Insegnare Platone
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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Insegnare Platone

Annotazioni su un'esperienza didattica in terza liceo scientifico

di Santina Ubiali, Liceo Scientifico Enriques di Lissone (MI)

(da Zetesis 2000)

 

Con Platone prima di Platone

Lo studio di Platone, in terza liceo scientifico, coincide con l’introduzione alla storia della filosofia, anche se l’inizio dell’avventura filosofica ci riporta ai tempi più remoti e ai differenti orizzonti delle colonie greche, a Talete, ai Milesi quando "nella cornice incantata della natura egea, profusa di luminosa bellezza, (...) l’uomo interroga la natura, avverte che nelle cose è nascosto un valore più grande del loro valore d’uso o di scambio, fiuta la possibilità di carpire il senso del loro esistere, (...) comprende che una profonda e sapiente razionalità è al principio di tutte le cose (...) Il logos, (...) l’arché" (nota 1).

L’esperienza filosofica, infatti, prende forma prima della sua formulazione come disciplina. Se l’invenzione del termine ci riporta, presumibilmente, a Pitagora, per riflettere sulla identità e sull’origine della filosofia occorre riferirsi a testi platonici: "Infatti è veramente proprio del filosofo questo πάθος, il provar stupore; né vi è altro cominciamento all’origine della filosofia se non questo" (cfr. Platone, Teeteto 155).

M. Heidegger, commenta così il celeberrimo passo del Teeteto: "Il provar stupore, in quanto πάθος è l’ἀρχή della filosofia. Occorre comprendere la parola greca nella pienezza del suo significato. Essa si riferisce a ciò da cui qualcosa trae origine. Ma questo "donde" (...) non viene lasciato cadere; l’ἀρχή diviene piuttosto, in consonanza con quanto dice il verbo ἄρχειν ciò che incessantemente domina. In tal modo il πάθος dello stupore non si trova semplicemente all’inizio della filosofia come, ad esempio, il fatto di lavarsi le mani precede un’operazione chirurgica. Il provar stupore sorregge la filosofia e la domina dall’inizio alla fine" (M. Heidegger, Che cos’è la filosofia, Genova, Il Melangolo, 1981, pp. 39-40).

Il famoso passo del Simposio, in cui Socrate riferisce il discorso della sacerdotessa Diotima (Simposio 55-118), suggerisce di mettere a tema la filosofia stessa come domanda, come desiderio di bellezza e di felicità. Il mito di Eros, figlio di Poros e di Penia, e la stessa insolita posizione di Socrate in figura di discente alludono alla duplice analogia tra destino demonico e destino di Eros, e tra Eros e il filosofo, la condizione intermedia, il trovarsi a metà strada tra ignoranza e sapienza, tra povertà e ricchezza, tra umano e divino (nota 2).

Si deve osservare, inoltre, che solo a partire dallo studio diretto di Platone è possibile acquisire una terminologia filosofica essenziale. E’ con Platone che viene definito lo statuto epistemologico di ciò che la tradizione occidentale chiama filosofia. K. Jaspers nota che "Platone è il fondatore di ciò che soltanto da lui in poi porta il nome di filosofia nel senso pieno. Intendere Platone non significa commisurarlo a un concetto precedente di filosofia, ma farne misura di valutazione di ciò che è venuto dopo di lui e di se stessi, sia che lo si segua o sia che si faccia qualcosa di completamente diverso" (K. Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano, 1973, p. 326).

A. N. Whitehead suggerisce che tutta la storia della filosofia occidentale non sia che una serie di annotazioni sulla filosofia platonica. Nella didattica della storia della filosofia vale anche il "rovescio": l’incontro con Platone, attraverso i suoi scritti, precede lo studio diretto e sistematico del suo pensiero e assume, bgià all’inizio del corso, la forma di un rapporto destinato ad approfondirsi.

Filosofia e mondo greco

L’incontro con Platone non può avvenire senza un’introduzione al mondo greco.

L’organizzazione del piano di studi del liceo scientifico rende questo approccio difficile per molte ragioni. L’assenza dello studio della lingua e della letteratura greca, il numero minore di ore di insegnamento della filosofia e il quadro più articolato delle discipline non facilitano la "immersione" nell’"ambiente" greco.

La contestualizzazione della filosofia risulta ancora più ardua a partire dalla recente riforma dei programmi di storia. A tre anni dall’introduzione della nuova periodizzazione, è già possibile una prima valutazione "sul campo". La contrazione dei tempi di studio della storia antica, durante il biennio, e della storia greco-romana in particolare, sfuma lo spessore evenemenziale, l’accadere dei fatti storici, rendendo più faticosa la formazione negli studenti del sentimento di appartenenza a una storia dalle radici remote e assottigliando la percezione della consistenza del proprio io. Tali modifiche, inoltre, accentuano il divario tra lo studio della storia della filosofia e lo studio della storia greca tout court, facendo diventare assai problematica la riattivazione delle conoscenze. La filosofia greca rischia, così, di essere meno comprensibile nella sua genesi, nella sua identità e nei suoi nessi con il complesso panorama della cultura e della spiritualità greca classica e arcaica.

L’obiettivo svantaggio di questa situazione può, però, essere trasformato in una sfida, facendo incontrare il mondo della Grecia classica attraverso il "varco" della filosofia antica e di Platone in particolare, nella cui opera risultano ripresi, discussi e sviluppati molti dei tentativi filosofici precedenti, e valorizzati ed elaborati filosoficamente contenuti profondamente inscritti nella mentalità greca e nella cultura mitica. Platone, infatti, assume nella filosofia stessa la forma poetica e mitica della sapienza antica ed arcaica (nota 3).

Platone, la filosofia e la domanda sulla verità

Per cogliere sinteticamente la nostra appartenenza al mondo greco e alla storia della filosofia è sufficiente riflettere su un’esperienza consueta, elementare: ogni volta che noi formuliamo una domanda dichiariamo, con ciò stesso, che siamo greci.

"Platone mi ha sempre affascinato, e in questo mi trovo vicinissimo a lui, per il fatto che insisteva sulla dialettica di domanda e risposta". H. G. Gadamer ha spiegato così la sua predilezione per Platone, la sua immanenza alla tradizione platonica. Commentando un incontro con un gruppo di studenti napoletani ha poi aggiunto: "Questi sono gli anni in cui si comincia a porre domande, in cui inizia la filosofia. Alcuni poi continuano e restano così perennemente giovani" (G. Reale Intervista a Gadamer, Il sole 24 ore, 6 ottobre 1996).

M. Heidegger fa notare che già l’ascolto della parola filosofía ci riporta alla sua origine greca, vincolandoci a una tradizione storica alla quale apparteniamo a tal punto che "non possiamo porre la domanda: che cos’è la filosofia, senza affidarci a un dialogo col pensiero del mondo greco". Greco – prosegue Heidegger (op. cit. pp 15-17 passim) – "non è solo l’oggetto della domanda, ma il modo in cui la domanda è posta e più in generale il modo in cui ancor oggi si pongono domande, e sono stati Socrate, Platone e Aristotele a sviluppare questa forma del domandare, il tí æstin che campeggia in domande quali, che cos’è ciò - il bello o la conoscenza o la virtù?".

Domandare, porre al centro l’interesse per il significato, camminare verso la verità, tutto questo si chiarisce nell’esperienza del dialogo, cioè dell’incontro (v. più avanti), come emerge da un brano del Filebo particolarmente suggestivo: "Socrate – Dunque, Protarco, non nascondiamoci la diversità del mio e del tuo discorso, ma centriamola bene, e osiamo indagare se, messi alla prova, in qualche modo ci rivelino se bisogna asserire che il bene è piacere, o pensiero, o una terza cosa diversa. Ora, infatti, senza alcun dubbio, non stiamo gareggiando al fine che risultino vincenti le mie piuttosto che le tue affermazioni, bensì dobbiamo entrambi combattere, come alleati, in vista di quello che è assolutamente vero" (nota 4).

Un’esperienza :"Ex umbris et imaginibus in veritatem".

Il motto scelto come epitaffio da J. H. Newman è diventato il logo di un interessante esperimento. Con gli studenti di terza liceo ho iniziato lo studio diretto di Platone con la lettura drammatizzata del mito della caverna (Platone, Repubblica 514 a-518 b), chiedendo, poi, di mantenere un costante riferimento a questo testo nel corso dell’intera unità didattica sul pensiero platonico, quasi come una cornice all’interno della quale disporre gli "atti" dello studio. In questo modo ho rovesciato il procedimento del manuale in adozione (G. Reale, D.Antiseri, Storia della filosofia vol. 1, La Scuola, Brescia 1997), nel quale il riferimento al mito della caverna chiude la trattazione e viene commentato in chiave riassuntiva, come silloge del pensiero platonico, nelle sue valenze fondamentali, ontologia, gnoseologia, ascesi, politica.

La nostra indagine è partita dall’esperienza della potenza evocativa del testo e del mito. Con tale lettura ci siamo collocati in un punto focale dell’itinerario speculativo platonico e abbiamo provato a fare nostro il dramma rappresentato, aderendo all’invito contenuto nell’incipit del Libro VII del dialogo: "... paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa (...) Immagina (...), vedi (...). Immagina (...), vedo".

Così il dramma degli uomini incatenati diventa il mio dramma. Vedo me stesso sullo schermo del mito: sono io lo schiavo incatenato che resta incatenato, ma sono anche lo schiavo sciolto dai lacci, che inizia l’affascinante e faticosa salita, e miei sono gli occhi due volte feriti; sono io lo schiavo liberato che, vinto dalla compassione, torna dai compagni di pena per condividere la sua scoperta; sono io lo schiavo al quale si apre il bivio: restare nel regno delle ombre o intraprendere il cammino verso la luce!

In questa identificazione ci sostiene una acuta osservazione del filosofo polacco S. Grygiel: "La nostra situazione ricorda la situazione degli uomini nella caverna, dove essi ‘stanno in catene fin da fanciulli; hanno i piedi e il collo incatenati, sì da essere costretti a rimanere fermi nello stesso posto e a guardare solo davanti a sé; le catene non consentono loro di volgere il capo all’indietro. Dall’alto e da lontano cade su di essi la luce di un fuoco che brucia alle loro spalle’ (512 b). Sulla parete davanti a noi vediamo solo delle ombre che si formano per il fatto che tra la sorgente di luce e la parete si trova una qualche realtà: soprattutto noi stessi con le cose da noi prodotte. Ma non vediamo né noi stessi, né ciò che è attorno a noi. Tutto ciò che scorgiamo sono le ombre nostre e le ombre degli altri esseri proiettate sulla parete. E ad esse riduciamo tutta la realtà" (S. Grygiel, "L’uscita dalla caverna e la salita al monte Moria" in L’uomo visto dalla Vistola, Cseo, Bologna, 1978, p. 115).

Studio e ricerca assumono, in questo modo, un carattere avventuroso e ciascun lettore-studente diventa protagonista di questo viaggio della coscienza, quasi come in un "romanzo di formazione". L’immedesimazione nel testo è l’inizio di un dialogo tra lettore e autore. Emozione e immaginazione possono introdurre ad una conoscenza.

Il dialogo con l’autore implica, inoltre, la comprensione del testo che, a sua volta, richiede l’ascolto della parola greca. L’uso di una traduzione con testo greco a fronte permette di individuare alcune parole chiave nella loro espressione originale. La lingua greca è più "densa" della nostra ed è essenziale rilevare, per esempio, le differenze di significato di alcuni termini descrittivi dell’atto conoscitivo, che sono gravide di conseguenze e implicazioni decisive per l’intero orizzonte del pensiero. Nel testo colpisce l’uso ricorrente dei verbi ὁράω "vedo" e σκοπέω "cerco con lo sguardo", che subito rinviano alla concezione eidetica della conoscenza, tipicamente ellenica: conoscere è vedere, imbattersi in una presenza. "Il cominciamento del pensiero ha la sua causa nello stupore che l’uomo prova di fronte a qualcosa (qualcuno) che gli si fa presente. Tra la presenza e la coscienza si dà come uno scarto, un dislivello, una distanza che desta un’attesa e muove nell’uomo il balbettio di una domanda: "e tu cosa (chi) sei?". La conoscenza ha inizio come dialogo tra una presenza che si disvela e una coscienza che si dischiude. Conoscere è dunque nell’uomo, sin dall’inizio, riconoscere una presenza: qualcosa (qualcuno) gli sta davanti, altro e diverso, fatto e dato, distante e prossimo, ignoto e donato, offerto all’uomo in un disvelamento che desta meraviglia, stupore e domanda" (Nota di redazione, Il Nuovo Areopago, a. 8 n° 2 estate 1989). Siamo qui su un crinale decisivo per quanto riguarda la concezione della ragione. Non è questo il luogo per approfondire un tema così capitale. Basti l’accenno a indicare il peso delle parole!

Da ultimo si deve indicare l’importanza della traduzione. Non è indifferente, ad esempio, rendere i verbi "eidetici" con termini di significato corrispondente quali "immagina", "vedi", "vedo", oppure con i più generici "pensa", "considera". Nel secondo caso è meno trasparente il giudizio sulla dinamica della conoscenza, che emerge inequivoco nella lingua originale. Per questo motivo è importante affiancare traduzioni diverse dei medesimi brani ed evidenziarne le differenze interpretative.

Dopo aver considerato la questione del testo abbiamo potuto opportunamente proseguire affrontando i temi del rapporto di Platone con Socrate e della dottrina ontologica e gnoseologica, con lo sguardo fisso, sullo sfondo, allo scenario del mito come "mappa" dei significati fondamentali e come indice di letture già fatte e da farsi (nota 5).

Verso un approfondimento critico: la questione del mito e della scrittura

Il mito: Platone e il μυθολογεῖν.

Possiamo qui solo accennare alla discussione sul significato della massiccia presenza di miti nell’opera platonica. Nell’ambito della critica filosofica contemporanea la questione è tutt’altro che conclusa. La stessa molteplicità di significati attribuita da Platone al termine mûqoj continua a sollecitare indagini. Chi si riconosce all’interno dell’ermeneutica di matrice idealistica, positivistica o iper-razionalistica tende a negare il valore conoscitivo autonomo del mito. Chi segue la scuola di Heidegger ipervalorizza il mito come riassuntivo del logos finendo con il diffidare dei procedimenti logico dialettici (una presentazione interessante di questa discussione si trova nell’introduzione generale di G. Reale in Platone, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano, 1991, pp. XXXI-XXXIV.). La questione del mito risulta tanto complessa perchè implica, in ultima analisi, la posizione che si assume sulla ragione e sul suo rapporto con la realtà, cioè la questione del significato, dell’origine, del mistero. E qui ci si divide! L’interpretazione del mito riflette, infatti, le opzioni di fondo.

Una cosa è certa: non si può capire Platone se lo si legge solo come logico-dialettico (nota 6), perché "i miti non sono semplici aggiunte, delle allegorie o delle escursioni nelle regioni superne che hanno luogo quando capita l’occasione; questi miti sono invece un fattore costitutivo del pensiero platonico. (...) I miti platonici non potranno mai essere presi abbastanza sul serio, non solo per il loro contenuto, poiché essi costituiscono una rappresentazione essenziale della teoria delle idee, ma anche per la funzione che svolgono nella struttura di questo pensiero. Potremmo dire che sono il tentativo di esprimere ciò che sfugge alla formazione soggettiva del concetto" (Th. W. Adorno, Terminologia filosofica, Torino, 1975, pp. 478-482 passim).

Per cogliere il valore conoscitivo del mito W.Otto propone di partire dallo studio del termine. L’analisi etimologica di μῦθος ~ λόγος  indica un rapporto di anteriorità e interdipendenza tra i due significati: "λόγος = parola " nel senso di ciò che è pensato, ragionevole; μῦθος, più antico, arcaico = "parola" come immediata testimonianza di ciò che fu, è e sarà, un’autorivelazione dell’essere nel senso più degno e antico che non distingue fra parola ed essere (...). Il mito non va assolutamente tradotto (...), né esso è "esatto" o "inesatto", Esattezza e inesattezza sono procedimenti del pensiero. Ma ogni ragionamento, che può essere esatto o inesatto, presuppone un’intuizione di fondo, un’esperienza di fondo, una concezione di fondo, le quali non consentono più una critica razionale, poiché appartengono all’essere stesso dell’uomo, risultando così generalmente inconsce (...). Qui non c’è più "esattezza", ma "verità". "Vero" è soltanto quel che è dato all’uomo nel suo essere uomo (...); é quel che per primo mette in movimento il suo pensiero (anche quello puramente logico) ma che dal "pensiero "non può essere ... giudicato "esatto" o "inesatto" – l’esperienza originaria dunque, che si può anche chiamare rivelazione." (W. Otto, Il mito, ed. Il Melangolo, Genova, 1993, pp 30-33).

La scrittura ovvero la questione della verità e del dialogo (ovvero solo l’incontro ospita la verità).

Il finale del Fedro, centrato sul racconto del mito di Theuth, è un vero e proprio manifesto programmatico di Platone filosofo e scrittore (nota 7). Per l’interpretazione di questo testo, che ha per tema il fatto stesso di scrivere, di fare cioè del sapere e della verità un oggetto della scrittura, alcune considerazioni stilistiche possono essere particolarmente illuminanti. Platone, come in altri passaggi decisivi della sua filosofia (v. Socrate-Diotima nel Simposio), non fa parlare direttamente Socrate, che, infatti, dice: "ho sentito narrare". Socrate è, cioè, portavoce di "un racconto degli antichi" che "conoscono la verità". Questa sapienza non ha la forma di un’argomentazione, ma di un mito. Le verità più profonde sono custodite dal mito, che è una forma di sapienza più antica della filosofia. La filosofia, dunque riceve la verità, non la produce, ma ha il compito di esaminare ciò che riceve.

La distanza temporale e spaziale (Egitto), l’alone sacrale dell’intero racconto (Theuth è un dio e Thaumus è un re) definiscono la cornice delle osservazioni sulla scrittura, enfatizzando il tema della trascendenza della verità.

L’irriducibilità dell’esperienza del dialogo alla sua "registrazione" scritta viene espressa da Platone con il modulo realtà-immagine: "I discorsi più veri, più belli e validi non sono quindi quelli che si scrivono nei rotoli di carta, ma nelle anime degli uomini" (Fedro 276 e; 278 a). Quelli che si scrivono sulla carta non sono che ‘immagini’ pallide dei discorsi viventi e animati e, quindi, di rango nettamente inferiore (ibidem 276).

Platone e noi... (un esempio)

Un’ultima osservazione da Platone sulla questione dei linguaggi e del rapporto linguaggio- verità.

La critica di Platone all’identificazione tra sapere e scrittura va certo contestualizzata nella svolta in atto al suo tempo, tra cultura dell’oralità e cultura della scrittura e nell’ambito della discussione socratico-platonica con esponenti della sofistica (nota 8). Essa è, però, potente e suggestiva anche rispetto a orientamenti neonominalistici e "scetticheggianti" presenti nella cultura contemporanea. Platone, infatti, rifiuta la riduzione del sapere a tecnica e critica la pretesa di sostituire l’istruzione all’educazione, riproponendo come irriducibile dinamica della conoscenza il dialogo tra anime impegnate nella ricerca della verità e come luogo della coltivazione dell’umano il rapporto vivo tra discepolo e maestro.

I sostenitori della cosiddetta svolta linguistica, invece, radicalizzando istanze funzionalistiche e prassistiche, dichiarano inattuale e pericolosa la domanda sulla verità e sostengono l’intrascendibilità della lingua e delle immagini: i mezzi linguistici, l’informazione e l’interpretazione non si riferiscono, secondo loro, a contenuti fuori dell’ambito linguistico. L’abbandono della certezza del valore intenzionale dei linguaggi destituisce il significato di ogni discorso. In questo orizzonte tanto il soggetto quanto l’oggetto della conoscenza risultano aboliti, dissolti nella rete di giochi più o meno virtuali. Ma Platone mette in guardia dal lasciarsi prendere la mano da un metodo filologico con una conseguente progressiva perdita di realtà.

 

(nota 1)

F. Ricci, Genealogia dell’identità europea, in "Il Nuovo Areopago", n°1, 1982. L’avventura della filosofia greca, iniziata con Talete tra VII e VI sec. a.C., coincide con la scoperta di una nuova possibilità di incontro con la realtà del mondo e delle cose, con la scoperta di una intelligibilità del mondo differente da quella offerta dal mito, quella del logos e dell’empeiria. I sofisti e Socrate riprendono su un piano politico e antropologico questa via del pensiero e dell’esperienza, percorsa arditamente e non senza aporie dai filosofi della physis. Socrate, in particolare, conquista quel punto di vista che appare dissolto nella dialettica sofistica. Nell’esperienza del dialogo l’uomo, la sua psyché si rivelano dimora consapevole del logos; la via dell’esperienza e del logos diventa ethos dell’incontro. Si apre così un nuovo cammino: la via della vita nella verità. Platone approfondisce il dialogo socratico sviluppandolo in senso speculativo e letterario; egli non solo riunisce ontologia e antropologia scisse, sia pure in modo differente, sia nella ricerca presocratica che nell’esperienza sofistica, ma riconcilia anche logos e mito nel suo mythologhein.

 

(nota 2)

Illuminante, a questo proposito, un commento di Heidegger: "Il fileîn tò sofón (...) divenne così una 3rexij, una tensione verso il sofón, ma una tensione particolare in direzione del sofón, il fileîn tò sofón diviene "filosofía". La tensione di quest’ultima è determinata dall’Eros", op. cit. p. 25. (a proposito della questione degli intermediari e del "legame" di Eros v. anche Liside, 218 c-220 b e Gorgia, 507 d-508 a).

 

(nota 3)

Tale polivalenza è ben esemplificabile andando dritto al centro del del messaggio platonico, la scoperta dell’essere metempirico: la realtà che colpisce i nostri sensi rinvia a un’altra realtà, intelligibile, che la fonda. Platone esprime immaginificamente questa conquista presentando la dottrina delle idee (Fedone 99 d) come il punto di approdo del deúteroj ploûj, della ‘seconda navigazione’. Sul versante ontologico, con la distinzione di due piani nell’essere, Platone supera gli orizzonti della prima navigazione, quella compiuta dai filosofi presocratici, avanzando nel tentativo di risolvere l’aporia tra essere e divenire: non tutta la realtà è soggetta al divenire, al mutamento, alla corruzione. Nella spiegazione della conoscenza, con la teoria della anamnesi Platone elabora speculativamente la concezione eidetica della matematica e della conoscenza –conoscere è vedere – così radicata nella tradizione pitagorica, ma riprende anche un suggerimento della sapienza orfica; su queste basi Platone può sciogliere il nodo sofistico ("come conoscere ciò che ancora non si conosce?") e dare un fondamento alla maieutica socratica. Nelle dottrine citate sono inoltre riconoscibili archetipi quali esemplarismo e partecipazionismo, reminescenza, nascita e morte rituale, variamente e costantemente presenti nella tematizzazione mitica della condizione umana.

 

(nota 4)

Platone, Filebo 14 b (sugli stessi temi v. anche Protagora 317 a-320 c-e). La traduzione riportata è tratta da Platone, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991. Lo stesso brano del Filebo è, a mio parere, ancora più godibile, come manifesto della posizione socratico-platonica in polemica con la sofistica, nella seguente traduzione: "...Ora, infatti, non è certamente per questo che stiamo contendendo, cioè che a vincere sia la mia tesi o la tua, ma è a sostegno di ciò che è più vero che dobbiamo combattere entrambi insieme" cit. da Radim Palous, Havel, Goethe e il dèmone di Socrate, in Il Nuovo Areopago, n° 30, 1989. La traduzione qui sembra giocare sull’ambivalenza di significato del latino ‘contendo’, ‘combatto contro’ e ’mi muovo insieme verso’ - quasi il suggerimento di uno sfondamento dei limiti dell’eristica -. Inoltre, il riferimento secco alle tesi contrapposte richiama le antologie protagoree, così che l’orizzonte complessivo della sofistica appare trasceso dalla novità del metodo e dell’esperienza educativa del dialogo.

 

(nota 5)

Il rapporto con Socrate. L’assetto allegorico del racconto e la sua forma dialogica richiamano icasticamente la maieutica socratica: la filosofia come cammino, la paideía, l’educazione come nuova nascita e iniziazione alla verità. La seconda parte del mito, poi, evoca drammaticamente il destino di Socrate. La filosofia platonica può essere letta come meditazione sul destino e sullla morte di Socrate? Per approfondire questo itinerario leggeremo integralmente il Fedone (avendo già letto l’Apologia e brani dalla Lettera VII). Tutta l’esperienza e la ricerca di Platone sono dominate dall’incontro con Socrate, dalla riflessione sul destino del maestro e amico, dallo sviluppo creativo del metodo del dialogo. La memoria di Socrate domina anche gli sviluppi speculativi più ardui. La scoperta del soprasensibile e la dimostrazione dell’immortalità dell’anima aprono nuovi orizzonti ad antiche domande: se l’anima fosse mortale, Socrate, il giusto, sarebbe morto invano. Callicle, il nichilista, sarebbe inconfutabile (v. Platone, Gorgia, 492 e - 493 a). Il significato ontologico e gnoseologico del mito. Il racconto esprime in immagini il significato di ÞlÔqeia, l'essere non sta nascosto e la coscienza emerge aprendosi alla sua manifestazione. La lettura del Fedone ci consente di approfondire questo binomio (si veda in particolare la seconda navigazione in Fedone, XLV-XLVII [98 b-e], XLIX). Il principio eleatico della proporzionalità tra essere e conoscere trova ulteriori conferme nelle argomentazioni dialettiche per la dimostrazione dell’immortalità dell’anima. L’associazione della conoscenza alla reminescenza (Platone, Menone 80e-82b; Platone, Fedone 74a-76a) – conoscere è riconoscere, ricordare una visione originaria - ci fa verificare il superamento dell’aporia sofistica – come conoscere ciò che non si conosce - ma anche il tentativo di approfondire e fondare l’intuizione socratica sulla presenza della verità nella psýche.

(nota 6)

"Il Fedro è il dialogo di Platone che amo di più: è il dialogo in cui, in modo perfetto, sono legate insieme la dialettica e la retorica, la filosofia e l’eros, l’amicizia e l’arte, con un afflato religioso. Non si può ridurre Platone alla sola logica, o alla sola dialettica" H.G.Gadamer, op. cit., p.183.

(nota 7)

Platone, Fedro 274c-275d; v. anche Lettera VII 341 b-341 e, 344 a-344 d. Platone non consegna tutto il suo messaggio alla scrittura. Per una introduzione alla discussione complessiva sul significato delle dottrine non scritte nell’opera platonica emerso nel dibattito della critica filosofica è utile il riferimento alla già citata introduzione di G. Reale pp. XXXIV-XXXVIII.

(nota 8)

Anche queste problematiche sono discusse nell’Introduzione a Platone, Tutte le opere, a cura di G. Reale, op. cit., pp XI-XXIV.

 

 

Nelle immagini: 1. Platone impartisce insegnamenti a Socrate (Oxford, Bodleian Library, ms.Ashmole 304), di Matteo Paris (ca. 1240); 2. Platone e Aristotele (particolare della formella di Luca Della Robbia nel Campanile di Giotto, Firenze).

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