Il Notturno di Alcmane. Le traduzioni italiane
 

 

 

 

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          Il "Notturno" di Alcmane (fr. 89 P)

      εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες

      πρώονές τε καὶ χαράδραι

      φῦλά τʼ ἑρπέτ' ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα

      θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν

      καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός·

      εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων.

 

Assumiamo come punto di riferimento per il testo del frammento l’edizione di Alcmane curata da A. Garzya (Alcmane, I Frammenti, a cura di A. Garzya, Napoli 1954, fr. 49, pp. 126 ss.):

"Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese".

 

 

Traduzioni moderne:

1. Pascoli

Dormono de’ monti le vette e le valli

e i picchi e i burroni

e quanti esseri, che fogliano e che serpono, nutre la nera terra,

e le fiere montane e la schiatta delle api

e i mostri nei gorghi dell’iridato mare,

e dormono degli uccelli

i popoli, dall’ampio alare

 

6. G.Perrotta

Dormono le cime dei monti

e gli abissi 

e i promontori e le forre,

e le stirpi degli animali

che la nera terra nutre,

e le fiere montane

e la progenie delle api

e i mostri nei gorghi profondi

del mare di viola;

dormono le sirpi

degli uccelli dalle lunghe ali.

 

2. Fraccaroli (1913)

Dei monti i greppi dormono

e le balze e i declivii

e le convalli e quanti

nutre la terra animali striscianti

e le fiere selvagge e la famiglia

dell'api, e quanti mostri entro i recessi

stanno del mar purpureo,

e il popol tutto dei pennuti ach'essi

hanno chiuse le ciglia

 

 

 

7. F.M. Pontani

Dormono i vertici dei monti e i baratri,

le balze e le forre;

e le creature della terra bruna,

e le fiere che ai monti s’acquattano, e gli sciami,

e i cetacei nel fondo del mare lucente.

Dormono le famiglie degli uccelli

fermo palpito d’ali.

 

3. Quasimodo

Dormono le cime de’ monti

e le vallate intorno,

i declivi e i burroni;

dormono i rettili, quanti nella specie

la nera terra alleva,

le fiere di selva, le varie forme di api,

i mostri nel fondo cupo del mare;

dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali.

 

 

8. A. Aloni

Dormono le cime dei monti e le gole,

i picchi e i dirupi,

le selve e gli animali, quanti ne nutre la nera terra,

le fiere montane e la famiglia delle api,

i pesci nel profondo del mare purpureo;

dormono le stirpi degli uccelli dalle lunghe ali.

 

4. M. Valgimigli

Dormono le grandi cime

dei monti,

e i dirupi e le balze,

e i muti letti dei torrenti;

dormono quanti strisciano animali

sopra la terra nera;

e le fiere montane, e le famiglie

delle api;

dormono i mostri giù nel fondo

del buio-ceruleo mare;

dormono gli uccelli

dalle lunghe ali distese.

 

5. G. Mazzoni (*)

De le montagne dormono le cime;

E i dirupi e i burroni e le valli ime;

E quante foglie ha in selve,

Quante montane belve

E quante serpi mai nudre la terra;

E le api, e i mostri che l'abisso serra

Del nereggiante mare,

E il popol degli augelli uso a volare

 

(*) E' la versione utilizzata dal compositore Giorgio Federico Ghedini (1892-1965) per la sua rielaborazione musicale (per voce grave e pianoforte).

 

9. E. Savino

Addormentate guglie, strapiombi di rocce

macigni, crepacci,

vive cose che vanno, striano la terra madre

notturna, prede intanate nei sassi, api

del miele, zanne nel buio del mare perlaceo.

E addormentati i nidi degli uccelli scatto d'ali.

 

 

10. F. Ferrari

Dormono le cime dei monti e le gole

e le balze e le forre

e la selva e gli animali che nutre la terra scura

e le fiere montane e la stirpe delle api

e gli animali negli abissi del mare cangiante:

dormono le specie degli uccelli dalle ali distese.

 

 

11. Mauro Pagani

Dorman e cimme di munti
E u fundu du ma"
E i prumuntoi luntan
E i precipizi

Dorme a stirpe de bestie
Ch'a taera neigra impe
E bestie feruxi di munti
E a famiggia de avie

E i mustri nt'i gurghi prufundi
Du ma" de viola
Dorman e stirpi di ouxelli
Dae ae grandi

Staneutte durmiò
Staneutte durmiò anche mi

 

(Traduzione-rielaborazione in dialetto genovese del musicista e compositore Mauro Pagani: vedi

https://www.youtube.com/watch?v=Iegd_0ei0xE)

   

 

Qualche riflessione sulle traduzioni italiane di Alcmane

 

Rileveremo innanzitutto quanto sia difficile per il traduttore italiano trovare il giusto tono. Un evidente disagio di fronte alla rigorosa essenzialità del dettato alcmaneo induce qualche traduttore a moltiplicare i termini: ad esempio la duplice anafora di e!udousi (vv. 1 e 6) diviene una triplice anafora in Quasimodo e addirittura una quadruplice anafora in Valgimigli: è inutile rilevare come simili interpolazioni (tra l’altro non giustificate da alcuna esigenza della lingua d’arrivo) sconvolgano l’architettura generale del brano. La tendenza a sovrabbondare trova la sua massima espressione in Valgimigli («...le grandi cime ... i muti letti dei torrenti; ... giù nel fondo del buio-ceruleo mare»), ed è una situazione sorprendente, perché tutti sappiamo quale fine vena critica e quale capacità di penetrare i classici antichi avesse Valgimigli. Ma anche nella versione di Quasimodo non mancano aggiunte fuorvianti: «le vallate intorno ... i rettili, quanti nella specie ... »: retaggio forse di una tradizione retorica che mira all’enfasi e all’effetto, una tradizione che certo era estranea ad Alcmane. Nel testo leggiamo fûla ... génoj ... fûla, con una variazione e una ripetizione: nessuna delle versioni proposte riproduce questo schema, e tutti decidono di sopprimere uno o due di questi sostantivi. Altro motivo per cui la versione di Quasimodo si segnala è la volontà di privilegiare i legami asindetici (p.es. « le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare»), incrinando anche in questo la struttura originaria del frammento, in quanto al lungo distendersi della descrizione e al ritmo lento determinato dal polisindeto subentra una sintassi spezzata e un ritmo faticoso. Pascoli, in genere misurato e teso a una letteralità in qualche caso persino esagerata nel suo assoluto rigore e di faticosa lettura, ci offre un incredibile «quanti esseri, che fogliano e che serpono»: la sua versione presume la lezione (congetturale) fûlla che si trova nell’edizione dei lirici curata da Bergk, ma fûlla sono le foglie, non gli esseri che fogliano (!): anche in questo caso l’avere posto sullo stesso piano fûlla e çrpetá, quasi che fossero entrambi forme verbali, contribuisce a intaccare la struttura originaria del frammento. Anche in Pascoli, comunque, si nota un sostanziale disagio di fronte all’originale: col fine di ottenere un effetto di solennità si opera intenzionalmente scegliendo parole che appartengono a un registro molto elevato: e l’appartenenza alla lingua poetica di un determinato termine lo fa preferire anche se la sua rispondenza a una determinata parola dell’originale è molto relativa: p.es. «nei gorghi dell’iridato mare» per pofuréaj. Anche a Pontani non basta rendere ðreskÐoi con ‘abitanti dei monti’ o simili: si ricorre all’espressione «che ai monti s’acquattano». È obiettivamente difficoltosa la resa dei composti bimembri greci del tipo ×ododáktuloj: la resa analitica (dalle dita di rosa o che ha le dita di rosa) comporta un’alterazione del ritmo originario, perché impone più parole di fronte a una sola parola del testo, la resa letterale non è possibile se non in quei casi in cui un composto equivalente è consentito da una tradizione preesistente (piè-veloce), lo stato costrutto (l’aurora dita di rosa) è molto amato nelle traduzioni del nostro secolo, ma costituisce un’aperta violazione delle norme sintattiche italiane, ed è comunque soluzione di ripiego perché l’espressione italiana non si realizza come unità e non si configura come attributo. Nel caso di tanupterúgwn, che contiene nella prima parte un elemento ampiamente attestato in molte lingue indeuropee, ma non più conservato in greco se non come primo membro di composti, si ha in più la difficoltà di una resa precisa del contenuto: ciò spiega perché le ali degli uccelli di Alcmane siano ora lunghe ora ampie: riappare la tendenza di Pascoli ad avvalersi di lessemi alti («dall’ampio alare») e la tendenza di Valgimigli ad abbondare («dalle lunghe ali distese»): soluzione originale, ma lontanissima dal testo, è quella di Pontani («le famiglie degli uccelli fermo palpito d’ali»).
L’intraducibilità del lirico greco ha ragioni obiettive. Abbiamo già visto che ogni parola e ogni immagine del brano di Alcmane ha precisi antecedenti in Omero. Alcmane è pienamente inserito in una tradizione poetica che non è più la nostra: per Alcmane la terra è mélaina come il mare è purpureo, gli uccelli sono tanuptérugej e le fiere ðreskÐoi: è una preoccupazione nostra stabilire se il mare è purpureo perché ribolle o se purpureo allude a un colore (e in tal caso quale: un colore specifico, un’idea generica di scuro, un’idea di lucentezza brillante?), e il fatto che la terra nella nostra comunicazione abituale non sia più sentita come nera ci induce a tradurre come la terra bruna, che è un’aperta violazione non solo della lettera del testo, ma anche e soprattutto del mondo poetico, culturale ed espressivo dell’autore. Tradurre il notturno di Alcmane significa per noi filtrarlo attraverso una tradizione di retorica: si finisce per applicare sul testo di Alcmane un’incrostazione di elementi estranei alla composizione originale. La volontà, in sé legittima o almeno comprensibile, di immettere Alcmane in una tradizione di linguaggio poetico più vicina al nostro finisce per alterare in modo indelebile la struttura originale del quadro. È un problema senza soluzione. Leggere il notturno di Alcmane, come in genere i testi greci, significa percepire una sensazione di alterità e di lontananza: questi testi provengono da mondi e da culture lontane. Compito della traduzione non è soltanto quello di superare la barriera linguistica che rende il testo greco accessibile solamente ai pochi che hanno acquisito, attraverso un addestramento necessariamente lungo, duro e paziente, la capacità di accostare una lingua dalle forme e dalle strutture complesse: la traduzione dovrebbe anche attenuare (non eliminare del tutto, ché questo non sarebbe né possibile né corretto) la sensazione di lontananza che intercorre tra quei testi e noi. Paradossalmente, ogni traduzione di Alcmane finisce per accentuare questa barriera, ed ottiene dunque un effetto che è l’esatto opposto delle sue premesse. La sola via è quella di accostare il lirico avvicinando noi stessi al suo mondo, animati dalla volontà di ascoltarne la voce e di percepirne in profondità le vibrazioni, attraverso uno studio minuto, ma intelligente dei suoi testi. È sicuramente una via più faticosa, ma, oltre ad essere la sola percorribile, produce alla fine una gratificazione pari all’impegno che si è profuso nel percorrerla.
 

Nell'immagine: E. Munch, Chiaro di luna (1895), olio su tela, cm 93 x 110, Oslo, Nasjonalgalleriet

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