1987-2. Editoriale.
 

 

 

 

"Il patrimonio greco, criticamente purificato, è parte integrante della fede cristiana" (Benedetto XVI)

"La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma" (Benedetto XVI)

 

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1987-2

 

 

L’anno che si conclude apporta qualche nota di speranza a chi da tempo si sta battendo perché non sia eliminato, nella scuola e nella società, il ricordo del nostro passato e delle nostre radici culturali. Il nuovo ministro della pubblica istruzione fa capire che verranno per il momento accantonati (il che vuol dire probabilmente rinviati sine die, e in questo caso confidiamo nella lentezza della burocrazia ministeriale) certi progetti dl riforma del biennio superiore, e più in generale dl tutta la scuola secondaria superiore, che avrebbero fatalmente comportato una riduzione dl spazio per le materie che insegnamo e un declassamento dell’intero impianto scolastico. Ma se, da una parte, possiamo per il momento respirare, vedendo allontanarsi minacce di ridimensionamento dello studio dell’antico nella scuola e progetti di riforma condotti con ostinata e arrogante incompetenza, d’altra parte riteniamo che il momento dl pausa insperatamente concessoci debba mantenere sempre elevato il nostro impegno a una difesa intelligente e coerente dello spazio che le nostre materie hanno nella scuola.

Non riteniamo, peraltro, che un impegno condotto verso un tale obiettivo sia da considerare limitato o, come si usa rimproverare con aggettivo generico quanto ingiustificato, corporativo; non lo è per almeno due motivi: innanzitutto perché abbiamo da sempre indicato come esigenza prioritaria di una società che vuol mantenere un proprio equilibrio culturale una capacità di porsi in dialettica col proprio passato, anche al fine di una più matura consapevolezza di natura culturale e spirituale, e questa riflessione sul passato non può avvenire se non cominciando dall’apprendimento scolastico; in secondo luogo, l’esistenza dl insegnanti, e più in generale di operatori culturali, fortemente convinti dell’importanza educativa delle proprie materie può risultare utile paradigma anche a tutti i colleghi, specie in un momento di ripensamento sui valori educativi della scuola e delle discipline che in questa s’impartiscono: poiché è stata per anni diffusa l’idea che la scuola debba mirare ad altro, che non sia l’apprendimento di contenuti culturali (una scuola che socializza, che informa, che ristabilisce gli equilibri sociali, che supplisce strutture sanitarie e sociali carenti, e via dicendo), la testimonianza di docenti, convinti che il contenuto delle proprie discipline sia da considerare il necessario tramite per iniziare un cammino educativo capace di dare all’allievo una maturazione critica, può essere di capitale importanza per tutti.

Ciò premesso, vorremmo segnalare tre punti, intorno ai quali articolare una riflessione: e saremmo lieti se sulle brevi note che qui indichiamo ci pervenissero osservazioni e suggerimenti di abbonati e lettori.

1. Abbiamo parlato della necessità di una difesa coerente e intelligente: non vorremmo che si cogliesse in questa frase un incitamento a un atteggiamento difensivo, anziché propositivo. Dobbiamo innanzitutto essere convinti dell’importanza culturale che ha l’insegnamento del greco e del latino: l’aspetto della conoscenza della civiltà antica, in tutte le espressioni più mature, deve essere l’obiettivo dichiarato della nostra strategia educativa. Il che non vuol dire affatto insegnare meno bene le lingue; vuol dire piuttosto rendersi conto del carattere fortemente singolare che ha il nostro insegnamento linguistico. Da una parte non abbiamo la stringente necessità di mettere in grado gli allievi di “parlare” una lingua nuova dopo due settimane o meno, facendo concorrenza ai più reclamizzati corsi di lingue in dischi o per corrispondenza; non siamo assillati dal dover inculcare qualche decina di frasi, utile per ordinare un po’ di cibi al ristorante o chiedere quanto costa il biglietto dell’autobus. Il nostro insegnamento linguistico si pone in continua dialettica con la lettura dei testi e si sostanzia in questi: non si userà la lingua di Pericle per qualche allegra e scombinata conversazione tra docente e allievi, ma si cercherà di capire fino in fondo il significato delle parole, delle frasi, dei costrutti, che Pericle e i suoi contemporanei usavano. Fra l’altro, questo modo di concepire l’insegnamento linguistico permette una libertà assoluta anche nella valorizzazione dell’insegnamento linguistico stesso: privato dei suoi aspetti caduchi e contingenti, esso potrà mirare a una scoperta in profondità delle strutture linguistiche latine e greche, aiutare l’allievo a una riflessione su come era organizzato il sistema linguistico degli antichi, introdurlo a modi di concepire le realtà diverse, in maniera anche forte, dalla nostra (si pensi al sistema verbale greco, con la prevalenza del tempo psicologico sul tempo cronologico, per esempio), e quindi allargare il suo orizzonte culturale: più ancora, lo si metterà in grado di percepire la diversità ira varie organizzazioni linguistiche e quindi di chiedersi a quali differenti finalità di comunicazione mirassero le strutture delle lingue antiche. Ma il compito del docente di latino e di greco non si esaurirà nell’impartire le conoscenze linguistiche necessarie per l’affronto dei testi. Di tutti gli insegnamenti previsti nei vigenti programmi, quelli di latino e di greco sono forse quelli per cui più di tutti vale il richiamo all’interdisciplinarietà. Quello che per gli altri insegnanti e pura opzionalità, per noi è viva e cogente necessità. Vi sarà un’interdisciplinarietà esterna, che si tradurrà nella collaborazione con gli altri docenti che affrontano aspetti parziali dell’antico (la filosofia, l’arte, ecc.), ma vi sarà soprattutto un’interdisciplinarietà interna alla stessa materia, obbligata tanto per i docenti quanto per gli allievi. Questa interdisciplinarietà è innanzitutto legata al continuo e inevitabile correlarsi tra il piano della lingua e quello dell’espressione letteraria; e poi tra questa e le altre forme di espressione dell’arte e del pensiero; e poi tra queste e più in generale lo svilupparsi della storia, della struttura della società, dell’evolversi delle vicende religiose, sociali, tecnico-scientifiche proprie di ogni epoca.

Come si potrebbe leggere un brano di Cicerone senza un’adeguata conoscenza della storia della filosofia antica? Come si può leggere Sallustio (e diamo proprio in questo fascicolo un esempio concreto di lettura mediante l’analisi di una versione sallustiana) senza un’adeguata conoscenza del momento storico a cui l’autore si riferisce? Ma vi sono anche richiami a momenti successivi di eventi che traggono dalla riflessione o dall’imitazione dell’antico il loro essere: che non vuol dire solamente Virgilio in riferimento a Omero, Catullo in riferimento a Saffo e poco più; vuol dire che non e possibile per esempio, una lettura di Teocrito che non tenga conto dell’immensa potenzialità insita, fin dalle sue origini, nel filone bucolico, una potenzialità quasi sviscerata in decine e centinaia di riletture e do imitazioni rincorrentisi per secoli e millenni in ogni parte d’Europa; vuol dire che non si può leggere Menandro senza pensare, non solo a Plauto, ma anche a Shakespeare, a Molière, a Goldoni. Evitiamo per il momento di pensare a che cosa ciò significhi in termini di qualificazione culturale dei docenti e quindi ai necessari meccanismi si selezione che garantiscano la presenza sulla cattedra di chi è  realmente capace di un lavoro del genere, e ne ha la voglia  e l’impegno), perché non è nostro intento  discuterla qui.

 2. Col 1987 termina il primo quarto dl secolo dalla riforma della media inferiore. Gli ultimi anni vedono un progressivo fiorire di corsi di latino, dapprima quasi esclusivamente in scuole medie private, ora anche in molte pubbliche. Tali corsi hanno naturalmente validità e serietà diverse a seconda delle situazioni, ed è naturale che sia cosi, in quanto lasciati all’inventiva, e quindi all’arbitrio, di docenti e di genitori che si trovano ad operare in situazioni molto differenti e con esigenze parimenti diverse; e non è escluso che in qualche caso abbiano dato anche risultati più controproducenti che efficaci: ogni situazione deve sempre scontare qualche errore iniziale, prima di trovare una propria stabilità.

Ma ciò che interessa vedere è che il legislatore è stato di fatto superato e contraddetto da un’esigenza di base che è andata via via crescendo d’intensità e profondità. Com’è noto, il latino visse agli inizi, nella nuova media, una vita stentata: opzionale in terza, visto in funzione dell’italiano in seconda (il che avrebbe significato, se il dettato dei programmi fosse stato rispettato, imbastire corsi di fonologia generale e dl filologia romanza a ragazzetti di undici o dodici anni ancora malfermi nel possesso dell’ortografia italiana); poi, con lungimirante provvedimento, il latino venne del tutto abolito, in nome dell’uguaglianza e della fraternità fra i ceti. Si è ottenuto l’effetto inverso: chi vuole oggi il latino deve pagarselo di tasca propria, e si crea cosi un più profondo divario sociale tra chi può permettersi la retta dell’iscrizione al corso libero e chi, non potendolo, è  inevitabilmente emarginato. Quanto poi sarebbe auspicabile una minima conoscenza di latino (o almeno di italiano!) in una quarta ginnasio o una prima liceo scientifico, lo sanno gli insegnanti che si trovano a operare nel biennio. La quarta ginnasio ha un aspetto traumatico per molti ragazzi: trovarsi a contatto con due lingue difficili e lontane dalla nostra in un solo colpo è di fatto assai duro, specialmente se l’allievo fino a quel momento non è stato abituato a un metodo di studio serio e maturo. Mentre cosi si faceva via via più viva nei genitori l’esigenza di non far arrivare alla scuola superiore i propri figli senza quel minimo di conoscenze basilari, che consentisse un avvio sereno nella scuola superiore, il ministero, sempre pronto a seguire le mode quanto più queste si rivelano causa di confusione, proponeva sperimentazioni di fisica, di informatica e cosi via, avvicinando cosi la scuola italiana a certi modelli di scuola americana, ove l’allievo sa di tutto un po’, ma niente seriamente, e il curriculum della scuola contempla la fotografia come la danza, la ceramica come il cucito, e cosi via. Se l’intenzione del legislatore del 1962, ribadita spesso negli anni successivi, era quella di diminuire la selezione, si è ottenuto esattamente l’effetto opposto: si è mandati i ragazzi di quattordici anni spesso a un massacro, reso ancor più forte da qualsiasi mancanza di punti di riferimento culturali capaci di orientarlo con un minimo di sicurezza nella scelta della superiore.

 3. Un nuovo richiamo cronologico è nell’anno che si apre: vent’anni dal 1968, ormai mitico. Non apparteniamo a quanti vedono le vicende storiche come o tutte buone o tutte cattive: il ‘68 ebbe anche momenti positivi, e fu indubbiamente sostenuto, almeno inizialmente, da un desiderio di rinnovamento e di eliminazione delle contraddizioni sociali che siamo disposti a riconoscere come sincero. Ma i portati del ‘68 nell’ordinamento scolastico ebbero tutti effetti dirompenti: ministri pavidi o in cerca di consenso diedero avvio a una serie di ritocchi, i cui esiti funesti si possono valutare appieno solo a distanza di vent’anni: la riforma della maturità, con l’imposizione di un esame dai contorni fumosi assolutamente inadatto a garantire ai migliori esito buono e ai mediocri una esatta valutazione; l’accesso indiscriminato alle facoltà universitarie, dando adito a una mortalità universitaria elevatissima (si veda per esempio nelle facoltà di lingue quale sia il rapporto fra iscritti e laureati, o quale sia a lettere il rapporto tra iscritti e laureati in corso); la divisione dell’anno scolastico in quadrimestri, e così via.

Ma quel che ci importa osservare è che, proprio a poca distanza dallo scoppio del ‘68, all’inizio degli anni Settanta, i partiti politici, in una gara spasmodica, presentarono uno dietro l’altro progetti di riforma della superiore che, seppure diversi in qualche particolare, si assomigliavano però tutti quanto a carica dirompente della tradizione scolastica, e avevano tutti in comune il dogma dell’unitarietà e, all’interno dl questo, dell’elevazione dell’obbligo scolastico in un contesto unitario. Chi si permetteva dl asserire che non era possibile imporre gli stessi programmi a tutti, e neppure insegnare italiano o matematica allo stesso modo in un liceo classico o in una scuola per ragionieri, era tacciato con epiteti svariati, ma comunque passava per retrogrado e incapace dl percepire le novità del tempi (chi scrive queste note se lo è sentito dire da parlamentari impegnati nelle commissioni scuola).

Per fortuna, l’intensità del dibattito è andata via via scemando, e oggi, se si eccettua qualche nostalgico degli anni passati, la situazione è sensibilmente cambiata. Del resto, in altri paesi (vedi la Francia) si è realizzato un tipo di scuola simile a quello preconizzato negli anni Settanta: ci si è accorti dell’errore e ora si sta ritornando sui propri passi. Se non altro, in Italia, si è evitato lo scotto dl un’esperienza negativa, e si può vedere ora, in prospettiva, quanto dl sbagliato e di incoerente si annidasse in certe concezioni ormai superate; sempreché, naturalmente, la sorte non riporti tra breve al vertice del ministeri qualche epigono delle passate stagioni, che cerchi dl imporre con circolari e decreti modelli dl scuola ormai anacronistici.

Anche per questo, dunque, è importante che gli insegnanti, in questo momento dl transizione, elaborino progetti relativi alla propria disciplina, rispondendo anche agli inviti pervenuti ultimamente (vedi circolare ministeriale del 9 marzo 1987); occorre una nostra capacità dl proposta, che orienti in modo deciso le scelte future relative alla scuola. E’ necessario che le future riforme della scuola siano fatte dai politici in sintonia con i docenti; in anni passati ogni provvedimento e ogni cambiamento è stato fatto, non sulla testa dei docenti, bensì contro di essi (e anche contro i genitori e gli interessi veri degli studenti). Poiché siamo convinti che questo modo di procedere stia ormai volgendo ai termine e comunque affermiamo il valore di una democrazia in cui le decisioni sono maturate dopo un dialogo con la base e sono in sintonia con le attese di questa, ci richiamiamo ancora a. una capacità di progetto culturale ed educativo che faccia della persona umana il centro d’attenzione del nostro operare. Zetesis si augura di poter fare da cassa di risonanza e di mettersi al servizio di questa rinnovata progettualità.

 

      

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