"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

  HomeChi siamoLa rivistaTestiDidatticaAttivitàGuestbookVariaCerca

 

Rileggendo il libro VI di Livio (capp.11.14-20)

In occasione del bimillenario della morte di T.Livio ripubblichiamo la relazione tenuta dal prof. Alfredo Valvo al Convegno di Zetesis del 15/12/1985


Nel raccogliere il materiale per le Storie Tito Livio poteva attingere a numerose fonti – tutte annalistiche – narravano gli eventi del passato con sorprendente dovizia di particolari. Esse ci sono note: Q. Claudio Quadrigario, Valerio Anziete, G. Licinio Mauro, Q. Elio Tuberone sono gli annalisti del I secolo a.C. esplicitamente citati da Livio nei primi libri (1). Con l’eccezione degli Annali di Quadrigario, le loro opere iniziavano delle fondazione di Roma e dovevano presentare una ricostruzione della storia più antica della Città certamente ampia e a loro modo organica, ma anche incerta e poco attendibile, come attesta implicitamente Livio stesso al principio del VI libro: qui lo storico introduce il racconto della ‘seconda fondazione’ di Roma ad opera di Camillo promettendo maggior chiarezza (clariora) e maggior sicurezza (certiora). Va nonotato che ciò è concomitante con la possibilità di attingere all’opera di Quadrigario, che iniziava con il 386 a.C., anno dell’invasione gallica.

Beccafumi. Manlio Capitolino.Degli annalisti citati da Livio siamo in grado di ricostruire il caratteristico modo di procedere, o tecnica narrativa; una indagine approfondita conferma pienamente il giudizio di quanti considerano gli esponenti della storiografia romana, soprattutto di età repubblicana, e primi fra tutti gli annalisti, uomini di parte, impegnati e continuare con altri mezzi le battaglie iniziate nel Foro.
La base documentaria dell’annalistica in questione (che si suole denominare ‘seconda annalistica’: la ‘prima annalistica’ – quasi solo dei puri nomi se si eccettua Fabio Pittore, che è il primo a noi noto, e i frammenti di pochi altri autori – ha come limite inferiore l’epoca graccana o, al più, la fine del II secolo a.C.) era sicuramente costituita delle notizie contenute negli Annales Maximi, raccolti da Scevola nel corso del suo pontificato (a partire dal 130 a.C.; si comprende, dunque, il perché di una distinzione tra le fasi dell’annalistica che altrimenti può apparire arbitraria o dettata solo da motivazioni politiche). Tali notizie provengono certamente degli archivi dei pontefici, che le avevano raccolte anno per anno nel corso dei secoli (non si sa, tuttavia, e partire da quando), ma anche da archivi gentilizi, da elenchi non ufficiali di magistrati ed anche dalla tradizione orale, in particolare da saghe popolari; il tutto infiorato e corrotto da portenta, che dovevano pur essere spiegati. Se dunque la base era in certo modo comune, ciascun annalista elaborava il materiale a sua disposizione non con criteri che diremmo oggi ‘scientifici’ o che comunque fossero di ‘ricerca del vero’, ma secondo un criterio suo proprio, per lo più politico (la passione politica cresce e si radicalizza dopo le vicende graccane e ancor più dopo la guerra Sociale e le esplosioni di violenze intestina), ma spesso e volentieri anche di orgoglio gentilizio (in questo ‘brilla’ per spregiudicatezza Valerio Assiste: le gens Valeria è tra le più numerose dell’età repubblicana non solo per proprio merito ma, assai probabilmente, anche per avere avuto un annalista come l’Anziate tra i propri rampolli) o per altri motivi ancora, nessuno dei quali, tuttavia, contribuiva ad incrementare la percentuale dei racconti annalistici. Va da sé che uno dei procedimenti annalistici che rispondevano meglio all’utilizzazione politica (cioè alla strumentalizzazione) del passato era la trasposizione di motivi politici, di tensioni sociali, di lotte civili o tre i protagonisti di esse, nel passato, del quale, non conoscendosi che poche notizie o dovendosi d’altra parte riempire i vuoti abbondanti, si leggevano in chiave di storia contemporanea episodi che col presente avevano qualche somiglianza (e a distanza di tre, quattro secoli non poteva esservi più di questo). Accadeva. così che episodi o personaggi dei quali si avevano scarne notizie uscissero dai racconti degli annalisti rivestiti di panni ‘aggiornati’ e fossero per i lettori contemporanei (del I secolo a.C.) facilmente interpretabili come exempla: il passato sembrava aver già conosciuto ciò che accadeva allora, e non era senza importanza, per une retta interpretazione del messaggio politico, sapere ‘come andava a finire’. Esemplare in questo senso era il giudizio formulato da ambienti oligarchici in merito all’uccisione dei responsabili di sedizioni interne del passato, talvolta eliminati senza essere stati prima sottoposti a regolare processo: iure caesi: tale espressione era divenuta attuale al tempo della morte di Tiberio Gracco e tendeva ad assolvere moralmente i responsabili.
Tito Livio raccoglie nella sua opera, come un vero e proprio ‘bacino collettore’, gran parte delle alterazioni, falsificazioni e invenzioni dell’annalistica; il suo modo di procedere è, ciononostante, sicuro (sceglie una fonte secondo criteri di ampiezza e chiarezza, in base alle propria esperienza di affidabilità, e la segue per un tratto più o meno lungo) ma anche prudente (riferisce spesso versioni discordanti dalla principale o esprime un giudizio personale sulla attendibilità della tradizione) (2).
Quanto è stato detto fin qui, se da une parte dimostra quanta prudenza sia necessaria per affrontare una lettura critica del materiale storico di provenienza annalistica (soprattutto le narrazioni di Tito Livio e di Dionigi d’Alicarnasso, ma anche di altri autori come Plutarco e Cassio Dione, quest’ultimo per la parte iniziale, frammentaria) – mentre accade spesso che chi legge gli storici di Roma arcaica non si ponga sufficienti domande di fronte al loro contenuto storico (è la tendenza dell’ipocriticismo) – dall’altra non giustifica neppure un atteggiamento di scetticismo sistematico – sempre distruttivo – verso di essi (il cosiddetto ipercriticismo, del quale non mancano esempi e che talvolta – non di rado – genera interpretazioni ingiustificate, ad esempio ‘mitiche, di episodi del passato). Per leggere Livio e gli altri autori che presentano problemi di interpretazione analoghi occorre vagliare attentamente le notizie riferite, dimostrando prima che esse sono infondate storicamente e poi cercando eventuali spiegazioni di esse, che possono trovarsi nelle cause alle quali sopra si è fatto cenno; lavoro, questo, non facile per più di una regione: il materiale di confronto non è ampio, è anch’esso di difficile interpretazione, spesso non consente che labili raffronti e, soprattutto nella fase attuale di intensa ricerca archeologica, si presenta in certo modo in fieri (solo raramente i risultati possono dirsi consolidati e definitivi). Tra quanti negli ultimi anni hanno affrontato il ‘pianeta’ Livio – si passi questa concessione ai mores publicitarii – emerge per singolare conoscenza e rigore critico, ma soprattutto per buon senso ed equilibrio, l’opera di R. M. Ogilvie, al quale si devono un commento ai primi cinque libri dell’opera liviana (3), una nuova edizione critica di essi per i tipi della Bibliotheca Oxoniensis e, tra le altre cose, una sintesi ora in traduzione italiana Le origini di Roma (4).
Detto questo, veniamo al libro VI delle Storie liviane: esso, per i temi che vi sono trattati – soprattutto la sedizione di Manlio Capitolino, che occupa i capp. 11 e 14-20, e che costituisce l’oggetto precipuo di questa indagine – si rivela, ad una lettura condotta secondo i criteri esposti sopra, paradigmatico sia della tecnica compositiva liviana che, soprattutto, di quelle. dell’annalistica del I secolo a.C. L’ampiezza e le trasparenza del racconto permettono di riconoscere la temperie politica scelta come modello per le narrazione, i protagonisti che vi sono adombrati e, dal modo usato per descriverli, anche l’orientamento ideologico delle fonti (o utilizzato dalle fonti) di Livio. Vi si riconosce altresì una consistente unità, ma – è da osservare – ‘duplice’: è unitario il cap. 11, nel quale è anticipato lo svolgimento dell’intera vicenda di Manlio e sono esposti sinteticamente i temi portanti di esse – adfectatio regni, transitio ad plebem, magna vis aeris alieni – ma sono sostanzialmente unitari nel loro sviluppo e nella loro complessità di tesi e di tendenze anche i capp. 14-20.
Come si osserva per altri episodi del periodo arcaico (5), l’elaborazione ‘aggiornata’ delle vicende di Manlio ad opera dell’annalistica del I secolo sec., alla quale l’episodio offriva vasto campo d’azione, contribuì a cristallizzarne il contenuto, cosicché la narrazione liviana rispecchia la versione definitiva: quanto essa si discosti dal nucleo originale della Manliana seditio si può misurare facilmente considerando che Diodoro, il quale nonostante le carenze imputategli della critica moderna conserverebbe, secondo il Mommsen ed altri dopo di lui, la tradizione più antica (a noi nota) relativa a numerosi episodi dell’età arcaica, di M. Manlio (XV 35, 3) ricorda soltanto che ἐπιβαλόμενος τυραννίδι καὶ κρατηθεὶς ἀνῃρέθη. Per evitare di dilungarmi su aspetti non trascurabili ma meno evidenti, mi liniterò a trattare quelli che ei prestano meglio a rappresentare un paradigma d’indagine; anche la discussione in merito ad essi è sintetica e fa riferimento, nel caso, a trattazioni più ampie e particolareggiate (6). Dopo aver inquadrato brevemente l’episodio e descritto alcuni particolari relativi alle origini di Manlio (patriciae gentis vir et inclitae famae: 11, 2) e al suo carattere (nimius animi: 11, 3; vitio quoque ingenii vehemens et impotens: 11, 6), Livio racconta che primus omnium ex patribus popularis factus [Manlius] cum plebeiis magistratibus consilia communicare; ... non contentus agrariis legibus, quae materia semper tribunis plebi seditionum fuisset, fidem moliri coepit ... Et erat aeris alieni magna vis (11, 7-9). Se alcuni particolari del racconto – espressioni come allicere ad se plebem, aura (sott. popularis), fameque malae malle quam bonae esse (11.7) – sono da coneidorere ‘political clichés of the late Republic’ (7) e sortiscono l’effetto di ambientare ‘ideologioenente’ gli eventi nel clima del I secolo, altri – come l’ostilità di Manlio verso i principes, termine la cui connotazione anti-popularis non ammette eccezioni (8) – non sono casuali ma contribuiscono e suggerire la figura di Catilina come il modello più probabile della descrizione di Manlio. Ancor più significativa al proposito è l’affermazione di Livio che Manlio sarebbe stato il primo fra i patres a passare dalla parte dei populares (vd. sopra): dunque, un patrizio – come in realtà patrizia era la gens Manlia – orgoglioso e di natura violenta, che lascia i patres per passare ai populares. Popularis è termine non equivocabile: esso riconduce ancora al I secolo a.C. e comunque a non molto tempo prima di Mario. Sebbene un iter politico di questo tipo sia stato, a prima vista, comune a diversi esponenti populares (ad es., Gaio Gracco e Apuleio Saturnino), l’appartenenza di Manlio al patriziato comporta con tutta probabilità che il passaggio ai populares, per risultare politicamente utile, fosse preceduto da una transitio ad plebem, cioè da un cambiamento di stato: questo avrebbe consentito di rivestire il tribunato della plebe, e ciò dava. significato, cioè rendeva politicamente utile, un passaggio ai populares di un esponente del patriziato, tradizionalmente conservatore e attestato su posizioni di resistenza ed oltranza alle mene dei populares.
Prima della vicenda sediziosa imperniata su M. Manlio la tradizione liviana – pressoché l’unica in merito – riferisce di tre casi di transitio ad plebem: nel 448-7 (Sp. Tarpeius e A. Aternius), nel 439 (L. Minucius) e nel 401 (C. Lacerius e M. Acutius). Tutti e tre si dimostrano, per motivi diversi, non attendibili: essi appartengono alle pseudo-storia e sono probabilmente da collegare al desiderio di motivare o di valorizzare la lex Trebonia, che disponeva che l’elezione dei tribuni delle plebe continuasse finché fosse completato il collegio con dieci membri eletti; oppure all’orgoglio gentilizio della gens Minucia (nel caso del 439). Ma il primo caso di transitio ad plebem accertato e che coincise col passaggio alle parte dei populares è quello di Sulpicio Rufo, tr. pl. nell’88 a.C.; in seguito si ha notizia della transitio ad plebem di P. Clodio Pulcro e di P. Cornelio Dolabella: sia Sulpicio che gli altri due rivestirono il tribunato subito dopo essere entrati a far parte della plebe.
Gli avvenimenti dell’88 a. C. dei quali Sulpicio Rufo fu protagonista furono di una gravità senza precedenti: i suoi provvedimenti legislativi provocarono disordini intestini, e la marcia su Roma di Silla alle testa delle truppe che si apprestavano a partire per l’Oriente si concluse con una repressione durissima (tra l’altro il Senato deliberò che Sulpicio e altri undici fossero dichiarati hostes). Il ricordo di questi avvenimenti dovette pesare sul ricordo dei contemporanei e aiuta a comprendere lo sviluppo partigiano dato dell’annalistica del tempo, pressoché tutta di orientamento filo-oligarchico, a episodi remoti di sedizione, già noti e perciò più facilmente assimilabili.
Sebbene Sulpicio Rufo non facesse parte del Senato (ne avrebbe fatto parte, in virtù del plebiscito Atinio, dopo essere uscito di carica), ciò che Cicerone racconta di lui nel de har. resp. 20, 43: Sulpiciun ab optima causa profectun Gaioque Iulio consulatum contra leges petenti resistentem..., lo indica come un genuino rappresentante dell’oligarchia, di coloro cioè che si consideravano i veri esponenti della classe senatoria, dei patres, e ciò spiega a sufficienza l’espressione liviana ex patribus.
Resta ancora da aggiungere che l’episodio di Sulpicio Rufo dovette rappresentare il  precedente di una transitio ad plebem finalizzata ad una manovra anti-oligarchica: di qui l’invidia che da allora avrebbe accompagnato una simile scelta.
E’ possibile avanzare l’ipotesi che l’annalista al quale è da attribuire l’anticipazione degli eventi dell’88 nella vicenda di M. Manlio – si parla naturalmente della presunta allusione alla transitio ad plebem di Sulpicio Rufo che si può riconoscere nel cap. 11 – sia Claudio Quadrigario: così induce a ritenere l’analogia col fr. 8 Peter di Quadrigario (relativo a M. Manlio) nel quale sembra ancora Sulpicio Rufo ed essere richiamato (9).
Se le ragioni sin qui addotte possono giustificare il rifiuto della notizia liviana ex patribus popularis factus, non si può dire altrettanto per un motivo presente nel cap. 11, che assume importanza ancora maggiore nei capp. 14-20: la vis aeris alieni. Il problema dei debiti arrivò ad un punto di gravità mai raggiunto prima al tempo del consolato di Cicerone, tanto che lo slogan politico più sfruttato da Catilina fu la cancellazione dei debiti (tabulae novae): Catilina era sicuro in tal modo di andare incontro alle speranze dei più. In effetti, come si preciserà anche più avanti, la componente ‘catilinaria’ è presuntissima nella svolgimento dei capp. 14-20 così da rappresentare l’elemento unitario di essi e richiamando – ritengo – in modo lampante l’opera di Sallustio (non solamente la Congiura, ma anche le Historiae; non solo l’intonazione e il contenuto, ma anche l’impianto narrativo e il succedersi degli avvenimenti). Tuttavia, la questione dei debiti è molto sentita anche in età arcaica e non è solamente un problema romano: il nexum (la prigionia per debiti) è contemplato dalle leggi delle XII Tavole (tab. III) (10); inoltre, anche le circostanze storiche, come la necessità di ricostruire la città dopo la distruzione ad opera dei Celti (cf.: re damnosissima etiam divitibus aedificando contracta: 11, 9), possono spiegare la vis aeris alieni al temo di Manlio; problemi analoghi sono noti alla Costituzione soloniana. La legge Postelia Papiria provvide (tra il 326 e il 313 varroniani) ad abolire o almeno ad attenuare di molto la schiavitù per debiti.
Questo problema può aver costituito un trait-d’union assai forte tra il malato storico nel quale la tradizione collocava la Manliana seditio e l’anno 63, quando, secondo Cic., de off. II 24, 84: numquam vehementius actum est ... ne solveretur.
Nei capp. 14-20, prendendo l’avvio dalla questione dei debiti – l’episodio del centurione iudicatus e addictus è comunque un topos letterario – subentra lo schema narrativo dell’adfectatio regni, modellata sull’esempio più noto di essa: il tentativo di Catilina (e, naturalmente, sul racconto più celebre: quello di Sallustio); se i debiti possono aver rappresentato uno sfondo storico comune alle vicende sia di Manlio che di Catilina, l’adfectatio regni era l’unica accusa mossa a Manlio – secondo la. tradizione più antica, come si è detto – per la quale egli fu condannato e ucciso. Seguendo questa direttrice – aes alienum e adfectatio regni – la narrazione di Livio si arricchisce di particolari che precisano ancor più l’identificazione del modello sia storico (Catilina) che narrativo (Sallustio) per l’episodio di Manlio. Così la superbia patrum, la crudelitas feneratorum, le miseriae plebis (14, 3) richiamano termini ed espressioni pressoché identici di Sall. Cat. 33, 1; 33, 3; 40, 3; 35, 3; cf. Hist. III 48; sia Manlio che Catilina sono presentati entrambi accompagnati da guardie del corpo (Liv. VI 14, 3 e Sall. Cat. 14, 1; cf. Plut. Mor. 35, 2 relativamente a Sulpicio Rufo, e Cat. 26, 4 relativamente a Cicerone); l’opposizione plebea e la sua lotta per le libertà richiamano da vicino i temi della oratio Lepidi e della oratio Macri (Hist. I 55; III 48 Maurenbrecher). Perfino la successione degli eventi nelle ultime fasi preparatorie della seditio di Manlio è la stessa del racconto di Sallustio relativo alle riunione dei congiurati catilinari nell’imminenza dell’esecuzione del piano eversivo.
Nel cap. 14 compaiono anche motivi ‘cesariani’: liberator di 14, 5 richiama inequivocabilmente Cesare (che se lo attribuì dopo il 49) e le propaganda cesariana, in particolare il tema popolare della vindicatio in libertatem (cf. Imp. Aug. Res Gestae I 1).
I capp. 15 e 16 presentano ancora richiamo al fenus (15, 8) che evocano ancora reminiscenze ciceroniane; vi si colgono anche frammentari richiami catilinari (arbitrio inimicorum: 16, 1; cf. Sall., Cat. 31, 9; 34. 2) frammisti a brani di polemica anti-sillana (16, 5), a testimoniare il carattere assai composito di questa parte delle narrazione liviana.
Il cap. 17 richiama più da vicino temi presenti nelle Historiae sallustiane, in particolare nella oratio Macri, come l’ignavia della plebe, e netta è l’intonazione filo-popularis; tutto questo sembra logicamente riferibile a fonte anti-oligarchica e si potrebbe avanzare l’ipotesi che essa sia da identificare con Licinio Macro.
Col cap. 18 le somiglianze tra il racconto liviano e la sallustiana Congiura, in particolare il cap. 20 di queste, divengono più numerose e sensibili. Lo stato d’animo di Manlio (iram accenderat ignominia recens in animo ad contumeliam inexperto: 18,4) è lo stesso di Catilina in seguito alla dichiarazione di indignitas dell’a. 63 in Sall., Cat. 35, 3; cf. 31, 7. Anche l’esordio della lunga esortazione rivolta da Manlio alla plebe è inconfondibile: quousque tandem di 18,5 richiama Sall. Cat. 20, 9 ed entrambi i passi riproduoeno l’inizio delle I Catilinaria ciceroniana, e testimoniano, probabilmente, come l’espressione avesse avuto diffusione popolare.
L’esortazione di Manlio svolge il tema della libertà, imperniato sull’antitesi libertas ~ dominatio, prevalente – ancora una volta – tra i temi sallustiani nei passi di maggior impegno civile sia della Congiura (20, 6; 20, 14; 58, 11) che delle Historiae (I 55, 6; 26 sg.; III 48, 3; 4; anche 48, 12; 19; 28): dominatio e libertas sono le due facce di un altro tema propagandistico di parte popolare, la vindicatio in libertatem. Altri ancora sono i punti di contatto fra il racconto di Livio e quello di Sallustio. Si pone, naturalmente, anche un problema di dipendenza: se, come pare, in Livio sono confluiti anche temi ed espressioni provenienti dalle Historiae sallustiane, bisogna considerare il 35 a.C., anno della morte di Sallustio – che alle Historiae lavorò fino alla fine della vita – come il termine post quem per datare la fonte intermedia utilizzata. da Livio per l’episodio di Manlio; come si vede, essendo la composizione del libro VI databile fra il 25 e il 20 a.C., resta un margine di tempo assai ridotto entro il quale collocare l’opera annalistica dalla quale Livio ha tratto il suo materiale e ciò deve essere avvenuto poco tempo dopo che essa era stata scritta; l’unico annalista che ‘risponde’ a tali indicazioni cronologiche è Elio Tuberone, di certo il più giovare tra quelli nominati da Livio, e del quale si è gia ipotizzato, sulla base della probabile attribuzione di frammenti adespoti, che abbia scritto negli anni ‘trenta’ prima di Cristo.
La conclusione del cap. 18 introduce l’adfectatio regni di Manlio, che sarà svolta nel capitolo seguente, ma con un corredo di notizie palesemente anacronistiche – Senatus consultum ultimum e dichiarazione di hostis per Manlio: tipici elementi di I secolo – sebbene essa. rappresenti l’unica accusa sicura, almeno tradizionalmente, mossa a Manlio e per la quale fu giudicato e ucciso. (Livio, a 20, 4, esprimerà comunque la sue. perplessità non trovando alcuna prova. del crimen regni tra le accuse rivolte a Manlio dei suoi accusatori).
Nel cap. 19, accanto a motivi già noti, è presente il tema dei iure caesi, di cittadini, cioè, cagione di mali per l’intera cittadinanza ed eliminati in modo sommario: Magna pars vociferantur ‘Servilio Ahala opus esse, qui non in vincla duci iubendo inritet pòublicum hostem, sed unius iactura civis finiat intestinum bellum’ (19, 2).
Il collegamento con le vicenda di Catilina è trasparente: Servilio Ahala evoca l’episodio  di Spurio Melio, al quale Catilina fu avvicinato; ma, indirettamente, vengono richiamate anche le conseguenze subite da Cicerone, ad opera di Clodio, per aver eliminato alcuni congiurati privandoli arbitrariamente del diritto di provocatio (come aveva fatto Servilio Ahala con Sp. Melio).
Il collegamento con gli eventi dell’anno 63, costantemente osservato, indica che accanto e quelli del 133 (anno del tribunato di Tiberio Gracco) e dell’88 (tribunato di Sulpicio Rufo), l’annalistica ebbe presenti i fatti del 63: è questo m criterio non secondario per stabilire il termine post quem – in questo come in altri casi di narrazione di provenienza annalistica – almeno per escludere certe possibili attribuzioni se non per individuare quella giusta. Inoltre, la. presenza di certi temi apre uno spiraglio su alcune problematiche d’attualità che l’annalistica involontariamente ci fa conoscere attraverso la (pseudo) storia arcaica: così., ad esempio, è per i iure caesi, come si è visto, e anche per il Senatus consultum ultimum, presentato positivamente nel cap. 19, che è senz’altro di intonazione filo-ottimate e quasi ‘ciceroniano’. Nell’anno 63 era scoppiata una polemica. intorno al S.C.U. orchestrata ed arte da Cesare, che ne contestava la legittimità e quindi la validità. Fu incriminato un anziano cavaliere romano, G. Rabirio, che trentasette anni prima avrebbe concorso nell’uccisione di Apuleio Saturnino dopo che il Senato aveva proclamato il Senatus consultum ultimum. L’evidente pretestuosità non impedì che si cogliesse il bersaglio, cioè il Senato. Di tutto questo siamo ben ragguagliati dell’orazione pro C. Rabirio perduellionis reo, che Cicerone pronunziò in quell’occasione.
Per concludere veniamo al cap. 20. Esso appare meno elaborato alle luce della vicenda catilinaria ma contiene due notizie che si rivelano, per altre vie, del tutto attendibili. La prima, di carattere pubblico, riguarda il divieto fatto ai petrizi di abitare sul colle capitolino (arx et Capitolium). Grazie alla conoscenza dell’onomastica romena è dimostrabile che a, partire della metà del IV secolo a.C. Capitolium che, nonostante quanto credeva lo stesso Livio (V 31,2), non è cognomen ex virtute bensì ‘geografico’ – non compare praticamente più: ciò conferma che nessun patrizio (e nemmeno plebeo) abitò più sul colle capitolino. Questo tuttavia non sarebbe seguito alle Manliana seditio, ma sarebbe conseguenza di un provvedimento urbanistico che aveva le funzione di liberare dalle abitazioni civili quel luogo, destinato ad area sacra.
Con la seconda, di carattere gentilizio, fu deliberato dalla gens Manlia che più nessun membro di quella gens avesse come praenomen Marco e, in effetti, non ci è noto più alcun Manlio che portasse quel praenomen (11).

 

 Nell'immagine: Marco Manlio fatto precipitare dal Campidoglio, affresco di Domenico Beccafumi, 1529-1535, Palazzo Pubblico (Siena).


 NOTE

(1) Vd. H. Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, I2, Leipzig 1914 = 1967, pp. cclxxv-ccciv, 205-237 (Quadrigario); cccv-cccxxxii; 248-275 (Anziate); cccl-ccclxv; 298-301 (Licinio Macro); ccclxvi-ccclxxiii; 308-312 (Elio Tuberone); P. O. Walsh, Livy. His Historical Aim and Method, Cambridge 1961, pp. 110-137; R. M. Ogilvie, A Comentary on Livy, Books 1-5, Oxford 1978 = 1970, pp.  5-17.

(2) Walsh, Liv., cit., pp. 138-190. La bibliografia generale e specifica in proposito è vastissima: per un orientamento si vedano: H. Kissel, Livius 1933-1978: Eine Gesamtbibliographie, in «A.N.R.W.» II 30,2, Berlin-New York 1982, pp. 899-997; J. E. Phillips, Current Research in Livy’s First Decade: 1959-1979, ibid., pp. 998-1057. Tra i più noti lavori sulla storiografia classica si vedano i saggi contenuti nei Contributi alla storia degli studi classici e delmondo antico, Roma 1955 (I) - 1984 (VII), di A. Momigliano. Inoltre E. Gabba, True History and False History in Antiquity «JRS» LXXI (1981), pp. 50-62; Id., Letteratura, in AA.VV., Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984, pp. 11-83.

(3) Vd nota. 1.

(4) Bologna, Il Mulino, 1984.

(5) Ad esempio, quello di Sp. Cassio, Sp. Melio, Appio Erdonio, ecc.: riferimenti in Valvo, op. cit. (nella n. 6), passim.

(6) Per questo o ciò che segue vd. A. Valvo, La sedizione di Manlio Capitolino in Tito Livio, «MIL», Cl. Lettere-Sc. Mor. e Stor., XXXVIII 1, Milano 1983, pp. 5-64.

(7) Ogilvie, Commentary, cit., p. 457.

(8) Sulla terminologia caratteristica delle fazioni in Roma in età repubblicana. vd. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, Paris 1972.

(9) A. Valvo, Manlio Capitolino in Claudio Quadrigario (fr. 8 Peter), «MGR» VII, Roma 1980, pp. 311-324.

(10) Fontes Iuris Romani Antiqui, edd. 7 Bruns-Gradenwitz, pp. 20 sg.

(11) A. Valvo, Il cognomen Capitølinus in età repubblicana e il sorgere del1’area sacra sull’arce e il Campidoglio, «CISA» X, Milano 1984, pp. 92-106.

 

 


Condividi su Facebook
                   

 

Print Friendly and PDFCliccando sul bottone hai questa pagina in formato stampabile o in pdf
Per tornare alla home
Per contattare la Redazione


Questo sito fa uso di cookies. Privacy policy del sito e autorizzazione all'uso dei cookie: clicca qui