1992-1. Editoriale.
 

 

 

 

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"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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1992-1

 

Questo numero di Zetesis è interamente dedicato al bimillenario della morte di Orazio, a cui avevamo già anticipatamente riservato il nostro convegno autunnale. L'argomento viene affrontato da varie angolature: le due relazioni del convegno, riportate integralmente, presentano ipotesi di lettura dell'autore rispettivamente nel triennio e nel biennio; alcuni interventi propongono svolgimenti di unità didattiche su testi oraziani; il lavoro redazionale parte da uno spoglio di antologie oraziane in uso nelle scuole per rinvenire quale spazio abbia il poeta nell'attuale scuola superiore. Come si noterà accostando i diversi interventi, Orazio provoca letture a vari livelli e da vari punti di vista, suscitando interessi molteplici, così come molteplici sono i suoi registri e i suoi intenti.

Ma ci pare vada detto anzitutto che Orazio, prima che da interpretarsi, è da  leggersi ed ascoltarsi con simpatia, saremmo quasi tentati di dire con amicizia. Perché Orazio appare nelle sue poesie soprattutto un amico, tanto che sembra singolare che porti il suo nome l'amico per eccellenza nel teatro shakespeariano. Amico anzitutto del suo protettore Mecenate, per cui ha parole di affetto libero e caldo che culminano nel desiderio di condividere la morte: ibimus,ibimus, utcumque praecedes, supremum carpere iter comites parati (Carm. II, 17, 10-12), dove il carpe diem troppo sbrigativamente considerato slogan oraziano viene sostituito da un carpere il cammino della morte per essere fedele all'amico: e sappiamo, fra l'altro, che così avvenne, talché, non dimentichiamolo, anche di Mecenate ricorre il bimillenario. Amico dell'altro grande poeta di poco maggiore, Virgilio, da lui chiamato animae dimidium meae (Carm. I, 3, 8) e a cui offre consigli ora severi (levius fit patientia quidquid corrigere est nefas  Carm. I, 24, 19-20), ora lieti: misce stultitiam consiliis brevem: dulce est desipere in loco (Carm. IV, 12, 27-28). Amico dei molti a cui dedica via via le sue poesie e a cui rivolge i suoi consigli con profonda umana saggezza, maturata dall'osservazione e dall'esperienza, dalla coscienza del proprio limite, da insegnamenti filosofici ripensati nella vita e  da una religiosità fatta soprattutto di fiducia: deus haec fortasse benigna reducet in sedem vice (Epod. XIII, 7-8) e  permitte divis cetera (Carm. I, 9, 9).Amico per duemila anni di lettori che si sono ritrovati nella sua umanità senza differenze ideologiche, che hanno sentito come detto per ciascuno  di loro ora il quem fors dierum cumque dabit lucro adpone di Carm. I, 9, 14-15 o il grata superveniet quae non sperabitur hora (Ep. I, 4, 13), ora il malinconico  pulvis et umbra sumus  (Carm. IV, 7, 16), ora il sereno invito all'esame di coscienza serale di Serm. I, 4, 133-137, ora la dichiarazione d'amore detta quasi con rabbia da Lidia in Carm. III, 9, 21 segg.: Quamquam sidere pulchrior ille est, tu levior cortice et improbo iracundior Hadria, tecum vivere amem, tecum obeam libens. E ad Orazio dobbiamo lo splendore di una parola poetica che nessuna analisi stilistica riesce a spiegare (o a sciupare), straordinaria nel suono e nel ritmo, e che ha incantato i lettori non finché Capitolium scandet cum tacita virgine Pontifex, ma fino a noi e ai nostri allievi.

 

      

 

 

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