Il latino delle iscrizioni (I)
Nuova Secondaria, 15 ottobre 1994, pag. 69
Se lo studio liceale del latino non mira
solamente ad avviare alla conoscenza di testi rappresentativi per
contenuto di pensiero e valori formali, ma si propone anche di far
conoscere allo studente la cultura antica in tutte le sue sfaccettature,
dovrebbe trovare uno spazio, per quanto piccolo e limitato, anche la
lettura dei testi epigrafici. Parliamo qui delle iscrizioni unica¬mente
dal punto di vista linguistico e letterario, prescindendo dal loro
valore di documento storico, spesso utile integrazione di da¬ti che le
altre fonti ci presentano in modo parziale o confuso.
L'interesse della lettura di testi epigrafici è duplice. Da una parte il
latino delle epigrafi, generalmente più libero e più vicino alla lingua
parlata e meno condizionato dalle esigenze puristiche e di perfezione
formale che presiedono alla stesura dei testi let¬terari, ci presenta
quasi dal vivo l'affermarsi di innovazioni linguistiche proprie
dell'evoluzione romanza permettendoci di datare l'inizio dei mutamenti.
Sappiamo così che, ad esempio, nel I sec. d.C. i dittonghi ae,
oe erano pronunziati correntemente e, ovvero che
attorno al 450 in Italia c era già pronunziata palatale dinanzi
a vocale della serie anteriore (e, i): leggiamo
infatti intzitamento in un'iscrizione di quest'epoca rinvenuta
ad Ariccia. Dallo studio del materiale epigrafico ricaviamo che in
Italia la pronunzia volgare del latino dell'età imperiale presenta
tratti che in modo sorprendente l'avvicinano alla pronunzia italiana
attuale (per esempio nel venir meno delle occlusive finali: canta
e ama per cantat e amat, o
nell'assimilazione di nessi come ps e cs, pt
e ct in ss, tt: issu in luogo di
ipsum), o che il sistema della flessione nominale mostrava i primi
segni di collasso di fronte all'imporsi del sintagma preposizione +
sostantivo, o altro ancora.
Ma non minore è l'interesse di natura culturale. Facciamo riferimento a
due raccolte di recente pubblicazione e facilmente reperibili:
Iscrizioni funerarie romane, a cura di L. Storoni Mazzolani
(Milano, Rizzoli, 1991) e Graffiti latini. Scrivere sui muri a Roma
antica, di L. Canali e G. Cavallo (Milano, Bompiani, 1991). Scrive
il Cavallo nell'introduzione a quest'ultimo volume (pag. 11) che "dietro
i graffiti si intravede un mondo brulicante e colorato", e che i
riferimenti al quotidiano rivelano una "ridda di contenuti" quanto mai
varia, così come diversissimo è il livello di cultura e la competenza
linguistica di chi produce questi testi. Ma quando dall'effimero
(propaganda elettorale, sospiri e pene d'amore, elogi ai vip del tempo)
si passa, con molta gradualità, a testi più impegnativi per il contenuto
e la destinazione, allora diviene sensibile il tentativo di adeguarsi ai
modelli del latino più elevato, facendone proprie le caratteristiche e
le possibilità espressive, pur nell'incertezza di esiti che comportano
spesso scelte fono-morfologiche o sintattiche estranee (e talora
addirittura contrarie) alla tradizione ciceroniana o virgiliana. Gli
epigrammi funerari ci mettono di fronte a personaggi di condizione
sociale non elevata (per la maggior parte le iscrizioni tombali di Roma
sono di schiavi o di liberti) che mostrano una conoscenza notevole della
produzione letteraria "colta": ma non soltanto sono interessanti i
riecheggiamenti dei poeti più svariati: spesso percepiamo sullo sfondo
grandi trasformazioni storiche o ideali, col diffondersi di idee e di
correnti di pensiero che oltrepassano i limiti della stretta cerchia dei
letterati di professione.
Una lettura (beninteso senza eccessi) di testi epigrafici potrà, in
conclusione, essere di conforto per l'allievo. Gli rivelerà come i testi
proposti dal manuale letterario non siano frutto di personaggi isolati
da un contesto, bensì rappresentino, con superiore pienezza e capacità
espressiva, tensioni e ideali condivisi dalla società del tempo. D'altro
canto l'allievo coglierà nell'uso quotidiano di parlanti nativi quella
variegata e complessa realtà linguistica che è il latino: non un'entità
astratta formata da una filza di regole disarticolate, immotivate,
immutabili, bensì un sistema che presenta nell'uso varietà differenti in
armonia con le finalità espressive del parlante. Si avverte come sia
nitido lo stacco fra lingua parlata e scritta, e come quest'ultima
rappresenti un codice a cui è necessario rapportarsi nella produzione di
testi che si propongono di veicolare messaggi destinati a durare nel
tempo: un codice però sufficientemente noto e diffuso e, pur con fatica
e inevitabili approssimazioni, inteso e praticato anche da persone di
condizione sociale e culturale non elevata.
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