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Felix e sinonimi tra latino arcaico e lingue romanze

di Moreno Morani
(relazione letta a Genova nel Convegno del CLE “De felicitate animae”, 6 novembre 2013

Premessa

Assumiamo come spunto e guida per il percorso che affronteremo un passaggio (che mi è capitato di leggere recentemente) sulla felicità come destino e vocazione del cristiano:

Il Vangelo delle Beatitudini ci richiama quello che ogni uomo desidera nel profondo del cuore: la felicità. Come si fa a non desiderare di essere felici? Per il cristiano la beatitudine, e quindi la felicità, non è soltanto un desiderio, è una missione, una vocazione - parola che viene dal latino vocare, chiamare; siamo cioè chiamati alla beatitudine. Il Signore quando chiama non impone mai nulla: è un’offerta che ci fa. Volete essere contenti? Volete essere veramente beati? In paradiso lo saremo completamente, ma già fin da questa terra dobbiamo pregustare la beatitudine. Allora comprendiamo che la beatitudine è un compito, è un desiderio che non possiamo smorzare o diminuire ma che dobbiamo coltivare sempre di più. (...) Il profeta era chiamato vir desideriorum, l’uomo dei grandi desideri. Solženicyn parla dei grandi desideri che saranno sempre adempiuti. Questo è uno dei grandi desideri che dobbiamo coltivare, è una nostra vocazione, se vogliamo rispondere all’invito di Cristo: essere chiamati alla felicità. Cristo ci chiama, perché Lui stesso è la felicità, la pienezza della vita, della verità, quindi anche la pienezza di ciò che il nostro essere può desiderare. Cristo è la felicità in tutte le situazioni.

È un brano tratto dall’omelia di un giovane sacerdote trentino, giovane perché ha compiuto da poche settimane i novant’anni, ma è lucido d’intelletto e di spirito come un giovane di venti[1]. Il passo considera dunque la felicità insieme come un desiderio e una vocazione: il cristiano non può semplicemente desiderare di essere felice, ma è chiamato esplicitamente ad esserlo. La distinzione è importante, perché altro è desiderare un obiettivo, altro mettersi in cammino per raggiungerlo.

Felicità è il termine di un cammino, e viene vista come uno stato finale di compimento di desideri, un compimento spesso provvisorio, perché la felicità terrena è preludio del compimento finale che si situa nella beatitudine eterna del Paradiso. Abbiamo così introdotto tra felicità e beatitudine una correlazione, di cui cercheremo tra poco di chiarire i rapporti e i confini. E abbiamo anche cominciato a definire il significato di felicità. Nell’autostrada che porta a Santiago del Cile, dove sto terminando di redigere questa comunicazione, c’è un enorme cartellone pubblicitario di una nota azienda internazionale di bevande gassate che afferma: Felicidad es movimiento, movimiento es felicidad. Si tratta di una pubblicità ingannevole, perché la felicità non è connessa all’agitazione, ma semmai a uno stato che presume consapevolezza: per essere definito felice l’uomo deve essere lucidamente consapevole di avere raggiunto uno stato privilegiato, e anche la coscienza del carattere probabilmente transitorio di questo traguardo non ne sminuisce la soddisfazione: nulla a che fare con l’agitazione e il movimento.

 

1. Sguardo generale sull’evoluzione semantica

Che significa tutto questo, in termini linguistici (che sono quelli che cercheremo di approfondire in questa comunicazione)? Qual è il contenuto delle parole felice, felicità, a partire dagli antecedenti latini felix e felicitas? Percorrendo la storia di queste parole dall’inizio fino agli usi attuali, ci si imbatte in due fatti che al profano, inesperto di analisi linguistiche, potranno sembrare paradossali: il fatto che il valore attuale di felice rappresenti il frutto di una lunga evoluzione semantica che muove da un valore originario completamente diverso, e il fatto che nella storia della parola tra il precedente latino e l’attuale parola italiana abbiamo uno iato.

Chiariamo subito questo secondo aspetto. L’italiano felice non è la continuazione diretta del latino felix: la parola italiana costituisce uno di quegli elementi che l’italiano ha recuperato dal latino, dopo che il termine era andato perso nell’uso corrente. Vale a dire che felice appartiene a quel nutrito gruppo di parole che sono rientrate nella lingua dopo essere state abbandonate: e poiché si tratta essenzialmente di parole della lingua colta o semicolta (anche se alcune di esse possono essere penetrate profondamente nel tessuto della lingua integrandosi fino a diventate oggi di uso comune), si dà loro di cultismi o latinismi. Sembra che in quasi tutte le zone latinofone dell’impero romano in qualle fase grigia e magmatica (e ancora in parte da esplorare) che intercorre tra il latino tardo e la nascita delle lingue romanze felix sia stato abbandonato nella lingua parlata, con la sola eccezione della latinità balcanica, dove è sopravvissuto (rumeno firici); poi nella Latinità occidentale felix è stato ripreso nelle parlate dell’Italia (it. felice) e della penisola iberica (spagn. e port. feliz, catalano feliç)[2], mentre è stato definitivamente abbandonato in area gallica (in francese è stato sostituito da heureux, derivazione da heure, a sua volta continuazione del lat. augurium).

La storia di felix in latino può essere seguita molto bene attraverso lo specchietto che troviamo all’inizio della voce che il Thesaurus linguae Latinae, il più grande e completo repertorio per lo studio del lessico latino, dedica alla parola, fissandone in modo molto chiaro le vicende[3].

 

2. Valore originario ed etimologia di fēlīx: ‘fecondo, produttivo’

Nel suo significato originario la parola riporta all’idea della fecondità. Felix, come altre voci latine che poi hanno assunto valore completamente diverso, appartiene originariamente al lessico dell’agricoltura. Un linguista e studioso francese del XX secolo, Jules Marouzeau (1878-1964), definiva il latino una “lingua di contadini” (langue de paysans), lingua di un’aristocrazia benestante e tendenzialmente conservatrice che trae dall’agricoltura gli elementi del proprio benessere[4]. Il sistematico uso metaforico di molte parole del lessico agricolo ha conferito a vari termini significati lontani da quello originario. Non entreremo qui nello specifico di questa ipotesi e della polemica che inevitabilmente la seguì. Tornando a felix, questa parola appartiene alla stessa famiglia a cui fa capo anche fecundus, ed entrambi i termini muovono da una radice *-, la cui forma indoeuropea originaria viene ricostruita come *dhē-: i passaggi fonetici che portano dalla forma indoeuropea a quella latina sono regolari, e il valore originario della radice, come si desume dalla documentazione di altre lingue indeuropee, è quello di ‘allattare’[5]. Da questa radice si ha in latino un’altra diretta derivazione, femina, che ha nella seconda parte un suffisso di participio medio (-menos o simili, si ricordi p.es. greco -menos greco: louómenos ‘che si lava’) diffuso in altre lingue indoeuropee ma conservato dal latino solo in pochi relitti[6]: femina è la donna che allatta (il medio valorizza l’intensa partecipazione al compiersi dell’azione): la presenza di un suffisso ormai improduttivo mette in rilievo l’antichità della formazione, legata a un verbo rimasto vivo in altre aree indeuropee, ma perdutosi in latino. Il latino ha tratto dalla radice anche una derivazione con ampliamento in -l-, felare ‘succhiare’[7]. La relazione tra felare e femina (nel suo valore antico) è trasparente, e il richiamo a queste parole ci aiuta a capire il valore più antico di felix. Alla base fel- viene aggiunto un formante ­­-ī-, comune già nella fase indֹeuropea per indicare il genere femminile, più un altro prolungamento tipicamente latino in -c-: le formazioni in -īc- sono comuni soprattutto come femminili di nomi d’agente in -tor (genitor genitrix, dator datrix), ma si trovano anche isolatamente p.es. in cornix ‘cornacchia’, offendix ‘benda, nastro’, radix ‘radice’. I successivi passaggi semantici di felix muovono dunque da questa metafora originaria: felix è la donna che con l’allattamento dona benessere al suo bimbo: chi ha visto l’espressione di un bimbo piccolo che ha appena ricevuto il nutrimento dalla madre capisce subito come sia possibile istituire una connessione fra allattamento e beatitudine! A partire da questo significato originario si comprendono vari sviluppi successivi della parola, e soprattutto la sua duplicità di prospettiva: felix in latino ha valore sia passivo (‘che produce frutti’) sia attivo (‘fecondante’), e ancora nell’uso italiano odierno si è mantenuta questa duplicità, per cui felice può comparire sia con valore attivo (una circostanza felice, tale cioè da fornire contentezza) sia con valore passivo (una persona felice).

Il passaggio dal valore di sostantivo a quello di aggettivo, con la conseguente perdita dell’appartenenza al genere femminile, costituisce un primo importante passaggio. 

Nell’uso storico, felix è l’albero che produce frutti o il campo reso fecondo dalle condizioni favorevoli del terreno o del tempo[8]: un suo sinonimo è frugifer (come appare da un passo di Livio V 24, 2 nulla felix arbor, nihil frugiferum in agro relictum “nessun albero fruttifero, niente di fecondo è stato lasciato nel campo”), e il suo opposto è pauper, che, come ci dice l’etimologia, è il terreno che dà poco frutto (pauca parit): felicis quondam, nunc pauperis agri “di un terreno un tempo produtttivo, ora improduttivo” afferma con tono nostalgico il poeta Tibullo (I 1, 19).

 

3. Fēlīx nel linguaggio religioso: ‘bene augurante, propizio’.

Nel linguaggio religioso felix, con facile trapasso semantico, assume il valore di ’bene augurante, propizio’: basterà il rinvio a Tibullo II 1, 25 (eventura precor: viden ut felicibus extis | significet placidos nuntia fibra deos?) ove felicia exta sono le viscere che contengono indizi di augurio favorevole; e a Virgilio, Georg. I 346 (terque novas circum felix eat hostia fruges), ove felix hostia è la vittima del sacrificio che propizia gli dèi. Con ulteriore passaggio felix è attributo della divinità che si invoca perché guardi propizia le vicende umane e compia i desideri degli uomini (Virg., Ecl. 5, 65 si bonus o felix tuis! “se sarai buono e favorevole, oh, ai tuoi”, e soprattutto Aen. I, 380, dove l’invocazione è a una divinità sconosciuta: o dea ... sis felix nostrumque leves, quaecumque, laborem ‘o dea, sii propizia e allevia, chiunque tu sia, la nostra sofferenza’). La piena appartenenza di felix al lessico religioso è rilevabile anche dal suo frequente apparire in stretta connessione con faustus, col quale crea una coppia allitterante, secondo un modello molto comune nel linguaggio religioso arcaico.

Il trapasso da questi usi a quelli che il Thesaurus registra al III e ultimo punto si capisce agevolmente. C’è un verso di Plauto, Trinummus 41 nobis haec habitatio bona fausta felix fortunataque evenat (“che questa abitazione riesca favorevole, fausta, felice, propizia”) che sembra segnare un momento di transizione fra gli usi religiosi e gli usi profani del termine: lo stile è quello del linguaggio religioso arcaico, e felix è collegato con altri termini tecnici del linguaggio religioso in una triade asindetica allitterante (fausta felix fortunata), ma il tutto è attribuito a un termine profano (habitatio).

Non solo un oggetto, ma anche un moto dell’animo o un atteggiamento può essere propizio e aprire a soluzioni che dànno frutto e prosperità[9].

 

4. Felicità e fortuna.

È però nell’uso riferito a persone che felix mostra il compimento della sua evoluzione semantica. In un’espressione come homo felix o vita felix prevale nell’aggettivo il valore passivo: homo felix non è la persona che dà adito ad aspettative di prosperità, ma l’uomo che è stato toccato dai beni della fortuna. Per approfondire questa considerazione è necessario prendere in esame anche felicitas, l’astratto corrispondente di felix. Scorrendo i testi si ha l’impressione che l’astratto abbia percorso una strada inversa rispetto all’aggettivo: il valore di felicitas nel senso di ‘fecondità’ (felicitas arvorum) s’incontra raramente e solo negli autori di agricoltura dell’età imperiale, e anche nell’uso corrente felicitas è di gran lunga più frequente riferito a persone che ad oggetti. Pertanto è possibile che in felicitas il valore tecnico sia nato posteriormente per influenza dei residui usi di felix nel lessico tecnico dell’agricoltura, con un accostamento secondario, ma legittimo e naturale, dell’astratto all’aggettivo.

xxxSeguendo l’evoluzione di felix e felicitas negli autori, sembra di potere osservare un crescente affermarsi di valori e di implicazioni morali. Infatti in origine felix è semplicemente l’uomo fortunato, che possiede beni o è stato toccato dalla buona sorte. In Retorica ad Erennio IV 20, 27 per felicitas s’intende ancora il benessere materiale frutto della fortuna, al quale viene contrapposta la virtus frutto dell’impegno (industria): alii fortuna dedit felicitatem, huic industria virtutem comparavit “a un’altra persona la sorte ha dato benessere, a questo l’operosità ha procurato virtù”. Invece a partire almeno da Cicerone la considerazione positiva della felicitas vale soltanto se questa non è solo conseguenza di eventi fortunati, ma è frutto della levatura morale della persona e dalla sua capacità di prendere decisioni: cfr Att. XIV 17a, 7 hoc si tibi fortuna quadam contigisset, gratularer felicitati tuae, sed contigit magnitudine cum animi tum etiam ingeni atque consili “se ciò ti fosse successo in grazia della buona sorte, mi congratulerei per la tua felicità, ma ti è capitato per l’elevatezza della tua anima e inoltre della tua indole e anche della tua prudenza”. L’interdipendenza tra felicitas e bonum consilium è espressa anche dalla seguente definizione che Cicerone dà della parola nel frammento di una lettera perduta: Neque enim quicquam aliud est felicitas nisi honestarum rerum prosperitas; vel, ut alio modo definiam, felicitas est fortuna adiutrix consiliorum bonorum, quibus qui non utitur felix esse nullo pacto potest “La felicità non è nient’altro che la prosperità nelle situazioni oneste: o, per definirla in un altro modo, la felicità è una buona sorte che favorisce buon giudizio: se uno non ne usa non può in nessun modo essere felice”[10]. La seconda parte aggiunge e completa la definizione fornita nella prima. Quindi la felicitas è qualcosa in più della semplice prosperitas conseguente ai doni di una sorte generosa, in quanto presume una prosperità in una situazione comunque moralmente ineccepibile (honestarum rerum) e un insieme di doti di onestà e di buon giudizio che vengono riassunte nella parola consilium, senza peraltro escludere del tutto la componente della fortuna. Non ci soffermeremo sulla inconciliabilità, ribadita da vari autori, di felicitas e malvagità: si tratta di un’affermazione più volte ribadita, fino a diventare in sostanza un luogo comune, secondo cui l’uomo malvagio può apparire esternamente felice per la sua disponibilità di potere e mezzi materiali, ma si tratta di una felicità solo apparente. Parlando del dedecus e della turpitudo di Antonio, Cicerone conclude (Phil. 2, 59): felix fuit, si potest ulla in scelere esse felicitas “è stato felice, se mai può esservi felicità nel delitto”.

Nell’uso corrente dunque felix non è solamente chi ha a disposizione beni materiali, ma anche, e forse soprattutto, chi vede esauditi i suoi desideri, non solo materiali.

 

4. Felicità e desiderio.

Il valore, inizialmente molto concreto, della parola tende a spostarsi sempre di più sul piano etico. Un paio di testi poetici ci portano in questa direzione: il primo è un testo di Catullo (107, 7-8) in cui viene sottolineato fortemente il rapporto tra felicità e desiderio (quis me uno vivit felicior, aut magis hac res | optandas vita dicere quis poterit?), così da configurare la felicità come momento in cui i desideri sono stati esauditi, l’altro, ancora di Catullo (62, 30: quid datur a divis felici optatius hora?) in cui, oltre a ribadire nuovamente la contiguità tra condizione di felicità e compimento dei desideri, si conclude implicitamente che si ha felicitas anche quando il compimento dei desideri è momentaneo (hora): felicità come attimo in cui l’uomo vede esauditi i suoi desideri più profondi. Una definizione più precisa del termine la darà Agostino (civ. 5, 1, p. 190, 4 D.): constat omnium rerum optandarum plenitudinem esse felicitatem “si riconosce che felicità è la pienezza di tutti le cose desiderabili”. Il fatto che il tempo della felicità possa essere limitato e che il soddisfacimento dei desideri si realizzi in modo provvisorio e non assoluto, è inevitabile conseguenza della limitatezza e della fragilità dell’essere umano, ma non ha a che fare con l’ideale definizione di felicità. L’atteggiamento sempre realistico con cui gli autori pagani guardano alla vita fa loro percepire come qualunque situazione umana, pur soddisfacente tanto da rendere legittima la qualifica di felix, abbia dei limiti. Così Cicerone: Huc accedit quod, quamvis ille felix sit, sicut est, tamen in tanta felicitate nemo potest esse in magna familia qui neminem neque servum neque libertum improbum habeat “Si aggiunge a questo che, per quanto questi sia felice, come effettivamente è, tuttavia in una grande famiglia nessuno può avere tanta felicità da non avere nemmeno uno schiavo o un liberto disonesto”: per quanto uno possa godere di grande felicità (materiale e morale, in questo contesto), inevitabilmente vi saranno nella sua situazione dei limiti e dei punti deboli. Riassumendo, parrebbe che nell’uso classico in felix siano compresenti tre elementi: una prosperità materiale acquisita con mezzi onesti, l’appagamento dei desideri, la serenità dello spirito: il tutto consente di accettare anche il carattere transitorio dello stato di felix. Naturalmente il grado di importanza di ognuno di questi elementi dipende dal carattere e dalle aspirazioni dell’uomo e dal suo essere più incline ad apprezzare i beni della terra piuttosto che quello dello spirito.

Il filosofo può fare a meno della componente materiale: non ha bisogno né di ricchezze né di potere per essere felice. Merita attenzione il notissimo passaggio virgiliano di Georg. II 494:

felix qui potuit rerum cognoscere causas

atque metus omnis et inexorabile fatum 

subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.

fortunatus et ille deos qui novit agrestis.

“Felice chi ha potuto conoscere le cause degli eventi, e ha soggiogato ogni paura e il destino inesorabile e il fragore dell’Acheronte avido. Ma fortunato anche l’uomo che conosce gli dèi dei campi”.

Si noti la contrapposizione tra felix e fortunatus, non casuale perché già al v. 458 il poeta aveva scritto O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas!  “O fortunati anche troppo i contadini, se solo conoscessero il loro bene”. Felicità dunque come conoscenza delle cause, come mera adesione a principi e idee che dovrebbero liberare dal timore religioso. È un richiamo ai giovanili trascorsi epicurei di Virgilio: felix è l’uomo che, imbevuto di dottrina filosofica e pienamente fiducioso di questa, ha raggiunto una serenità interiore che gli ha fatto superare le paure indotte dalla religione: fortunatus invece è l’uomo che ha una fede semplice nelle divinità dei campi e li onora. Con felix si allude al raggiungimento intellettuale di una sapienza e a una serenità interiore frutto di conoscenze e inattaccabile da circostanze esterne, con fortunatus si sottolinea l’idea di una ventura che dà una soddisfazione immediata e semplice. Quindi felix fa riferimento a un cammino interiore, fortunatus a una sorte benevola ed esterna.

 

5. Il sapiens non ha bisogno di felicità.

Ulteriore superamento di questa visione è l’idea che il saggio non abbia nemmeno bisogno di desiderare la felicità. Anzi, in contesti pienamente filosofici, il richiamo alla precarietà della vita umana, e alla conseguente impossibilità di attingere una felicitas piena e duratura, fa sì che l’ideale della felicitas consista nel superamento del desiderio di essere felice (come in Seneca, ad Luc. 90, 35, 2: palam fecit felicissimum esse cui felicitate non opus est, potentissimum esse qui se habet in potestate “ha reso palese che l’uomo più felice è quello che non ha bisogno di felicità, che l’uomo più potente è quello che ha potere su sé stesso”) o addirittura che il desiderio della morte sia un desiderio che supera l’anelito verso la felicità (ancora Seneca, Dial. 6, 22, 2, 2: felicissimis optanda mors est, quia in tanta inconstantia turbaque rerum nihil nisi quod praeterìt certum est “le persone più felici dovrebbero desiderare la morte, perché in questa grande incertezza e turbamento delle vicende umane l’unica cosa certa è il passato”).

 

5. Fēlīx nel mondo cristiano.

La reinterpretazione cristiana della parola è interessante: nell’immensità del materiale a disposizione, qui dobbiamo limitarci a qualche accenno. L’impossibilità per l’uomo malvagio di essere felice è ribadita dai cristiani: p.es. Agostino, che, riferendosi a un passaggio non ben definito di Cicerone, scrive (civ. V 26): quod ait Tullius de quodam, qui peccandi licentia felix appellabatur: ‘o miserum, cui peccare licebat! “Quel che dice Tullio di un tale che veniva chiamato felice perché gli era stato dato il permesso di peccare: ‘poveretto, perché gli è stato permesso di peccare’”. A proposito della prassi, divenuta consueta, di conferire il titolo di Felix agli imperatori, ancora Agostino (civ. V 24) afferma che sono da considerare felices solo gli imperatori che hanno governato secondo giustizia. E ancora Agostino nel de civitate Dei dedica espressamente un capitolo alla domanda (IV 18) se fortuna e felicitas possano essere considerate dee, con ampi riferimenti al culto ufficiale e a diversi filosofi pagani: il capitolo è interessante perché lo sforzo di definire esattamente le due presunte divinità fornisce una definizione di felicitas che possiamo considerare esauriente: 

Quid, quod et Felicitas dea est? Aedem accepit, aram meruit, sacra congrua persoluta sunt. Ipsa ergo sola coleretur. Ubi enim ipsa esset, quid boni non esset? Sed quid sibi vult, quod et Fortuna dea putatur et colitur? An aliud est felicitas, aliud fortuna? Quia fortuna potest esse et mala; felicitas autem si mala fuerit, felicitas non erit. (...) Quid diversae aedes, diversae arae, diversa sacra? Est causa, inquiunt, quia felicitas illa est, quam boni habent praecedentibus meritis; fortuna vero, quae dicitur bona, sine ullo examine meritorum fortuito accidit hominibus et bonis et malis, unde etiam Fortuna nominatur.

Ma come la mettono che anche la Felicità è una dea? Ha avuto il suo tempio, ha meritato la sua ara, le sono stati offerti convenienti misteri. Avrebbe dunque dovuto esser adorata lei sola. Dove c’è lei, che cosa non può esserci di bene?. Ma cosa significa che anche la fortuna è considerata e adorata come dea? Una cosa è la felicità e una cosa la fortuna? Sì, perché la fortuna può essere anche cattiva, invece la felicità se è cattiva non è più felicità. (...) Ma perché diversi i templi, diverse le are, diversi i riti? La ragione è, rispondono, che la felicità è riservata ai buoni perché meritata in precedenza; la fortuna invece, quella che è considerata buona, sopraggiunge fortuitamente agli individui buoni e cattivi senza alcun riguardo al merito. Per questo appunto si chiama fortuna.

Viene ribadito qui il carattere fortuito della fortuna e la connessione della felicitas coi meriti personali.

 

5. Fēlīx, laetus, beātus.

Concludiamo la nostra esposizione, tentando di precisare il valore di felix mettendolo a confronto con alcune parole sinonime o concorrenti. Spesso i confini tra parole che si situano nel medesimo ambito semantico sono poco nitidi o addirittura evanescenti, e possono cambiare col tempo, soprattutto con termini di valore un po’ sfumato come quelli che stiamo studiando, quando si verificano cambiamenti culturali radicali. Esclusi fortunatus e fortuna, di cui già si è detto, due termini possono essere considerati concorrenti, e in parte sovrapponibili, a felix, vale a dire beatus e laetus, coi loro relativi astratti beatitudo e laetitia. Escludiamo contentus, perché il suo contenuto semantico è in buona parte differente rispetto all’ambito che stiamo studiando, e la diversità è sottolineata anche dalla circostanza che contentus non dà origine a un sostantivo astratto, a differenza di quanto avviene per gli altri aggettivi qui esaminati.

Sia beatus sia laetus sono antichi participi passati nei quali il valore verbale si è progressivamente perso, e per uno dei due, laetus, il verbo a cui doveva fare riferimento non è attestato in nessuna epoca del latino e non è raggiungibile neppure attraverso la ricostruzione indeuropea: linguisticamente laetus è in opposizione a maestus, anch’esso participio da una radice verbale *mais- a cui fa capo maereo ‘sono addolorato’ (< *mais-eō): generalmente le formazioni con -ae- nella radice appartengono a uno strato lessicale tendenzialmente non elevato e si riferiscono spesso a caratteristiche morali o fisiche, quasi mai positive (oltre al citato maestus, ricordo p.es. caecus, laevos, scaevos).

 

a. beātus.

xxxNegli usi più antichi beatus ha un valore generico e sembra di uso prevalentemente familiare: è la persona che vede soddisfatte le sue esigenze immediate. Beatus videor: subduxi ratiunculam, leggiamo nel Curculio di Plauto (v. 371): tradurremmo in italiano “credo di essere a posto: gli ho rubato il libro dei conti”; e nella Mostellaria (589): beatus vero es nunc, quom clamas, “sei proprio soddisfatto adesso ché gridi”.  Come si vede, qui beatus ha scarse risonanze interiori.

Il carattere più basso di beatus rispetto a felix appare da vari esempi. Nella poesia dell’età augustea beatus non è particolarmente frequente, e in Orazio se ne hanno esempi soprattutto nelle composizioni in esametri. Alcuni passaggi sono significativi: il primo è costituito dal noto attacco del secondo epodo:

Beatus ille qui procul negotiis,
ut prisca gens mortalium,
paterna rura bobus exercet suis
solutus omni faenore

“Beato chi, lontano dagli affari, come la gente dei buoni tempi andati, lavora coi buoi i campi paterni, libero da qualunque pensiero finanziario.

Dunque è beatus chi è privo di preoccupazioni finanziarie e affronta tranquillamente il suo modesto lavoro, ma l’aspetto più interessante è che questo ideale di beatitudine viene visto come corrispondente al modo di vivere dell’età dell’oro, la cui generazione è dunque beata per antonomasia. Ci sono un paio di passaggi nei Sermones che ribadiscono quanto detto fin qui, perché l’aggettivo appare in contesti di tono colloquiale e conferma un significato di ‘soddisfatto, appagato’: dum licet, in rebus iucundis vive beatus, | vive memor, quam sis aevi brevis “mentre ti è concesso, quando le cose vanno bene vivi beato; vivi memore di quanto sei una creatura di breve vita” (II 6, 98): un contesto che varrebbe la pena riprendere nel suo complesso (anche perché i versi citati sono preceduti a breve distanza da un carpe viam che non può non richiamare la più nota ode del carpe diem) e il verso finale (142) della III Satira del I libro: privatusque magis vivam te rege beatus “e io privato vivrò più beato di te re”: l’intonazione è scherzosa e il contesto mette in luce molto chiaramente i confini semantici della parola: vivere beatus è quello che in italiano colloquiale diremmo ‘star bene’. Ma vi sono nella stessa età augustea anche usi molto diversi. Nel primo libro dell’Eneide (vv. 94 ss.) Virgilio apostrofa come beati quelli a cui è toccato morire nella difesa di Troia, rispetto alla situazione di angoscia e affanno a cui sono sottoposti i superstiti: o terque quaterque beati, | quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis | contigit oppetere! “O beati tre e quattro volte più, quelli a cui toccò di morire sotto le mura di Troia davanti agli occhi dei genitori!”.

Questo passaggio virgiliano può essere letto come un momento di trapasso nel corso di una storia semantica complessa, nella quale beatus si riscatta dall’uso scialbo e banale dei primi testi assumendo, anche grazie all’interferenza del greco μακριος, echi nuovi e profondi, diventando un termine molto usato nel linguaggio religioso. Nel latino tardo beatus e felix sono concorrenti, e nel latino cristiano la crescente fortuna di beatus si rileva dalla constatazione che in qualche caso la Vulgata ha beatus dove le precedenti versioni hanno felix come resa della parola greca μακριος. Il seguente passaggio di Tertulliano (de patientia 11, 5) è atto a rendere l’idea: Undique igitur adstricti sumus officio patientiae administrandae (...) Eius officii magna merces, felicitas scilicet. Quos enim felices dominus nisi patientes nuncupavit dicendo: Beati pauperes spiritu, illorum est enim regnum caelorum? “Da ogni parte dunque siamo pressati dall’urgenza di amministrare la pazienza (...) Grande è il compenso di questo dovere, vale a dire la felicità. Chi infatti il Signore ha definito felici se non i pazienti, dicendo: Beati i poveri in spirito, loro è infatti il regno dei cieli?” Come si vede la citazione evangelica ha beatus, come ha tutta la tradizione, ma a beatus la spiegazione affianca felix e nell’ambito della felicitas viene situato l’esercizio della pazienza.

Secondo Isidoro, beatus sibi tantum est, felix et aliis (...); felix autem dicitur, per quem datur et accipitur felicitas “il beato è tale solo per sé stesso, il felice lo è anche per gli altri (...); si chiama felice colui attraverso il quale si dà e si riceve la felicità”. Si ha l’impressione che Isidoro abbia trasferito su felix alcuni dei valori che attribuiremmo piuttosto a laetus. In realtà l’uso di felix come ‘propizio, elargitore di felicità’ è connesso soprattutto con l’uso religioso, mentre è minoritario se attribuito a persone od oggetti: si dovrebbe dire piuttosto che felix e beatus si avvicinano molto nei testi latini tardi. La differenza sostanziale è che in felix è sempre presente, magari anche in misura larvata, ma presente, la componente della fortuna, mentre beatus è chi è pienamente appagato facendo leva soprattutto sulle sue risorse interiori. Ciò che sembra caratterizzare beatus nel lessico cristiano è la sensazione della definitività della situazione: mentre in felicitas resta presente sempre un’idea di provvisorietà, beatus sembra si dica dell’uomo appagato per sempre: la felicità è per un momento più o meno lungo, la beatitudine è per sempre. La distinzione sarà resa definitiva anche nel linguaggio della Chiesa, dove beato è divenuto termine tecnico per definire quei personaggi dei quali la Chiesa ha definito solennemente le virtù eroiche.

 

b. laetus.

Infine laetus. Anche questa è una parola che appartiene primariamente al linguaggio agricolo. Laeti sono i campi che dànno un buon raccolto (agros laetos Ennio, Ann. 495), laetae le messi abbondanti. Tra i derivati di laetus, l’unico a conservare l’antico valore agricolo è laetamen, che indica ciò che rende produttivi i campi, e ha una storia completamente estranea al gruppo di laetus; il valore antico di laetus è assente nel derivato laetitia, che, a differenza di felicitas, non viene mai usato in senso agricolo, ma sempre e soltanto in senso fisico o affettivo; laetus è accompagnato da un verbo (laetare), il cui valore originario poterebbe essere quello di ‘rendere fecondo e produttivi i campi’, anche se questo uso si incontra solamente in autori dell’età imperiale e tarda: in realtà l’uso di laetare nella sua forma attiva e nel senso di ‘rendere lieto’ è sempre meno frequente, mentre si diffonde l’uso di laetari al medio nel senso di ‘allietarsi’: laetare attivo viene sostituito dal più diffuso ed espressivo laetificare. Una definizione di laetitia si trova in Aulo Gellio (II 27, 3): laetitia dicitur exultatio quaedam animi gaudio efferventior eventu rerum expetitarum “si dice letizia un esultare dell’anima più briosa del gaudium per il compiersi di eventi desiderati”. Quindi tra laetitia e felicitas la differnza sostanziale non è tanto nel percorso, quanto nella manifestazione esteriore. Laetitia è una felicitas che si esprime nell’espressione del volto e nel modo di comportarsi: voltu hilari atque laeto (Cicerone, Tusc. I 100), con un’espressione del volto manifestamente gioiosa.

 

c. gaudium

Come risulta dal passo citato di Gellio, accanto a laetitia va introdotto anche gaudium: questo è l’unico termine che non sia formato su un aggettivo corrispondente, connettendosi direttamente con la radice (con qualche corrispondenza in altre lingue indoeuropee[11]) da cui è tratto il verbo gaudeo, ma è anche l’unico astratto che ha continuato a vivere nelle lingue romanze senza dovere essere recuperato in seconda istanza come latinismo: da gaudium infatti abbiamo lo spagnolo gozo ‘godimento’ e dal plurale gaudia il francese joie, che a sua volta è entrato in italiano nella forma gioia. Secondo la definizione di Cicerone (Tusc. 4, 6, 13) gaudium è una laetitia a cui manca un’espressione esteriore: cum ratione animus movetur placide atque constanter, tum illud gaudium dicitur: cum autem inanitecum ratione animus movetur et effuse animus exsultat, tum illa laetitia gestiens vel nimia dici potest, quam ita definiunt sine ratione animi elationem, cum ratione animus movetur placide atque constanter, tum illud gaudium dicitur: cum autem inaniter et effuse animus exsultat, tum illa laetitia gestiens vel nimia dici potest, quam ita definiunt sine ratione animi elationem, “Quando l’animo è governato in modo placido e coerente dalla ragione, allora questa situazione si chiama gaudium; quando invece esulta in modo vano ed eccessivo, allora questa si può chiamare laetitia esultante o sproporzionata, che così definiscono un’esaltazione dell’anima senza controllo della ragione”. Dunque gaudium è una laetitia che, a differenza della felicitas (che comporta una causa esterna), nasce e si risolve nell’interiorità dell’uomo. Come ci dice Sallustio (Cat. 48, 1), né gaudium laetitia possono essere applicati al benessere del corpo:voluptas dicitur etiam in animo ... non dicitur laetitia neggaudium in corpre  “si dice piacere anche per l’anima ... Non si dice letizia né gaudio per il corpo”.

 

6. Conclusioni.

In sostanza nell’evoluzione semantica della triade beatitudo ~ felicitas ~ laetitia (alla quale abbiamo aggiunto come ulteriore elemento accessorio gaudium) si configura l’acquisizione di valori che riassumiamo nel seguente schema (che ha naturalmente tutti i limiti e le approssimazioni degli schemi):

 

beatitudo: una felicità acquisita attraverso le risorse interiori che tende ad essere definitiva;

felicitas: uno stato (generalmente transitorio) di raggiunto appagamento generato anche da situazioni esterne che possono avere un rilievo più o meno modesto;

laetitia: uno stato di appagamento che si riflette nell’atteggiamento esteriore e ha quindi valenze non solo individuali, ma anche sociali, perché la persona lieta può anche allietare il suo prossimo;

gaudium: una laetitia senza manifestazioni esteriori.

 

Dei tre aggettivi corrispondenti ai sostantivi indicati, solo laetus continua a vivere nel latino parlato, mentre gli altri due termini sono recuperati dalla lingua semicolta, e felix in particolare acquista una discreta popolarità: dei sostantivi astratti, solo gaudium è direttamente continuato in varie lingue romanze, ma non in italiano, perché qui è arrivato, nella forma gioia, attraverso la mediazione del francese: dunque in Italia la tradizione della parola ha avuto uno iato. Per contro, in italiano si dovrebbe considerare l’acquisizione di allegro, che rappresenta una continuazione popolare e con valore sensibilmente diverso del lat. alacer: da allegro si è poi ricavato l’astratto allegria (o allegrezza). Non lo prendiamo comunque in considerazione, perché allegro ci porterebbe su terreni in buona parte diversi da quelli che stiamo esplorando.

Che beatitudine, felicità, letizia siano solo parzialmente sinonimi si può comprovare dalla lettura di molti testi romanzi. Il primo acquisisce un carattere tecnico ed è essenzialmente usato in contesti ecclesiali (la beatitudine del Paradiso, le anime beate). Per provare la non perfetta sovrapponibilità di letizia e felicità mi limito a utilizzare un testo dei Fioretti di San Francesco: Francesco spiega a frate Leone in che cosa consista la perfetta letizia, e dopo avere indicato alcuni esempi di situazioni che non si possono comunque inquadrare in questa categoria, conclude che perfetta letizia è nel sostenere prove e tribolazioni per amore di Cristo:

«se noi questo sosterremo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia. (...) E però odi la conclusione, frate Lione. Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per lo amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare (...) Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo: Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo».

Si provi a sostituire letizia e felicità e si vedrà come l’operazione sia impossibile, perché la letizia richiama alla pazienza e all’allegrezza, ma nasce dall’accettazione di fatti negativi come la tribolazione e l’afflizione, mentre la felicità può nascere dalla realizzazione, voluta o casuale, di fatti anche esterni. Per questo, a differenza della felicità, che può non essere motivata (almeno completamente) dall’iniziativa personale, la letizia è il risultato di un cammino interiore, che porta anche all’accettazione e alla valorizzazione di fatti in sé negativi.


 



[1] R. Scalfi, Omelie, in “La Nuova Europa” 5/2013.

[2] Corominas-Pascual, sub voce. Il carattere semidotto della voce spagnola è garantito dal presentarsi relativamente recente delle prime attestazioni. Questo rende ragionevole l’ipotesi di un carattere semicolto anche nelle altre zone della Romània occidentale, anche se per it. felice non vi sono prove stringenti del suo carattere di cultismo, almeno sotto il profilo fonetico.

[3] Raggiungibile direttamente qui.

[4] J. Marouzeau, Le latin langue de paysans, in Mélanges Vendryes, Paris 1925, pp. 251-264; le tesi fondamentali dell’articolo vengono riprese anche in altri lavori, e in particolare cfr. Marouzeau, pp. 7 ss.; 108 ss..Altre parole nelle quali si riconosce un’origine agricola sono ad es. frugi, locuples, delirare (‘uscire dal solco), e il laetus di cui diremo più avanti. Su tutta la questione v. anche M. Morani, Introduzione alla linguistica latina, München 20022, pp. 67 ss. e 316 ss.

[5] P.es. ant. indiano dhayati ‘allatta’, gotico daddjan ‘allattare’, ant. slavo dojǫ ‘io allatto’ e molte altre. Pokorny, IEW, p. 242,sub voce *dhē(i).

[6] P.es. Nella forma con grado ridotto -mno in alumnus (‘che viene fatto crescere’) o columna (‘che gira intorno’).

[7] Anche in anche altre lingue indeuropee sono attestate forme di questa radice con questo stesso ampliamento P.es. gr. θῆλυς ‘femminile’, perfettamente corrispondente ad ant. indiano dhāru-, stesso valore. IEW, loc. cit.

[8] Felices arbores Cato dixit, quae fructum ferunt (Festo, p. 92).

[9] P.es Sen., Med. 895 sequere felicem impetum.

[10] Fragm. 5.

[11] P.es. gr. γαίω ‘gioisco, esulto’ (solo nell’Iliade), irl. guaire ‘nobile’.






Nelle figure:
1. Jean Baptiste Le Prince (1734-1781), Scena georgica cm. 30,5 x 38, ca. 1765, acquerello, British Mujseum
2. Beato Angelico, Predella di San Domenico, caa. 1423, particolare, National Gallery, London

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