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L’inizio della storia, la fine della storia nel mito etrusco.

di Alfredo Valvo

 

 

Abstract.

Fra i documenti di accertata origine etrusca che ci sono pervenuti in traduzione latina il più ampio e problematico è la cosiddetta ‘Profezia di Vegoia’. In questo brano, conservato fra i testi degli antichi gromatici (Gromatici Veteres, ed. Lachmann, pp. 350 sg.) e datato dalla maggior parte degli studiosi al tempo della guerra sociale, si minacciano le più tragiche punizioni divine a coloro che sposteranno i segni di confine delle proprietà fondiarie. Si tratta cioè di un documento che riguarda soprattutto la tutela della proprietà privata in tempi di grave rischio per la guerra imminente (91 a.C.). Il testo inizia con una premessa nella quale è riconoscibile la ricostruzione mitica della cosmogonia etrusca e si può ravvisare l’inizio della storia del nomen Etruscum. Al brano di cosmogonia in questione, che presenta analogie col racconto della Genesi e di altre cosmogonie, può essere avvicinato un breve passo di Servio a commento di Aen. IX 561, che sembra integrare il contenuto della ‘Profezia’.
Nella ‘Profezia’ si fa esplicito riferimento alla teoria secolare etrusca, intorno alla quale siamo informati soprattutto da Censorino (De die natali, XVII), ma è presente anche una ‘contaminazione’ con la teoria della successione degli imperi, della quale siamo informati da Emilio Sura (ap. Vell. Pat. I 6, 6).

Tanto Censorino, che assegna dieci saecula al popolo etrusco, quanto la ‘Profezia di Vegoia’, che sembra assegnarne solo otto, sono comunque concordi nel considerare la storia del popolo etrusco ‘lineare’ e ‘a termine’, senza possibilità di proroghe e di palingenesi, come invece avviene per Roma.

Il rischio della fine irreversibile di Roma a seguito delle guerre civili è superabile soltanto attraverso l’espiazione dello scelus che ne ha messo a rischio la sopravvivenza. E’ la pietas romana, in definitiva, che fa la differenza: rende possibile il perdono degli dei, un rinnovato patto con loro (pax deorum) e la ripresa della storia attraverso una nuova Età dell’oro (Virgilio, Orazio).


vegoiaL’invito ad una riflessione sulle fasi marginali della storia, che il tema del Congresso suggerisce, mi ha indotto a rileggere con rinnovato interesse un documento sul quale mi sono ampiamente soffermato alcuni anni or sono: la cosiddetta ‘Profezia di Vegoia’. Devo dire che nella scelta del tema mi sono tornate alla memoria, a titolo di monito ma anche di incoraggiamento, le parole severe di Arnaldo Momigliano sulle scarse attitudini storiche di coloro che ritengono certi problemi ormai risolti, in un certo senso ormai sterili per la ricerca storica. Per questo rimetto mano all’argomento, che a suo tempo mi è parso assai indicativo sulla concezione etrusca della storia, in particolare sul suo inizio e sulla sua conclusione.

1. Gli studiosi di storia etrusco-romana conoscono bene un brano conservato nella raccolta dei Gromatici Veteres, edita dal Lachmann nel 1848 (vol. I, pp. 350 sg.):[1] la cosiddetta ‘Profezia di Vegoia’. Il brano è stato da tempo riconoscuto come la traduzione latina di un testo scritto originariamente in lingua etrusca ed è probabilmente il frammento più ampio della letteratura etrusca conservatoci. Per sottolineare l’importanza del documento ricorderò che i testi più ampi, in lingua etrusca, sono epigrafici: la Tegula di Capua, la tabula bronzea recentemente ritrovata a Cortona[2] e soprattutto il liber linteus di Zagabria, documento noto anche col nome di Agramer Mumienbinde. Si tratta di testi contenenti i primi due, con tutta probabilità, due contratti di vendita, forse fondiaria, e, il terzo, disposizioni sacrali.

Il testo della ‘Profezia di Vegoia’ è assai probabilmente di origine aruspicale, di tenore ostile all’aristocrazia agraria etrusca e sarebbe stato finalizzato alla conservazione dell’ordine, alla tutela della proprietà fondiaria privata in tempi di rivolgimenti politici e sociali profondi, come furono l’anno del tribunato di M. Livio Druso, il 91 a.C., e gli anni immediatamente successivi, quelli della guerra sociale: a questo periodo, secondo J. Heurgon e la maggioranza degli Studiosi, risale il contenuto della ‘Profezia’. Per dare maggior peso all’intimazione di non alterare i confini delle proprietà fondiarie l’anonimo autore, o chi ha disposto i brani all’interno della raccolta di testi gromatici, attribuisce alla ninfa Vegoia, una delle ‘divinità’ del mondo etrusco, popolato da dèmoni e spiriti ignoti alla religione romana, la rivelazione dell’ordine cosmico voluto da Iuppiter, nel quale rientra anche la conservazione dei confini di proprietà (limitatio) e quindi la proibizione di rimuovere i segni di confine (terminatio), pena terribili punizioni divine.

Ciò che conosciamo del diritto etrusco è sostanzialmente questo, oltre a quanto sappiamo da Servio circa l’infrazione del giuramento (di cui parla anche la ‘Profezia’: fallax e bilinguis), punita con l’esilio senza possibilità di ritorno.

Riporto qui le prime righe del testo della ‘Profezia’, che ci riguardano più da vicino:

Scias mare ex aethera remotum. Cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit, constituit iussitque metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam vel terrenum cupidinem, terminis omnia scita esse voluit.[3]

Accenno solo brevemente alla correzione testuale suggerita dal Thulin e dal Latte, che hanno proposto di correggere aethera in e terra: scias mare e terra remotum, correzione rifiutata dal Piganiol, che coglie nella lezione tràdita ex aethera un puntuale richiamo all’analogia tra il fondamento della limitatio, la definizione dei confini, e l’ordine del mondo. Il testo dell’esordio – le prime cinque parole della ‘Profezia’ – riflette probabilmente la conoscenza diffusa di un motivo cosmogonico (e qui si tratta in effetti più di cosmogonia che di origini della storia, anche se, come si vedrà, il quadro è nella sostanza quello dell’inizio e della fine della storia perché, nel mito etrusco delle origini, cosmogonia e storia finiscono ultimamente per identificarsi). Secondo il Piganiol esso non è da collegare necessariamente al racconto del secondo giorno della Creazione del libro della Genesi ma, tuttavia, costituisce probabilmente, anche per il richiamo all’opera ordinatrice di Iuppiter ricordata subito dopo, l’affermazione dell’opera di un demiurgo che abbia posto fine al caos iniziale, come avviene nella tradizione di origine semitica sulle origini del mondo.

In proposito il lessico Suda, sotto la voce Τυῤῥηνία.[4] riferisce una tradizione di origine etrusca relativa alla creazione del mondo nella quale si ricorda che l’Universo è opera di un demiurgo che l’aveva portata a compimento nel corso di sei periodi di mille anni ciascuno (chiliadi), e aveva lasciato altre sei chiliadi di tempo alle generazioni umane μέχρι τῆς συντελείας. Complessivamente si raggiungeva così il numero di dodici chiliadi, sottoposte alle dodici costellazioni. Sebbene il testo della Suda presenti l’opera del demiurgo più come una integrale creazione (ποιῆσαι) e non parli esplicitamente di separazione degli elementi, il Latte considera la tradizione riferita dalla Suda un motivo della tarda religiosità etrusca (per la quale l’idea di creazione non doveva essere del tutto estranea alla cosmogonia) che può confermare la correzione da lui suggerita al testo del Lachmann, mentre il Piganiol, che come si è detto rifiuta ogni correzione al testo, avvicina anch’egli il testo della ‘Profezia’ al racconto della Suda, sebbene qui non si parli esplicitamente di saecula, e ritiene la frase iniziale della ‘Profezia’ una prova della presenza antica nel patrimonio religioso etrusco di una simile concezione, ma riconosce nelle dodici chiliadi del testo della Suda lo schema caldeo della dodecaeterìs, il cosiddetto «anno caldeo», costituito di dodici «grandi anni», su cui è da vedere quanto scrive Censorino, De die natali 18, 6-7: Proxima est hanc magnitudinem, quae vocatur dodecaeteris ex annis vertentibus duodecim. Huic anno Chaldaico nomen est… Sulla questione si è espressa anche M. Sordi che considera il racconto della Suda un «incontro fra teorie etrusche e idee giudaiche e cristiane» ma sicuramente di origine etrusca: infatti, lo schema delle sei chiliadi risponde pienamente alla concezione etrusca della storia, secondo la quale ad ogni popolo e ad ogni individuo era assegnato un tempo definito. In definitiva, il brano della Suda sarebbe da ricondurre al genere delle profezie etrusche e può essere attribuito all’eclettismo dell’aruspicina di tarda età imperiale, che assimilava le idee cristiane più vicine alla disciplina Etrusca.

2. Ritorniamo adesso al testo della ‘Profezia’.

Ciò che segue immediatamente all’esordio, da cum autem Iuppiter… a signarique agros, svolge nella ‘rivelazione’ di Vegoia una duplice funzione. La prima, come naturale conseguenza della rivendicazione da parte di Iuppiter della Terra Etruria dopo la separazione degli elementi, è una implicita rivendicazione delle origini divine del popolo etrusco, in un momento drammatico qual erano i prodromi della guerra sociale (se si accetta la datazione del documento a quegli anni); in secondo luogo, viene attribuito valore divino a limitatio e terminatio perché volute da Iuppiter e perciò poste sotto la sua protezione (si può ricordare l’appellativo di Terminus sotto il quale si venerava l’immagine di Iuppiter nelle proprieà fondiarie e il sacello destinato al culto di Terminus al quale era riservato uno spazio a cielo aperto nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio).

Che la terminatio e quindi l’istituzione o almeno la tutela del diritto di proprietà siano, nel mito, prerogativa di Iuppiter è confermato, in ambito romano, da numerosi Autori latini: Tibullo, Ovidio, Seneca e soprattutto Virgilio concordano nel ricordare che l’età di Saturno – presentata come età dell’oro, quindi primordiale nella successione delle età ‘metalliche’ che simboleggiano il percoroso della storia umana, ed anche il suo deterioramento progressivo (Hes. Op. 106-201) – ignorava ancora i segni di confine e imputano invece all’età di Iuppiter di averli introdotti nell’uso, annoverandoli fra i vizi legati ad avaritia e terrenus cupido. Ovidio, in particolare (Her. IV 131 ss.), indica esplicitamente in Iuppiter il responsabile della fine della vetus pietas: vetus pietas, aevo moritura futuro, rustica Saturno regna tenente fuit. / Iuppiter esse pium statuit, quodcumque iuvaret, / et fas omne facit fratre marita soror.

Un richiamo all’avaritia e terrenus cupido della ‘Profezia’ trova inatteso riscontro in alcuni passi del libro II delle Divinae Institutiones di Lattanzio (Div.Inst. VII 15, 7 sgg.; 16,1, 5 sg., 11; 18, 2, cfr. Epit. 66 [71], 1 sg.), in uno dei quali si menziona esplicitamente come fonte (gli Oracoli di) Hystaspes,[5] imperniati sull’iniquitas saeculi extremi, in un contesto di vizio e di peccato assai prossimo a quello della ‘Profezia’, ed anche per questo avvicinabile all’avaritia prope novissimi octavi saeculi: ad esempio, a 15, 7 sg.: humanarum rerum statum commutari necesse est et  in deterius nequitia invalescente prolabi; iniquitas et malitia usque ad summum gradum crevit; avaritia et cupiditas et libido crebrescet; confundetur omne ius et leges interibunt; audacia et vis omnia possidebunt. Si tratta probabilmente di topoi legati all’escatologia che fa da sfondo ad ogni fine ma che nella P.d.V. non ha un ruolo marginale o topico bensì funzionale alla dottrina ‘secolare’ etrusca, come sappiamo ancora da Censorino (De die natali, 17, 5-6), la fonte più ampia, che dipende, tramite Varrone, dalle Tuscae Historiae, che assegnavano al nomen Etruscum la durata di 10 saecula; come sappiamo da un passo di Plutarco della Vita di Silla, contemporaneo alla ‘Profezia’, e da una notizia proveniente dal De vita sua di Augusto, conservata da Servio (Danielino) ad Verg. Buc. IX 46 (= H.R.R. II p. 56): Vulcatius aruspex in contione cometen esse [i.e. sidus Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi. Sed quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit.[6]
 

3.Si è detto dell’insistenza dei poeti, soprattutto augustei, sull’istituzione dei segni di confine come la conseguenza che caratterizza di più la fine dell’età di Saturno – età dell’oro, ‘mitica’ età felice che il regno di Augusto prometteva di rinnovare; essa rappresenta un tema da rileggere alla luce del disegno augusteo di costruire un impero universale, nel quale non ci sarebbero state più divisioni né barriere ideologiche e neppure segni di confine a indicarle. 

Il contrasto fra la ‘Profezia di Vegoia’, nella quale la terminatio è rivestita della più alta p o s i t i v i t à, e i passi dei poeti augustei, nei quali l’età di Saturno è simbolicamente identificata dall’assenza dei segni di confine, che perciò rivestono un carattere di esemplare n e g a t i v i t à, è legato alla successione dei regni divini (Saturno e Iuppiter), entrata molto probabilmente nella cultura romana dopo che il poeta Ennio ebbe tradotto l’opera di Evemero, Sacra scrittura o Storia sacra, nella quale si raccontava che in un tempo remoto gli dei avevano abitato sulla terra, come già narravano Ecateo ed Erodoto. La successione dei regni divini giunse al suo compimento con Virgilio, almeno per quanto riguarda le vicende del regno di Saturno. Tuttavia, essa presenta analogie ed è strettamente collegata  con la successione degli imperi o delle età metalliche (il regno di Saturno è collegato con l’età dell’oro); quest’ultima, delineata già da Esiodo, rappresenta la forma più antica di storia universale ed era ampiamente conosciuta in tutto il Mediterraneo antico.

4.Sia nella ‘Profezia di Vegoia’ che negli Autori latini la terminatio, sia che assuma valore positivo (nella ‘Profezia’, e quindi per gli Etruschi) che valore negativo (per gli Autori latini), è connessa con avaritia e terrenus cupido; anzi, nella ‘Profezia’ la terminatio è strettamente collegata con l’avvento del novissimum saeculum, l’ottavo, che, solo nella ‘Profezia’ se novissimum è da intendere come ‘ultimo’, sembra essere quello conclusivo del nomen Etruscum. L’avvento del novissimum saeculum avrebbe segnato la fine della storia del popolo Etrusco. Questo momento è probabilmente identificabile con la fine della guerra di Perugia, nel 40, quando si sarebbe compiuto il decimo ed ultimo secolo, il più breve di tutti, di soli quattro anni, che era incominciato nel 44, come sappiamo dal testo di Servio che abbiamo letto sopra: Vulcatius aruspex in contione cometen esse [è il sidus Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi. Sed quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit.

Da quanto è stato detto fin qui si riconosce, anche se sommariamente, la concezione etrusca della storia che emerge dalla ‘Profezia di Vegoia’, completata soprattutto dalle notizie di Censorino, De die natali, soprattutto 17, 5-6 e dalla Suda. La storia – intendendo qui per ‘storia’ il tempo di vita concesso al genere umano – si può definire con certezza ‘lineare’ e ‘a termine’. Gli Etruschi non sembrano ritenere possibile una palingenesi, e quindi un rinnovamento o una ripresa della storia, come invece è stato possibile riconoscere nella concezione romana della storia (per questo mi pemetto di rinviare anche al mio intervento, tenuto in questa stessa Sede, in merito all’idea di ‘tardo’). Né agli Etruschi è familiare, per quanto riusciamo a sapere, l’idea dell’espiazione, che rende possibile un nuovo patto fra uomini e dei, a Roma, e la speranza di un rinnovamento, presentissima come tema dominante nella poesia civile di Orazio e di Virgilio, che anticipa e annunzia la nuova era, che sarà una nuova età dell’oro. Secondo la concezione etrusca, la storia degli uomini finisce improrogabilmente allorché si è esaurito il periodo di tempo concesso dagli dei, anche se da Censorino pare che ciascuno intenda a modo proprio la durata dei saecula e che molto sia lasciato all’interpretazione degli indovini.

5.A questo punto è lecito domandarsi se la ‘Profezia’ non restituisca traccia di una dottrina secolare ‘ibrida’: la successione dei saecula etruschi forse si intersecava con la successione dei regni divini e delle età metalliche, ampiamente conosciute, in ambito etrusco-romano, da uomini di punta della cultura romana del II secolo a.C., come Aemilius Sura, che conosciamo solo di nome attraverso Velleio Patercolo (I 6, 6), e del I secolo a.C., come Nigidio Figulo, contemporaneo di Cicerone ed esperto di aruspicina. Dalla ‘Profezia’ sappiamo inoltre che Iuppiter volle per sé l’Etruria e questo motivo è quasi certamente legato allo sviluppo di un mito delle origini.

Al quadro abbastanza complesso che si è cercato di delineare, anche se sommariamente, è forse da aggiungere una nuova testimonianza: un frammento di Servio a commento di Aen. IX 561, conservato in forma leggermente più ampia presso i Mitografi latini (Corpus Christianorum, serie latina 91), dove, fra l’altro, si afferma: Iuppiter et Saturnus reges fuerunt, sed dum Iuppiter cum Saturno patre haberet de agris contentionem, ortum bellum est. Il brano, inserito in un contesto mitologico estraneo all’ambito etrusco (la guerra contro i Giganti), è destinato a spiegare l’origine dell’aquila come insegna militare. Da Lattanzio (Div. Inst. I 11, 64 sg.), che conserva un passo di Ennio, veniamo a conoscenza che l’episodio sarebbe accaduto sull’isola di Naxos, mentre Giove si apprestava a combattere i Titani. Il brevissimo passo di Ennio in Lattanzio costituiva un’appendice alla lotta fra Giove e Saturno, conclusasi con la fuga di quest’ultimo in Italia.

Nell’evoluzione del mito è possibile che proprio Ennio ambientasse in Italia la contentio de agris, all’origine della vicenda di Saturno in Italia che, come si è visto, risalirebbe alla Storia sacra di Evemero.

L’elemento che pare collegare questo episodio alla ‘Profezia di Vegoia’ è dato dalla contentio de agris, sorta mentre Saturno e Giove regnavano insieme. Essa non ha riscontro nella mitologia tradizionale e ugualmente unica è l’attribuzione a Iuppiter dell’istituzione dei segni di confine che troviamo nella ‘Profezia’. Può trattarsi in entrambi i casi di un’ambientazione etrusca, ‘agraria’, trasferita nel mito che, per gli Etruschi come per i Greci e i Romani, era una secie di ‘deposito’ di contenuti religiosi ai quali si faceva naturale riferimento.

Il passo di Servio presenta una spiegazione inattesa dell’inizio della storia ma sempre coerente con la successione di età legate al regno degli dei sulla terra. La contentio de agris, cioè la lotta per il possesso della terra Etruria, avrebbe caratterizzato l’inizio della storia del popolo etrusco e contemporaneamente sarebbe stata all’origine del diritto legato ad essa per difenderne l’integrità.

Sembra anche per questo, in vista di una conclusione del nostro discorso, che la ‘Profezia’ sia ugualmente inserita nella successione dei regni divini (e delle età metalliche) e nella successione dei saecula.

C’è da domandarsi, tra le altre questioni che rimangono aperte, in cosa consistesse principalmente la differenza fra Etruschi e Romani nella concezione della storia, ammesso che si possa parlare di una concezione ‘omogenea’ della storia.

Faccio ancora riferimento a quanto ho avuto l’opportunità di dire in questa Sede qualche mese fa. L’espiazione delle guerre civili consentì a Roma di rinnovarsi evitando che il declino si trasformasse in una decadenza irreversibile. A permettere questa ripresa, suggerisce Orazio, sarà la pietas, non frutto di un sentimento ma espressione della coscienza – che è solo romana – che la grandezza di Roma dipende dalla benevolenza degli dei: eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum, pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus (Cic. De haruspicum responsis, 19). Con gli dei i Romani stabilirono un patto fondato sulla pietas, che sarà perciò stabile e definitivo, come dirà Virgilio (Verg. Aen. I 279): imperium sine fine dedi.

 

 

TESTI

 

Gromatici Veteres, ed. Lachmann, vol. I, pp. 350 sg.
Scias mare ex aethera remotum. Cum autem Iuppiter terram Aetruriae sibi vindicavit, constituit iussitque metiri campos signarique agros. Sciens hominum avaritiam vel terrenum cupidinem, terminis omnia scita esse voluit. Quos quandoque quis ob avaritiam prope novissimi octavi saeculi data sibi homines malo dolo violabunt contingentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque, possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus damnabitur a diis. Si servi faciant, dominio mutabuntur in deterius. Sed si conscientia dominica fiet, caelerius domus extirpabitur, gensque eius omnis interiet. Motores autem pessimis morbis et vulneribus efficientur membrisque suis debilitabuntur. Tum etiam terra a tempestatibus vel turbinibus plerumque labe movebitur. Fructus saepe ledentur decutienturque imbribus atque grandine, caniculis interient, robigine occidentur. Multae dissensiones in populo. Fieri haec scitote, cum talia scelera committuntur. Propterea neque fallax neque bilinguis sis. Disciplinam pone in corde tuo.

 

Sud. s.v.Τυρρηνία. Ἱστορίαν δὲ παρ᾿ αὐτοῖς ἔμπειρος ἀνὴρ συνεγράψατο· ἔφη γὰρ τὸν δημιουργὸν τῶϝ πάντων θεὸν ιβ᾿ χιλιάδας ενιαυτῶν τοῖς πᾶσιν αὐτοῦ φιλοτιμήσασθαι κτίσμασι, καὶ ταύτας διαθεῖναι τοῖς ιβ᾿ λεγομένοις οἴκοις· κτλ

 

Censor., De die natali, 18, 6-7: Proxima est hanc magnitudinem, quae vocatur dodecaeteris ex annis vertentibus duodecim. Huic anno Chaldaico nomen est…

 

Ovid.,  Her. IV 131 sgg.: vetus pietas, aevo moritura futuro, rustica Saturno regna tenente fuit. / Iuppiter esse pium statuit, quodcumque iuvaret, / et fas omne facit fratre marita soror.

 

Lact., Div. Inst. VII 15, 7 sg.: … humanarum rerum statum commutari necesse est et  in deterius nequitia invalescente prolabi; iniquitas et malitia usque ad summum gradum crevit; avaritia et cupiditas et libido crebrescet; confundetur omne ius et leges interibunt; audacia et vis omnia possidebunt.

 

Serv.,  ad Verg. Buc. IX 46 (= H.R.R. II, p. 56): Vulcatius aruspex in contione cometen esse [i.e. sidus Caesaris], qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi. Sed quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit.

 

Serv., ad Aen. IX 561 (= Corp. Christian., ser. Lat. 91): Iuppiter et Saturnus reges fuerunt, sed dum Iuppiter cum Saturno patre haberet de agris contentionem, ortum bellum est.

 

Cic., De haruspicum responsis, 19: quis est tam vaecors qui… cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? … pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.

 

Verg., Aen. I 279: imperium sine fine dedi.

 

 



[1] I due principali manoscritti che conservano il testo della ‘Profezia’ sono il Palatinus, Vatic.Palat. lat. 1564 (ff. 120-120v; sec. IX ¼, e il Gudianus, Guelferb.Gud. lat. 105, conservato nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel (ff. 77-77v [pp. 1\53-154]; sec. IX ¾. Il brano è conservato anche negli excerpta gromatica contenuti nel Bruxellensis, ms.lat. 10615-10729, e nel Leidensis, Voss.lat. F. 53, entrambi apografi del Palatinus, come il Gudianus. 

[2] Vi compaiono due personaggi dai nomi  Petru Scevas e Cusu.

[3] Quos quandoque quis ob avaritiam prope novissimi octavi saeculi data sibi homines malo dolo violabunt contingentque atque movebunt. Sed qui contigerit moveritque, possessionem promovendo suam, alterius minuendo, ob hoc scelus damnabitur a diis. Si servi faciant, dominio mutabuntur in deterius. Sed si conscientia dominica fiet, caelerius domus extirpabitur, gensque eius omnis interiet. Motores autem pessimis morbis et vulneribus efficientur membrisque suis debilitabuntur. Tum etiam terra a tempestatibus vel turbinibus plerumque labe movebitur. Fructus saepe ledentur decutienturque imbribus atque grandine, caniculis interient, robigine occidentur. Multae dissensiones in populo. Fieri haec scitote, cum talia scelera committuntur. Propterea neque fallax neque bilinguis sis. Disciplinam pone in corde tuo.

[4] Ἱστορίαν δὲ παρ᾿ αὐτοῖς ἔμπειρος ἀνὴρ συνεγράψατο· ἔφη γὰρ τὸν δημιουργὸν τῶϝ πάντων θεὸν ιβ᾿ χιλιάδας ενιαυτῶν τοῖς πᾶσιν αὐτοῦ φιλοτιμήσασθαι κτίσμασι, καὶ ταύτας διαθεῖναι τοῖς ιβ᾿ λεγομένοις οἴκοις· κτλ.

[5] P.d.V., pp. 77 sg., 93.

[6] Pp. 137 sg.

Nell'immagine: la ninfa Vegoia (Las<a Vecu)m a destra, insieme con la dea Menrva, in uno specchio bronzeo etrusco del sec. III a.C. (Roma, Museo etrusco di Villa Giulia).

 



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