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Tema esistenziale: viaggio per nave è il viaggio della vita 


Gli elementi tipici della metafora nave/stato sono riutilizzati nel ʼ300 dal Petrarca, ma il tema non è più politico. Nel Canzoniere il poeta canta  un unico oggetto, se stesso con o senza Lau­ra, da qui lʼunità dell’ʼopera. La nave in preda alla tempesta, le pene della navigazione diventano metafore della vita dell’ʼuomo e dei suoi travagli interiori.  
Passa la nave mia...
Passa la nave mia colma dʼoblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ʼ1 signore, anzi ʼ1 nimico mio.
 
A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ʼ1 fin par chʼabbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospirʼ, di speranze et di desio.
 
Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son dʼerror con ignorantia attorto.
 
Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra lʼonde è la ragion et lʼarte,
tal chʼincomincio a desperar del porto.

O cameretta... 
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie dïurne,
fonte seʼ or di lagrime notturne,
che ʼl dì celate per vergogna porto.
 
O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo verʼ me crudeli a sì gran torto!
 
Né pur il mio segreto e ʼ1 mio riposo
fuggo, ma più me stesso e ʼl mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;
 
e ʼl vulgo a me nemico et odïoso
(chi ʼ1 pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ho di ritrovarmi solo.
 
Il mare agitato e tempestoso metafora della condizione di affanno e angoscia del poeta era sempre stato fuori dal luogo della solitudine e del raccoglimento, ora invece entra anche lì e rende ancor più disperata la condizione del poeta
 
La vita fugge...
La vita fugge, et non sʼarresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;
 
e ʼl rimembrare et lʼaspettar mʼaccora,
or quinci or quindi, sí che ʼn veritate,
se non chʼiʼ ò di me stesso pietate,
iʼ sarei già di questi pensierʼ fora.
 
Tornami avanti, sʼalcun dolce mai
ebbe ʼl cor tristo; et poi da lʼaltra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;
 
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
 
Stanchezza mortale per la vita rappresentata dalla navigazione nella tempesta senza più punti di riferimento, la situazione è anche qui ancor più disperata in quanto la tempesta imperversa anche nel porto prima luogo di quiete e di serenità.
 
Carducci, “scudiero” dei classici, riprende il celebre sonetto petrarchesco.
Passa la nave mia sola tra il pianto (da Juvenilia 1851)
Passa la nave mia, sola, tra il pianto
De gli alcïon, per lʼacqua procellosa.
E la involge e la batte, e mai non posa,
De lʼonde il tuon, de i folgori lo schianto.
 
Volgono al lido, ormai perduto, in tanto
Le memorie la faccia lacrimosa,
E vinte le speranze in faticosa
Vista sʼabbatton sovra il remo infranto.
 
Ma dritto su la poppa il genio mio
Guarda il cielo ed il mare, e canta forte
Deʼ venti e de le antenne al cigolio:
 
– Voghiam, voghiamo, o disperate scorte,
Al nubiloso porto de lʼoblio,
A la scogliera bianca de la morte.
 
La descrizione della tempesta riprende la metafora classica di derivazione alceiana. Il forte valore avversativo del primo verso della prima terzina rende ancor più lʼopposizione fra i turbamenti interiori e la forza dellʼio che alfierianamente si erge contro vento e tempesta verso lʼoblio e la morte
 
In modo meno esplicito, probabilmente si può spiegare con questa traccia anche lʼabbondante e suggestiva produzione di ambiente soprattutto anglosassone maturata attorno alla leggenda del vascello fantasma. Qui la nave è  nera, popolata di fantasmi, mostri, spesso cadaveri, intrapprende una navigazione in solitudine ai limiti dellʼignoto. Lʼimmagine ricorre in:
E.A. Poe, Manoscritto trovato in una bottiglia
id. Gordon Pym, cap. X
Coleridge, Ballata del vecchio marinaio (1798)
R. Wagner, Olandese volante (1843)
Melville, Benito Cereno (1856)
Stevenson, Lʼisola del tesoro, cap. xxiv (1883)
 
La leggenda nasce nel Seicento allʼepoca degli avventurosi viaggi attorno al globo e allude allʼeterno errare di un olandese che volle contro il volere divino doppiare il capo di Buona Speranza. Le riprese sembrano costituire una inquietante metafora della vita dellʼuomo che si perde in unʼesistenza senza senso cioè senza significato e senza direzione, in preda a forze occulte che lo trascinano in un destino tragico, orrendo e mortale. 

 

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