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OVIDIO, L’ULTIMA NOTTE DI ROMA, trist. I 3

traduzione poetica di Pietro Rapezzi

 

Quando di quella notte, in cui passai

gli ultimi istanti a Roma, mi ritorna

alla mente l’immagine tristissima,

quando evoco la notte in cui in un’ora

tante cose dilette abbandonai,

dagli occhi miei scorre ancora una lacrima.

Già s’appressava il giorno, in cui imponeva

Cesare che partissi dall’Italia.

Non tempo c’era stato, né bastante

animo a provvedere l’occorrente

per il viaggio: nell’indugio lungo

i sensi si smarrivano. Nemmeno

ebbi di servi cura, non di amici,

non di vesti e di tutto ciò che all’esule

è insomma necessario. Folgorato

all’annunzio restai come colui

che, colpito dal fulmine di Giove,

vive e della sua vita è inconsapevole.

Pure come il dolore stesso il cuore

liberò dal torpore e a poco a poco

i sensi si riebbero, coi mesti

amici parlo per l’ultima volta,

prossimo alla partenza, che dei tanti

di prima solo uno o due mi restano.

La dolce moglie me piangente abbraccia

piangendo ella più forte e per le guance

scorrendole di lacrime una pioggia

immeritata. Lontano, nei lidi

di Libia, era la figlia, né poteva

mettersi a parte della mia sciagura.

Dovunque ti volgessi, pianti e gemiti

si alzavano: la casa risuonava

come per il compianto d’un defunto.

Uomini e donne e servi si disperano

tutti per la mia sorte: non c’è angolo

dentro la casa che non abbia lacrime.

Se per piccole cose grandi esempi

sono concessi, questo era l’aspetto

di Troia il giorno della sua caduta.

D’uomini e cani s’era spenta ormai

ogni voce e la luna alta nel cielo

i notturni cavalli conduceva.

Volgendomi a guardarla e al suo chiarore

scorgendo il Campidoglio, inutilmente

contiguo al nostro Lare: “Dèi – esclamai, -

delle vicine sedi abitatori,

templi che gli occhi miei più non vedranno,

dèi che racchiude la città sublime

di Quirino ed io devo abbandonare,

abbiate da me l’ultimo saluto!

E, sebbene lo scudo imbracci tardi,

dopo che ho ricevuto le ferite,

fate che l’odio non segua all’esilio

e a quell’uomo divino dite quale

errore m’ingannò, perché non scambi

per delitto una colpa: anche l’autore

di questa pena sappia ciò che a voi

è manifesto. Una volta placato

il dio, potrò non essere infelice”.

Con questa prece supplicai i Celesti,

con altre ancora li implorò mia moglie

con la voce strozzata dai singhiozzi.

Prona davanti ai Lari, coi capelli

scarmigliati, baciò con la tremante

bocca lo spento focolare e molte

parole riversò sugli antistanti

Penati, destinate a rimanere

inefficaci per il pianto sposo.

La notte al suo declino non lasciava

nessuno spazio ormai all’indugio e l’Orsa

Parrasia s’era volta sul suo asse.

Che fare? Il dolce amore della patria

mi tratteneva, ma per me l’estrema

notte era quella prima dell’esilio.

Ah, quante volte dissi a chi premeva

per la partenza: “Perché sproni? Pensa

in quale luogo mi spingi ad andare,

quale luogo a lasciare”. Ah, quante volte

finsi di avere stabilito un’ora

che fosse confacente al mio viaggio!

Tre volte mi avanzai fino alla soglia,

tre volte mi ritrassi: il piede stesso,

con l’animo concorde, vacillava.

Spesso dopo l’addio tornai a ripetere

molte parole e, come per l’estremo

commiato, detti ancora nuovi baci.

Spesso impartii più volte le medesime

disposizioni e mi fermai a guardare,

assorto, i cari pegni del mio amore.

Infine: “A che affrettarmi? E’ nella Scizia

che mi s’impone di recarmi, è Roma

che devo abbandonare – esclamo: - giuste

ragioni tutte e due per indugiare.

La moglie viva a me vivo per sempre

è negata e la casa e i dolci membri

dell’amorosa casa ed i compagni

fraternamente amati. O cuori avvinti

a me con fedeltà degna di Teseo!

Finché potrò, vi serrerò al mio petto:

forse non mi sarà mai più concesso.

Ogni istante carpito è da segnare

a guadagno”. Ma basta con l’indugio,

lascio a metà le parole, abbracciando

quanto il mio cuore aveva di più caro.

Mentre parlo e piangiamo, lucentissimo

era spuntato nell’alto del cielo,

a noi funesto, l’astro di Lucifero.

Di là mi stacco, come se le stesse

mie membra vi lasciassi: sento il corpo

lacerarmisi. In questo stesso modo

sofferse Mezio quando, pungolati

i cavalli in opposte direzioni,

subì la pena del suo tradimento.

Allora si rialzano le grida

e i lamenti e le mani meste battono

i nudi petti, allora la mia sposa

aggrappata al marito che partiva

queste tristi parole unì al mio pianto:

“Non mi sarai strappato: partirò

anch’io con te: ti seguirò dovunque;

sarò d’un uomo esule la moglie

esule: anche per me si apre la via,

anche per me c’è un posto negli estremi

lembi del mondo. Alla tua nave profuga

mi aggiungerò, carico lieve, anch’io.

A te l’ira di Cesare comanda

di lasciare la patria, a me l’amore:

questo amore per me varrà da Cesare”.

Come già prima, questi tentativi

ripeteva, finché solo nel mio

interesse, si arrese a poco a poco.

Parto (e quelle mi sembrano le esequie

di me stesso), sparuto, con la faccia

ispida e coi capelli scarmigliati.

La mia sposa, sconvolta dal dolore,

dicono, con la vista ottenebrata,

s’accasciò come morta nella casa.

Quando riprese i sensi, coi capelli

imbrattati di polvere, e dal gelido

suolo levò le membra, ora piangeva

se stessa, ora i Penati derelitti,

né si stancava d’invocare il nome

del marito a lei svelto, alzando gemiti

come se avesse visto il rogo eretto

col cadavere mio o della figlia

e voleva finire la sua vita,

ma il pensiero di me la dissuase.

Oh che viva! E, poiché così ha voluto

l’avversa sorte, viva per lenire

col suo devoto aiuto questo esilio.

 

                                                                     Pietro Rapezzi

Nell'immagine: Ovidio, da una stampa di Anton von Werner

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