Benedetto XVI e il latino
 

 

 

 

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Benedetto XVI e il latino

Intervista a Ivano Dionigi, magnifico rettore dell'Università di Bologna

Avvenire, 2 marzo 2013

Nello scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia in eredità alla Chiesa c’è anche una rinnovata attenzione al latino. Un amore, quello per la classicità, coltivato a lungo dal teologo Joseph Ratzinger e culminato nell’istituzione della Pontificia Accademia di latinità. Secondo il presidente del nuovo organo, Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, quella auspicata dal Pontefice tedesco non è un’attività da archeologi ma un’opera «di cultura» in grado di dare solide fondamenta a tutta la Chiesa e di rispondere alle domande del tempo attuale.

Professore, da dove nasce questa premura per il latino da parte di Ratzinger?
Da uomo colto quale è, nasce di certo dalla sua sensibilità, dal suo gusto estetico letterario. Ma a questo si aggiunge la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’«imperium», dello «studium» e dell’«ecclesia». Inoltre questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. Innanzitutto, infatti, essa è stata la lingua dei Padri della Chiesa, la lingua dei teologi, la lingua del diritto canonico, la lingua dei Concili, la lingua della liturgia. Poi è la lingua con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Infine, nella fissità di quella che tutti considerano una lingua morta si rispecchia l’immutabilità del nucleo della fede. È chiaro quindi che alcune letture della scelta di Ratzinger di rilanciare il latino sono limitate e banali. A spingere Benedetto XVI in questa direzione non è stata, come qualcuno ha detto, la volontà di ricomporre la frattura con i lefebvriani o un semplice ritorno al passato, ma qualcosa di più grande e complesso, qualcosa che viene da lontano. D’altra parte l’attenzione alla lingua e alla cultura latine – che andrebbero accompagnate anche con quelle greche classiche – è un’eredità che Benedetto XVI ha raccolto dai Pontefici suoi predecessori. E forse l’allarme è partito anche dal fatto che oggi pure tra il clero il latino è poco conosciuto.

Ma a cosa può servire il latino oggi alla Chiesa?
Negli ultimi tre lustri a forza di chiederci cosa serve e cosa non serve, in realtà, ci siamo tutti impoveriti. A forza di ragionare in questo modo ci siamo creati un deficit di pensiero e di attenzione all’anima, come ha ben compreso Benedetto XVI. Certo si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa ha ben altre priorità, come l’evangelizzazione. Ma con il "benaltrismo" si fa poco, anche perché io credo che oggi la riscoperta del latino non abbia solo un valore fondativo, di ritorno alle radici. In realtà questo rilancio può offrire un contraltare alla modernità, può essere sanamente e positivamente antagonistico al presente.

E in che modo questo sarebbe costruttivo?
Il latino è una lingua tutta imperniata sulla temporalità, sul verbo, è una lingua «sub specie temporis». Questo è il «di più» della riscoperta della lingua e della cultura latina oggi, in un momento in cui tutto è sincronico e c’è la dittatura del presente. In latino anche l’«ordo verborum», l’ordine delle parole, ti fa riscoprire la dimensione del tempo e la vita dell’uomo è tempo. Noi oggi abbiamo bisogno della storia. Inoltre il latino insegna la complessità.

Lei auspica, insomma, che tutti studino il latino?
No, non penso che tutti obbligatoriamente debbano sapere il latino. Ma credo che, come ha saputo ben cogliere anche Ratzinger, il latino sia una ricchezza da spendere. Per questo sono convinto della necessità che nella Chiesa e nelle università ci sia ancora chi capisce il latino, lo insegna e lo sa scrivere. È necessario per permetterci di continuare oggi a essere mediatori culturali: per tradurre i padri, gli autori classici e tutto il patrimonio della Chiesa bisogna sottoporre i testi alle sollecitazioni del tempo attuale e allora a domande nuove bisogna dare risposte nuove. È falsa, insomma, la contrapposizione tra i «progressisti» che sono per l’inglese e internet e i «conservatori» che sono per il latino.

Non c’è il rischio che il latino venga percepito come «lingua del potere» che allontana la Chiesa?
Io penso che la Chiesa debba continuare a farsi capire il più possibile e che anche in quest’opera debba guardare al latino come a uno strumento, non un fine. È vero, poi, che nel passato alcuni hanno fatto un uso ideologico dei classici, mettendoli al servizio del potere, ma il latino non è un fatto ideologico è un fatto culturale. Per usare un’espressione di Massimo Cacciari in realtà i classici non sono al servizio del potere, ma ci liberano dal potere, ci insegnano ad ascoltare senza ubbidire passivamente. D’altra parte l’attenzione ai nuovi media ha dimostrato che Ratzinger è un uomo sensibile al dialogo e l’amore per il latino rientra in questo solco. Il latino, insomma, a mio parere è un supplemento al dialogo in senso etimologico: avvicina al logos, insegna a parlare e a ragionare bene.

Cosa ha provato quando Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni in latino?
Ho pensato che non poteva darle se non in latino, in coerenza con l’annuncio dell’«habemus Papam». Un gesto in linea con il suo amore per questa lingua, che ha voluto affidare anche ai nuovi media. E poi giustamente quello era un contesto solenne, un Concistoro. Confesso, infine, di aver pensato che quell’annuncio dava un bel «vantaggio» al latino.

 



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