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Ecco perché è utile studiare ancora l’aoristo


di Cinzia Bearzot

 

Lo studio delle lingue classiche è stato spesso contestato, ora perché ritenuto espressione di un modello formativo troppo elitario e selettivo, ora perché considerato superato rispetto a discipline più «moderne» e meglio rispondenti agli interessi delle nuove generazioni, ora perché valutato come «poco utile». Nessuna di queste considerazioni, in realtà, può veramente mettere in discussione lo studio del latino e del greco. Non si tratta certo di discipline più difficili o selettive di altre, benché questo pregiudizio sia diffuso; quanto alla loro attualità, se non si vuole correre il rischio di rincorrere il nuovo a tutti i costi, richiede una equilibrata valutazione del rapporto fra tradizione e innovazione; infine, lo studio è un’attività orientata alla formazione, che serve a preparare personalità complete, culturalmente sensibili e per questo capaci, con l’elasticità tipica della formazione umanistica, anche di acquisire le competenze tecniche e le abilità necessarie nella professione. Nella vita di tutti i giorni, a rigore, non servono né i verbi deponenti e gli aoristi, né i logaritmi e la trigonometria: ma il fatto è che non si studia – non si deve studiare – solo ciò che «serve» nel quotidiano (o che può essere funzionale al mondo del lavoro). In una lezione all’Università di Yale, Donald Kagan, uno dei massimi storici statunitensi di storia greca, alla domanda «Perché studiare la storia della Grecia antica?», ha risposto: «Perché è terribilmente interessante». La risposta vale certamente anche per il greco e il latino: ma è ovvio che non può bastare, perché lo studio delle lingue classiche richiede un impegno decisamente gravoso, che va affrontato prima che possa svilupparsi negli studenti un interesse disciplinare sufficiente a motivarlo.
Nel tentativo di trovare argomenti cogenti per mantenere lo studio del latino e del greco nel nostro ordinamento scolastico, sono state spesso proposte considerazioni in un certo senso estranee a queste discipline. Proporre lo studio del greco e del latino come «allenamento » della mente è a mio parere scarsamente motivante: è facile obiettare (ed è già stato fatto) che lo stesso risultato si potrebbe ottenere aumentando il numero di ore di matematica o, per restare nel campo linguistico, introducendo lo studio del cinese o dell’arabo. Ad analoghe obiezioni si prestano quelle motivazioni che ritengono la conoscenza del greco e del latino necessaria per la comprensione dei linguaggi tecnico-scientifici, i cui termini derivano dalle lingue classiche: quasi che non si potesse imparare cos’è la dermatologia senza conoscere le radici greche della parola. Insomma, le motivazioni di carattere estrinseco possono essere motivazioni accessorie, ma non devono, a mio avviso, essere messe in primo piano, proprio perché intrinsecamente «deboli» e assai facilmente contestabili. Un argomento più interessante è quello che considera lo studio delle lingue classiche come un valido strumento per migliorare le competenze espressive nell’italiano parlato e scritto: una buona conoscenza di esse favorirebbe infatti una maggiore consapevolezza nell’uso dell’italiano per quanto riguarda ortografia, grammatica, lessico e sintassi. Fin dai primi anni Sessanta si è parlato, in verità, dello studio del latino in funzione dell’italiano, ma questa proposta non ha mai trovato applicazione sistematica nella didattica. Non sono mancati anche di recente inviti a sfruttare le potenzialità dell’insegnamento delle lingue classiche per la formazione di una matura coscienza linguistica, con possibile applicazione anche alle lingue moderne diverse dall’italiano, e per la comprensione profonda dei meccanismi della comunicazione in contesti culturali diversi: ma anche questa mi sembra una motivazione sostanzialmente estrinseca, che può essere invocata per il suo carattere accessorio, ma che non è di per sé sufficiente a giustificare il mantenimento dello studio del latino e del greco. La risposta che darei alla domanda «Perché continuare a studiare le lingue classiche?» è dunque la stessa che, da storica, darei a chi mi chiedesse perché dobbiamo dedicare tempo a studiare la storia del mondo antico e non, piuttosto, ad approfondire quella di epoche più vicine a noi. Perché il mondo antico ha elaborato idee, concetti, valori (persona, politica, libertà, democrazia, tanto per citarne alcuni) e ha inventato discipline (la storia, la filosofia, la filologia, la scienza) che sono alla base della civiltà occidentale e degli aspetti più significativi della sua cultura e del suo stile di vita: un patrimonio che viene considerato ormai acquisito senza, forse, una sufficiente consapevolezza della sua origine e della sua stessa fragilità. Di questo patrimonio è necessario alimentare la memoria per mantenere viva, attraverso di essa, un’identità consapevole. Se dunque lo studio del greco e del latino va mantenuto, è soprattutto perché la loro conoscenza è uno strumento imprescindibile di confronto interculturale, che permette di accedere a un patrimonio immenso di testi e di penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi, individuando le continuità e riconoscendo le alterità, senza accontentarci di una conoscenza superficiale degli elementi costitutivi della nostra tradizione culturale. Parlo, ovviamente, di una conoscenza linguistica sufficiente, se non ad affrontare una lettura diretta, almeno a verificare la bontà di una traduzione: non si tratta di tradurre Tucidide o Tacito a prima vista! Adeguate competenze linguistiche nel settore delle lingue classiche non dovrebbero, dunque, far parte di un sapere specialistico, ma essere un patrimonio culturale relativamente diffuso. Per questo considero pericolosa l’introduzione dell’opzionalità dello studio delle lingue classiche, spesso ventilata e presente, nel progetto di riforma ora in discussione, per il latino nel liceo scientifico e nel liceo delle scienze umane (è comunque prevista una riduzione delle ore di latino allo scientifico e soprattutto al linguistico; la possibilità di scegliere un percorso senza il latino è presente allo scientifico e al liceo delle scienze umane). L’introduzione generalizzata dell’opzionalità in altri sistemi scolastici europei, come quello francese, ha infatti così ridotto, nel giro di pochi anni, il numero di chi ha competenze in questo ambito, da costringere a cercare all’estero persone in grado di continuare a mantenere in vita gli studi classici nelle università e di garantire il reclutamento del futuro corpo docente: una situazione che una grande studiosa della grecità come Jacqueline de Romilly aveva previsto e che si era impegnata a evitare, rimanendo inascoltata. Del resto, l’attuale situazione socioculturale non incoraggia a sperare che studenti (e famiglie) resistano alla tentazione di scegliere percorsi facilitanti; l’opzionalità significherebbe dunque la scomparsa del latino (e del greco, qualora si ritenesse di estenderla) dalla scuola superiore. Forse non tutti si rendono conto del fatto che la buona conoscenza delle lingue classiche è un «di più» che i nostri giovani possono mettere in gioco in campo internazionale, dove trovano spesso grandi opportunità; non avrebbe dunque alcun senso distruggere una tradizione di formazione che ci rende ormai quasi unici per adeguarci a standard inferiori che hanno già mostrato inadeguatezza.
 

(«Avvenire», 11 marzo 2010)

 

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