Il latino delle iscrizioni (II)
Nuova Secondaria, 15 novembre 1994, pag. 69
Si è accennato al riecheggiamento di motivi
letterari in carmi epigrafici. Diamo qui qualche esempio sommario di
quest'affermazione. Un'iscrizione del IV sec. (CLE 1979 Bücheler)
trovata a Roma nei pressi della via Salaria e per vari indizi ritenuta
proveniente da ambiente cristiano, si apre con queste parole: "Heu,
cui miseram linquis, karissime coniunx? | quid sine te dulce
rear, quid amabile credam? | cui vitam servo, quod non sequor,
improbe, funus?" Palese reminiscenza delle parole con cui Didone
apostrofa Enea nel momento in cui questi la avverte della sua intenzione
di partire: "heu cui me moribundam deseris, hospes?" (En.
IV 323), e allo stesso passaggio si rifà l'im¬probe del v. 3: lo
ritroviamo in En. IV 386 egualmente collocato nella quinta sede
dell'esametro: "dabis, improbe, poenas". Ma il possesso di
riferimenti letterari (si moti anche l'uso del poetico linquis
per il più comune relinquis) non mette lo scrivente al riparo
dalle incertezze metriche: sia nel primo sia nel secondo esametro manca
mezzo piede.
Una lapide di epoca augustea recentemente rinvenuta a Roma (in
Iscrizioni funerarie romane, a cura di L. Storoni Mazzolani,
Milano, Rizzoli, 1991, n. XXIV) ci propone il seguente epigramma: "Flevi,
Martha, tuos extremo tempore casus | ossaque composui. Pignus
amoris habes": oltre alla perfetta fattura metrica del distico,
espressioni come flere casus e pignus amoris
denunciano reminiscenze letterarie (rispettivamente Ovidio, Amores
I 12, 1 e Virgilio, En. V 538). Eppure sia il dedicatario
sia la defunta sono persone di condizione servile: Nebullus Marthae
conservae.
Un altro personaggio, Domizio Tiras, nell'epigrafe funerarie della
figlia (op. cit. n. LXXXI = CLE 1490) riprende con
commossa partecipazione una metafora consueta nella letteratura, quella
che paragona le vicende della vita al ciclo perenne delle natura: anche
qui un distico elegiaco, con l'esametro metricamente scorretto: "Quo
modo mala in arbore pendunt, sic corpora nostra: | aut matura cadunt aut
cito acerva ruunt". In acerva si ha un fenomeno
linguistico largamente documentato in epigrafi imperiali, il betacismo,
per cui b assume una pronunzia fricativa v e si
confonde con u semivocalica, che nel frattempo aveva assunto la
medesima pronunzia: il fenomeno ha lasciato ampie tracce in spagnolo (boda
'nozze' da vota).
La sorella di Decimo Terenzio Genziano, importante personaggio dell'età
traianea che ricoperse cariche politiche e militari e si segnalò nelle
campagne partiche, fa incidere il nome di questi su una piramide
egiziana (op. cit. n. LXXVI = CLE 270): "Vidi
pyramidas sine te, dulcissime frater, | et tibi quod potui,
lacrimas hic maesta profudi | et nostri memorem luctus hanc
scalpo querelam. | Sic nomen Decimi Gentiani pyramide alta
| pontificis comitiquis tuis, Traiane, triumphis, |
lustra[que] sex intra censoris consulis exst[et]": se il v. 2 si
rifà a Ovidio (Fasti V 472) e il 3 ad Orazio (Odi III
11, 51 s.) e nel v. 5 è rilevante l'allitterazione tuis Traiane
triumphis, tutto il carme meriterebbe di essere accostato, per la
somiglianza della situazione e per la tensione espressiva che trascende
il carattere occasionale dell'epigrafe, al c. 101 di Catullo.
Ma spesso è l'effimero a prevalere, e allora la reminiscenza letteraria
si risolve in scherzo: come quello di un lavandaio di Pompei, che scrive
sui muri della sua bottega: "Fullones ululamque cano, non arma
virumque" (CLE 1936: la civetta, ulula, è il simbolo di
Minerva artigiana); o il don giovanni di provincia, dai gusti
aristocratici e un po' tirchio, che ci ha lasciato questo distico (CLE
940): "Omnia formonsis cupio donare puellis | sed mihi de
populo nulla puella placet" (noteremo l'uso di formosus,
scritto qui erroneamente con -ns-: usato soprattutto per
indicare bellezza fisica - basti per tutti il rinvio a Catullo c. 86 - è
termine di un registro linguistico parlato, ma scelto, collocandosi a
metà fra pulcher e bellus: la parola è rimasta nelle
zone marginali del mondo neolatino, l'iberica e la balcanica, che spesso
nel lessico si rifanno a un uso linguistico più scelto di quello rimasto
in Italia e in Gallia): il breve carme ha il sapore di una risata, sul
tipo del "torrei le donne giovani e leggiadre" di Cecco Angiolieri.
Maggior tenerezza in questo distico di un innamorato che ritiene la sua
ragazza splendida come la Venere di Apelle (CLE 2057, Pompei):
"Si quis non vidit Venerem quam pinxit Apelles, | pupa mea
aspiciat: talis et illa nitet" (pupa mea per pupam meam:
la caduta di -m finale è largamente attestata nelle iscrizioni
di Pompei: pupa è fortemente affettivo: 'la mia bambina':
un'altra iscrizione pompeiana, espressione di una latinità più bassa,
inizia con: pupa, que bela is "bimba, che sei bella"). E c'è
chi, in una lingua più raffinata, si mostra preoccupato di tutto questo
gran scrivere sui muri e lo dice con un distico scherzoso (CIL IV 1904):
"Admiror, pariens, te non cecidisse ruinis, | qui tot
scriptorum taedia sustineas".
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