università "La Sapienza"
di Roma.
(Libero, 18 ottobre 2008)
«From Plato to Nato». Da Platone alla Nato. Come ricordava un
collega americano, questo era uno slogan con cui gli intellettuali radicali
degli anni sessanta indicavano nell’esaltazione della cultura occidentale le
radici dei “misfatti” dell’imperialismo. Lo studio dei classici della cultura
occidentale è stato una vittima dei movimenti radicali statunitensi che
l’identificò come un fattore criminogeno corresponsabile della guerra del
Vietnam. C’è chi ha cavalcato sapientemente questa demagogia per fare a pezzi i
centri di studio filologico della tradizione umanistica occidentale. Basta
leggere l’ultimo libro dell’intellettuale palestinese-statunitense Edward Said,
Umanesimo e democrazia (2004). Said descrive cosa fu per un secolo la
leggendaria Columbia University, dove si studiavano i grandi testi
dell’umanesimo occidentale, da Omero a Sant’Agostino e Dante. Egli ironizza
sulla «grande esperienza» della lettura della Divina Commedia, «simile alle
nostalgie dei vecchi campeggiatori estivi per i tempi in cui scalavano il monte
Washington» e racconta le sue battaglie per imporre una visione dell’umanesimo
che accantonasse il riferimento primario alle radici occidentali. Del resto, in
stile “From Plato to Nato”, Said affermava che la CIA, in quanto aveva sostenuto
la necessità della lotta contro il totalitarismo in nome della democrazia
occidentale, aveva contribuito a diffondere quella visione dell’umanesimo e
aveva favorito «il consenso nei confronti dell’erudizione». Era giunto il
momento di ridurre l’importanza attribuita al mondo greco e latino e di dire che
il ruolo degli ebrei nella Bibbia era stato marginale. Va detto che Said è
riuscito nei suoi intenti, se si pensa a quel che è oggi la Columbia University,
centrale del multiculturalismo terzomondista e dell’odio di sé dell’Occidente.
Quanto precede per sottolineare che siamo di fronte a una svolta importante –
qualcuno dirà, finanziata dalla CIA… – se lo studio del latino, e persino del
greco, sta esplodendo negli USA e si sviluppa un nuovo interesse per la cultura
dei padri europei, per la “nostra” cultura. Non si tratta di un interesse
linguistico astratto – cosa se ne farebbero tanti giovani di una lingua morta? –
quanto della riscoperta dei fondamenti culturali su cui è nata la società
americana. Se una società è viva non può astenersi a lungo da un simile
interesse, senza che questo implichi disprezzo o disinteresse per le culture
degli “altri”. Inoltre, il latino e il greco ci riavvicinano anche alla cultura
scientifica non soltanto perché i grandi testi classici sono scritti in quelle
lingue, ma perché il latino è stato la lingua della scienza occidentale fino al
Settecento e chi sfogli i dialoghi di Galileo troverà che le dimostrazioni sono
scritte in questa lingua “morta”.
Ho voluto sottolineare questo aspetto perché esso è almeno altrettanto
importante di quello di cui più si parla, e cioè della grande funzione educativa
che ha il latino (e il greco) come palestra mentale, per l’esercizio delle
funzioni logiche, per la consuetudine a manipolare le strutture sintattiche e
grammaticali che, a sua volta, stimola anche la capacità di studiare le materie
scientifiche e, in particolare, la matematica. Tutti ricordano i celebri brani
di Gramsci dedicati alla funzione educativa del metodo analitico usato nello
studio del latino. Si ricordano meno alcuni passaggi che farebbero rizzare i
capelli in testa ai più accaniti postcomunisti antioccidentali, in cui Gramsci
sottolineava l’importanza del latino e del greco per “essere se stessi”: «Non si
imparava il latino e il greco per parlarli… Si imparava per conoscere
direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà
moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente». E
denunciava come degenerazione della scuola il prevalere di un approccio
professionale e pratico su quello formativo e «immediatamente disinteressato»:
«L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene
predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare
le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi». Sono frasi che
andrebbero rilette ogni mattina dai fautori della scuola delle “competenze”
contro quella delle “conoscenze”, intesa come conquista della modernità e che
invece conduce allo sfacelo, poiché anche la scienza, se viene privata della sua
linfa teorica, è destinata alla decadenza. Ritengo che Gramsci non capisse gran
che di scienza, ma la sua immagine della scuola basata su un approccio culturale
disinteressato era molto più moderna di quella di chi pensa che la scienza debba
essere “ricostruita” dagli studenti pasticciando nei laboratori scolastici senza
basi conoscitive.
È da augurarsi che quanto accade negli USA sia tenuto in conto da chi sta
sconsideratamente meditando di tagliare lo studio del latino e addittura di
abolirlo dai licei scientifici. È un atteggiamento tanto più sorprendente in chi
crede nell’importanza di valorizzare le radici della cultura occidentale.
Il nostro paese ha il vizio di adottare certe innovazioni in ritardo e quando si
è dimostrato che non funzionano. Si vuol mettere un computer per classe mentre
negli USA li tolgono in quanto dannosi. Insistiamo sulla pedagogia
dell’autoformazione mentre nello stato americano di punta sul piano scolastico –
il Massachusetts – la stanno sbaraccando. Ora si vuol togliere di mezzo il
latino, mentre oltre oceano torna di moda. Di recente qualcuno ha motivato tale
scelta dicendo che “agli studenti il latino non piace”. Con un simile
ragionamento occorrerebbe abolire anche la matematica, e forse alla fine
resterebbe soltanto la ginnastica… È da augurarsi che la vigilanza di chi ha a
cuore la cultura e la scienza come fondamento umanistico di una società degna di
questo nome, blocchi certi propositi sconsiderati forse ispirati dalle alchimie
fasulle della tecnocrazia comunitaria.
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