La prionunzia del latino (I)
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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La pronunzia del latino (I)

Assistiamo da qualche tempo all’imporsi nella prassi scolastica della cosiddetta “pronunzia classica” (o restituta) del latino. Dopo che per generazioni la pronunzia tradizionale è stata l’unica ad avere circolazione nella scuola, la scelta della pronunzia cosiddetta classica, consigliata anche da innovativi orientamenti didattici che in alcune situazioni e in varie zone d’Italia godono di particolare simpatia, ha oggi un seguito abbastanza ampio: inoltre questa sta conoscendo notevole espansione in molte sedi accademiche e in ambito internazionale. Vorremmo qui considerare il problema, valutando i pro e i contro dei due metodi da un punto di vista strettamente didattico.
Prima di esprimere qualunque parere sarà utile riassumere le differenze fondamentali tra la restituta e la pronunzia tradizionale.
La restituta intende riprodurre la pronunzia del latino dell’età cesariana o augustea; va da sé che, considerata la diffusione della lingua in questo periodo, ci saranno state varie differenti pronunzie del latino: come ci dice espressamente Cicerone (p.es. de oratore III 42), il latino di Roma (sermo urbanus) era pronunziato diversamente rispetto al latino del contado (sermo rusticus), ed è ragionevole pensare che nelle varie province dell’impero esistessero pronunzie locali. Nella stessa Roma la lingua veniva realizzata diversamente a seconda dei livelli culturali e dei ceti: esisteva un latino meno elevato (al livello più basso quello che gli antichi chiamano il sermo castrensis: il gergo dei soldati, delle taverne, dei vicoli; poi il latino delle gente comune, il cosiddetto sermo vulgaris) e un latino più elevato (sermo familiaris), quello praticato dalle persone di elevata cultura che parlavano una lingua corretta, prossima alla lingua scritta e alla varietà letteraria. La restituta assume come punto di riferimento la varietà del sermo familiaris, quella che alcuni linguisti moderni chiamano “lingua dell’uso” (o, con termine tecnico tedesco, Umgangssprache). Posto che non abbiamo (ovviamente!) registrazioni sonore dell’epoca, quali sono le fonti su cui ci basiamo per ricostruire la pronunzia di molti secoli fa? Essenzialmente: le testimonianze dei grammatici antichi e dei testi letterari (che non di rado accennano anche a problemi linguistici), le traslitterazioni di parole latine in altre lingue, e infine le iscrizioni, nei casi in cui le abitudini grafiche (e soprattutto gli errori di scrittura) riflettono cambiamenti che ci dànno modo di seguire l’evolu¬zione della lingua e della pronunzia. Per sommi capi, le differenze principali tra le due pronunzie sono le seguenti.
I dittonghi ae e oe (da più antichi ai e oi ancora attestati in epigrafi arcaiche) sono pronunziati come scritti, àe òe. Nella pronunzia rustica erano divenuti e (precisamente e lunga con pronunzia aperta) forse già nel I sec. a.C. Quindi si dirà làetus, fòedus (ma attenzione, una pronunzia con dittongo discendente laètus foèdus sarebbe da considerare anacronistica, perché una realizzazione del genere non è mai esistita!).
V è pronunziato u: quindi veni, vidi, vivo sono resi all’incirca ueni, uidi, uiuo. La spirantizzazione che porta alla pronunzia v comincia nel I sec. d.C. e in alcune aree interferisce col contemporaneo processo di spirantizzazione che anche b subisce, come mostrano varie confusioni grafiche (ancora oggi abbiamo in spagnolo boda ‘matrimonio’ da lat. vota).
Le consonanti c e g davanti a vocale palatale (e, i) mantengono la pronunzia velare: non c’è distinzione tra casus e cinis, tra genus e gallus. Questo spiega perché dal latino cellarium ‘cantina’ si abbia in tedesco Keller e da Caesar si abbia in greco Kaîsar, in tedesco Kaiser. La pronunzia palatale si affermò nell’epoca imperiale, con esiti diversi nelle varie aree e poi nelle lingue romanze: in parte del sardo il passaggio non avvenne del tutto e si continua a dire kentu, kerbu, iskire dal lat. centum, cervus, scire. Anche gn non aveva l’odierna pronunzia di n palatale e si usa renderlo come g + n: in realtà g davanti n aveva una pronunzia di n velare (La pronunzia del latino (I)
Assistiamo da qualche tempo all’imporsi nella prassi scolastica della cosiddetta “pronunzia classica” (o restituta) del latino. Dopo che per generazioni la pronunzia tradizionale è stata l’unica ad avere circolazione nella scuola, la scelta della pronunzia cosiddetta classica, consigliata anche da innovativi orientamenti didattici che in alcune situazioni e in varie zone d’Italia godono di particolare simpatia, ha oggi un seguito abbastanza ampio: inoltre questa sta conoscendo notevole espansione in molte sedi accademiche e in ambito internazionale. Vorremmo qui considerare il problema, valutando i pro e i contro dei due metodi da un punto di vista strettamente didattico.
Prima di esprimere qualunque parere sarà utile riassumere le differenze fondamentali tra la restituta e la pronunzia tradizionale.
La restituta intende riprodurre la pronunzia del latino dell’età cesariana o augustea; va da sé che, considerata la diffusione della lingua in questo periodo, ci saranno state varie differenti pronunzie del latino: come ci dice espressamente Cicerone (p.es. de oratore III 42), il latino di Roma (sermo urbanus) era pronunziato diversamente rispetto al latino del contado (sermo rusticus), ed è ragionevole pensare che nelle varie province dell’impero esistessero pronunzie locali. Nella stessa Roma la lingua veniva realizzata diversamente a seconda dei livelli culturali e dei ceti: esisteva un latino meno elevato (al livello più basso quello che gli antichi chiamano il sermo castrensis: il gergo dei soldati, delle taverne, dei vicoli; poi il latino delle gente comune, il cosiddetto sermo vulgaris) e un latino più elevato (sermo familiaris), quello praticato dalle persone di elevata cultura che parlavano una lingua corretta, prossima alla lingua scritta e alla varietà letteraria. La restituta assume come punto di riferimento la varietà del sermo familiaris, quella che alcuni linguisti moderni chiamano “lingua dell’uso” (o, con termine tecnico tedesco, Umgangssprache). Posto che non abbiamo (ovviamente!) registrazioni dell’epoca, quali sono le fonti su cui ci basiamo per ricostruire la pronunzia di molti secoli fa? Essenzialmente: le testimonianze dei grammatici antichi e dei testi letterari (che non di rado accennano anche a problemi linguistici), le traslitterazioni di parole latine in altre lingue, e infine le iscrizioni, nei casi in cui le abitudini grafiche (e soprattutto gli errori di scrittura) riflettono cambiamenti che ci dànno modo di seguire l’evolu¬zione della lingua e della pronunzia. Per sommi capi, le differenze principali tra le due pronunzie sono le seguenti.
I dittonghi ae e oe (da più antichi ai e oi ancora attestati in epigrafi arcaiche) sono pronunziati come scritti, àe òe. Nella pronunzia rustica erano divenuti e (precisamente e lunga con pronunzia aperta) forse già nel I sec. a.C. Quindi si dirà làetus, fòedus (ma attenzione, una pronunzia con dittongo discendente laètus foèdus sarebbe da considerare anacronistica, perché una realizzazione del genere non è mai esistita!).
V è pronunziato u: quindi veni, vidi, vivo sono resi all’incirca ueni, uidi, uiuo. La spirantizzazione che porta alla pronunzia v comincia nel I sec. d.C. e in alcune aree interferisce col contemporaneo processo di spirantizzazione che anche b subisce, come mostrano varie confusioni grafiche (ancora oggi abbiamo in spagnolo boda ‘matrimonio’ da lat. vota).
Le consonanti c e g davanti a vocale palatale (e, i) mantengono la pronunzia velare: non c’è distinzione tra casus e cinis, tra genus e gallus. Questo spiega perché dal latino cellarium ‘cantina’ si abbia in tedesco Keller e da Caesar si abbia in greco Kaîsar, in tedesco Kaiser. La pronunzia palatale si affermò nell’epoca imperiale, con esiti diversi nelle varie aree e poi nelle lingue romanze: in parte del sardo il passaggio non avvenne del tutto e si continua a dire kentu, kerbu, iskire dal lat. centum, cervus, scire. Anche gn non aveva l’odierna pronunzia di n palatale e si usa renderlo come g + n: in realtà g davanti n aveva una pronunzia di n velare (La pronunzia del latino (I)
Assistiamo da qualche tempo all’imporsi nella prassi scolastica della cosiddetta “pronunzia classica” (o restituta) del latino. Dopo che per generazioni la pronunzia tradizionale è stata l’unica ad avere circolazione nella scuola, la scelta della pronunzia cosiddetta classica, consigliata anche da innovativi orientamenti didattici che in alcune situazioni e in varie zone d’Italia godono di particolare simpatia, ha oggi un seguito abbastanza ampio: inoltre questa sta conoscendo notevole espansione in molte sedi accademiche e in ambito internazionale. Vorremmo qui considerare il problema, valutando i pro e i contro dei due metodi da un punto di vista strettamente didattico.
Prima di esprimere qualunque parere sarà utile riassumere le differenze fondamentali tra la restituta e la pronunzia tradizionale.
La restituta intende riprodurre la pronunzia del latino dell’età cesariana o augustea; va da sé che, considerata la diffusione della lingua in questo periodo, ci saranno state varie differenti pronunzie del latino: come ci dice espressamente Cicerone (p.es. de oratore III 42), il latino di Roma (sermo urbanus) era pronunziato diversamente rispetto al latino del contado (sermo rusticus), ed è ragionevole pensare che nelle varie province dell’impero esistessero pronunzie locali. Nella stessa Roma la lingua veniva realizzata diversamente a seconda dei livelli culturali e dei ceti: esisteva un latino meno elevato (al livello più basso quello che gli antichi chiamano il sermo castrensis: il gergo dei soldati, delle taverne, dei vicoli; poi il latino delle gente comune, il cosiddetto sermo vulgaris) e un latino più elevato (sermo familiaris), quello praticato dalle persone di elevata cultura che parlavano una lingua corretta, prossima alla lingua scritta e alla varietà letteraria. La restituta assume come punto di riferimento la varietà del sermo familiaris, quella che alcuni linguisti moderni chiamano “lingua dell’uso” (o, con termine tecnico tedesco, Umgangssprache). Posto che non abbiamo (ovviamente!) registrazioni dell’epoca, quali sono le fonti su cui ci basiamo per ricostruire la pronunzia di molti secoli fa? Essenzialmente: le testimonianze dei grammatici antichi e dei testi letterari (che non di rado accennano anche a problemi linguistici), le traslitterazioni di parole latine in altre lingue, e infine le iscrizioni, nei casi in cui le abitudini grafiche (e soprattutto gli errori di scrittura) riflettono cambiamenti che ci dànno modo di seguire l’evolu¬zione della lingua e della pronunzia. Per sommi capi, le differenze principali tra le due pronunzie sono le seguenti.
I dittonghi ae e oe (da più antichi ai e oi ancora attestati in epigrafi arcaiche) sono pronunziati come scritti, àe òe. Nella pronunzia rustica erano divenuti e (precisamente e lunga con pronunzia aperta) forse già nel I sec. a.C. Quindi si dirà làetus, fòedus (ma attenzione, una pronunzia con dittongo discendente laètus foèdus sarebbe da considerare anacronistica, perché una realizzazione del genere non è mai esistita!).
V è pronunziato u: quindi veni, vidi, vivo sono resi all’incirca ueni, uidi, uiuo. La spirantizzazione che porta alla pronunzia v comincia nel I sec. d.C. e in alcune aree interferisce col contemporaneo processo di spirantizzazione che anche b subisce, come mostrano varie confusioni grafiche (ancora oggi abbiamo in spagnolo boda ‘matrimonio’ da lat. vota).
Le consonanti c e g davanti a vocale palatale (e, i) mantengono la pronunzia velare: non c’è distinzione tra casus e cinis, tra genus e gallus. Questo spiega perché dal latino cellarium ‘cantina’ si abbia in tedesco Keller e da Caesar si abbia in greco Kaîsar, in tedesco Kaiser. La pronunzia palatale si affermò nell’epoca imperiale, con esiti diversi nelle varie aree e poi nelle lingue romanze: in parte del sardo il passaggio non avvenne del tutto e si continua a dire kentu, kerbu, iskire dal lat. centum, cervus, scire. Anche gn non aveva l’odierna pronunzia di n palatale e si usa renderlo come g + n: in realtà g davanti n aveva una pronunzia di n velare (ŋ) (simile cioè a quella di it. ancora, angolo): quindi agnus pronunziato aŋnus, ma distinto da annus (in sardo abbiamo mannu, linna da magnus, ligna); gnatus pronunziato ŋatus e infine natus.
T seguita da i + vocale è pronunziata t: pertanto iustitia e natio così come sono scritte; le prime indicazioni di ts risalgono al II sec. d.C.
S intervocalico ha sempre pronunzia sorda: quindi rosa, misi con la -s- di presentire, non con la s di presentare.
Y, che si incontra solamente in parole di origine greca, nella lingua corretta è pronunziato ü (u di francese mur, lune), con la pronunzia cioè del greco letterario. Ripreso nei prestiti più antichi in modo approssimativo come u (p.es. purpura da gr. porphýra), y ha poi in latino la stessa sorte del corrispondente fonema del greco e diviene in genere i.
Anche l’evoluzione delle consonanti aspirate ph, th, ch, tutte di origine greca, è stata influenzata dalle parallele vicende delle loro omologhe greche. Nel latino arcaico ci si accontenta di trascrivere questi suoni senza aspirazione (Plauto scrive Ampitruo, e sucopanta, non sycophanta, come si ebbe successivamente): nel latino dell’età cesariana (e dunque nella pronunzia restituta) l’imitazione dei modelli greci iimpone per questi fonemi una realizzazione con una leggera aspirazione dopo l’occlusiva (philosophia, Corinthus). In séguito prevale una pronunzia fricativa, che in latino riguarda solamente ph, che viene a confondersi con f (quindi filosofia). Non mancano però incertezze e contraddizioni.
Altre caratteristiche ben documentate nell’epoca ciceroniana (per esempio la caduta di -n- nel nesso -ns-: mensis pronunziato mesis, continuato nell’italiano mese, o mensa pronunziato mesa, che si riflette nello spagnolo mesa ‘tavola’) non sono prese in considerazione, in quanto respinte dalla tradizione scolastica antica, spesso orientata dalla grafia storica delle parole (quindi mensis, mensa e così via).


 
 

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